sabato 31 dicembre 2016

Il 1956, il Pci e il progetto di una nuova società. La via italiana al socialismo



 “Il 1956, il Pci e il progetto di una nuova società. La via italiana al socialismo”
(intervento di Dino Greco)

Diceva Togliatti nella sua relazione alla I sottocommissione della Costituente dedicata al tema cruciale dei Principii dei rapporti economico-sociali che “in un regime di pura libertà economica, cioè di pura competizione è inevitabile che masse ingenti di donne e di uomini siano privi degli indispensabili mezzi di sussistenza” perché “questa è infatti una delle condizioni affinché tutto il sistema economico capitalistico possa funzionare, ed è conseguenza di uno sviluppo che tende da un lato a concentrare le ricchezze nelle mani di gruppi ristretti di privilegiati, mentre dall’altro lato aumenta il numero dei diseredati”.  
E aggiungeva che “anche se la massa dei diseredati in periodi di prosperità e in paesi particolarmente favoriti può tendere a diminuire, essa torna ad accrescersi in modo pauroso quando inesorabilmente sopravvengono i periodi di crisi”.
Togliatti proseguiva ricordando che “l’esperienza di tutti i paesi a capitalismo sviluppato mostra come per lo sviluppo stesso delle leggi interne dell’economia capitalistica la libera concorrenza genera il monopolio, cioè genera la fine della libertà. E si creano così ancora più rapidamente le condizioni in cui la proprietà dei mezzi di produzione e quindi la ricchezza tendono a concentrarsi nelle mani di pochi gruppi di plutocrati, che se ne servono per dominare la vita di tutto il paese, per dirigerne le sorti nel proprio interesse esclusivo, per appoggiare movimenti politici reazionari, per mantenere ed instaurare le tirannidi fasciste, per scatenare guerre imperialistiche di rapina, operando sistematicamente contro l’interesse del popolo, della Nazione”.
Poi arriva la stoccata decisiva: E’ per questo – affermava Togliatti - che occorre abbandonare “le concezioni utopistiche del vecchio liberalismo per dare corso ad un’opera ampia e radicale di riforma della struttura economica della società” perché “il prevalere nei principali paesi dell’Europa capitalistica di gruppi plutocratici reazionari ha portato in alcuni di essi alla totale liquidazione delle istituzioni democratiche, in altri ad una seria minaccia per la loro esistenza, in tutti o quasi tutti al tradimento dell’interesse nazionale da parte delle caste dirigenti reazionarie, e a quell’esasperato acutizzarsi di conflitti imperialistici che doveva metter capo alla catastrofe immane della seconda guerra mondiale”.
Quindi, ecco la trama essenziale su cui incardinare la nuova costituzione, il progetto di società di cui si doveva forgiare la strumentazione: centralità del lavoro, programmazione economica, ruolo decisivo della mano pubblica, cooperazione, forme di proprietà diverse da quella privata, controllo operaio sulla produzione, nazionalizzazione delle imprese che per il loro carattere di servizio pubblico debbono essere sottratte all’iniziativa privata, libertà di impresa rigorosamente subordinata all’interesse sociale, sino all’esproprio della proprietà ove questo principio venga contraddetto.
E “democrazia progressiva”, come espansione della partecipazione popolare verso forme inedite di produzione e socializzazione della ricchezza prodotta dal lavoro sociale.
Insomma: un processo di transizione, verso una società non più capitalistica. Un processo nel quale la dialettica e il conflitto sociale venivano concepiti come elementi costitutivi del progresso del Paese.
E’ questo il telaio politico su cui si sviluppa, nel ’56, l’elaborazione dell’VIII congresso del Pci, nell’intento di dare corpo ad un progetto, ad un’architettura politica e sociale capace di rispondere al tema gramsciano della rivoluzione in Occidente, di una via italiana al socialismo, sganciata dalla forma storica in cui il socialismo si era realizzato nell’Urss, capace di coniugare diritti civili e diritti sociali, libertà ed uguaglianza.

Certo, nella Costituzione non c’è scritto tutto questo, almeno non nei suoi presupposti teorici, ma c’è molto di tutto questo, nell’insieme e nelle parti, sia nei principii fondamentali che, in modo speciale, nei 13 articoli che compongono il titolo III.
Ed è per questa solida ragione che dal momento stesso della sua promulgazione la Costituzione è stata attaccata, con forza tanto maggiore quanto più essa metteva in forse l’egemonia delle classi dominanti e i rapporti sociali esistenti.
Non deve dunque sorprendere se fu l’irruzione sulla scena politica di un formidabile movimento operaio, fra la fine degli anni Sessanta e buona parte dei Settanta, a fare rivivere la Costituzione nel suo spirito originario e nei suoi contenuti più innovativi. Come non deve sorprendere se al declino prima e alla sconfitta poi di quel movimento, insieme alla dissoluzione del socialismo realizzato, sia corrisposto l’affermarsi del dominio assoluto del capitale e della sua ideologia in forme violentemente regressive in Italia come in larga parte del mondo.

Dalla fine degli anni Quaranta il mondo è profondamente cambiato.
Lo è, in primo luogo, il modello di accumulazione capitalistica conseguente al processo di finanziarizzazione dell’economia con i tratti di una vera e propria superfetazione usuraria che reagisce sull’economia reale distruggendo forze produttive e consumando irreversibilmente risorse naturali, con una rapidità che non ne consente il rinnovo.
E’ un modello che si fonda su una concentrazione inaudita della ricchezza e del potere, sull’esproprio della sovranità popolare e sull’ostilità alle democrazie come plasmate dalle costituzioni antifasciste che - certo non a caso - sono diventate in varie forme il bersaglio dichiarato dei gruppi dominanti che sempre più inclinano verso una torsione oligarchica e totalitaria del potere.

Ebbene, merita osservare come la Costituzione italiana e la discussione che nel lavoro costituente ne rappresentò l’incubazione, siano – nel tempo presente e per certi versi più di prima - di una stupefacente attualità e indichino la strada di un processo possibile di aggregazione di soggettività politiche, sociali, culturali che vivacchiano separate in una impotente diaspora autodistruttiva, confinate nell’irrilevanza o nella subalternità.

Si è in questi anni tentato, con recidivante testardaggine, di formare schieramenti politici a sinistra, contenitori di sigle, per lo più in vista di appuntamenti elettorali, con l’intenzione rivelatasi velleitaria di coagulare una massa critica sufficiente a riconquistare come che sia una qualche rappresentanza istituzionale, una sorta di certificato di esistenza in vita.
Quanto ai contenuti di questi variopinti rassemblement, la ricerca è stata sempre piuttosto vaga, sulla scia del convincimento che andare per il sottile avrebbe fatto morire il bambino nella culla.
Così è accaduto, ogni volta, che il bambino affetto da strutturale gracilità, si è schiantato subito dopo il primo vagito, quando non addirittura durante la gestazione. Fuor di metafora, le operazioni politiciste, prive di base sociale e di vero progetto politico, hanno sempre prodotto improbabili accrocchi e fragorosi insuccessi.
Si è anche cercato di aggirare la questione cruciale del programma con formule lessicali all’apparenza radicali, contrassegnate dal sigillo dell’antiliberismo.
Peccato che l’incerta semantica del termine non sia riuscita a spazzare via l’eterogenesi dei fini che si nascondeva dietro la formula solo in apparenza radicale e unificante.
Il fatto è che non si sfugge al tema di fondo: se non è chiaro dove si vuole andare è del tutto vano scapicollarsi nella ricerca di fantasiose ricette organizzativistiche.

Ora, come spesso accade, sono i fatti, la prassi sociale ad illuminare la strada, a far intravvedere possibilità nuove, semplici, ma rimaste inopinatamente inesplorate.

Per uno di quei paradossi che ogni tanto si verificano nella storia, dobbiamo questo a Matteo Renzi e ad essere sinceri dovremmo proprio ringraziarlo. Dovremmo ringraziarlo per la sua incontenibile brama di potere, per avere tentato di travolgere la democrazia costituzionale attraverso un plebiscito che se vinto avrebbe cancellato il parlamento e consegnato il potere, tutto il potere, nelle mani di una consorteria di lestofanti che in questi anni hanno dato plateale dimostrazione degli interessi a cui sono asserviti.
Dovremmo ringraziarlo per avere rimesso in moto la sovranità del popolo che è corso in massa alle urne non per incoronarlo, ma per mandarlo a casa.
Infine, cosa della massima importanza, dovremmo ringraziarlo per avere contribuito, sebbene a sua insaputa, e comunque contro ogni sua intenzione, a riaccendere i riflettori sulla Costituzione, non soltanto sui temi, certamente rilevantissimi, della forma di governo, dello Stato, dell’architettura istituzionale, ma anche sui fondamentali principi costituzionali, sulla nervatura sociale, sul progetto di società e di democrazia che vive nella Carta e che da oltre trent’anni è stato messo in sonno, dimenticato, scardinato.

Il voto, come tutti hanno potuto vedere, ha avuto diverse facce, ma fra queste c’è un tratto fondamentale e decisivo: il voto ha messo i ricchi e coloro che sentono di avere le terga al riparo da una parte e i poveri, i precari, i lavoratori, gli sfruttati dall’altra.
Una parte dei quali ha capito, per istinto, che la Costituzione sta dalla loro parte mentre quelli che la vogliono liquidare stanno dall’altra: si è trattato, per usare le parole giuste, di un voto socialmente connotato, sebbene non ancora di classe.
Chi sta pagando drammaticamente la crisi ha pronunciato un solenne “Basta!” al potere che ha somministrato potenti dosi di austerità a chi sta in basso e laute prebende a chi sta in alto e che ha fatto della disuguaglianza il proprio distintivo politico.

Certo, questa rivolta si è espressa nella sola forma oggi possibile.
Quella sorprendente corsa alle urne ha supplito al vuoto di un conflitto sociale organizzato e alla latitanza di un progetto politico che nessun soggetto politico ha sin qui saputo proporre con sufficiente chiarezza.

Per questo credo che l’esito del referendum parla un linguaggio chiarissimo e formula una domanda esplicita anche al frammentatissimo arcipelago della sinistra non addomesticata dalle sirene renziane, estranea e ostile al definitivo approdo liberale del Pd e purtuttavia (sino ad ora) incapace di trovare un punto di incontro programmatico forte, durevole, tale da prefigurare un blocco sociale e politico alternativo alle due destre in cui si articola la rappresentanza delle classi dominanti, in Italia e in Europa.

Ebbene, io credo che il messaggio che deve giungere a tutte le orecchie ricettive è questo: fare proprio, senza omissioni o riduzioni, il contenuto politico-sociale fondamentale della Carta del’48, declinarlo in obiettivi chiari e percepibili da tutti e da tutte, farlo divenire il comune denominatore, il patto vincolante di un progetto trasformativo della società italiana, e intorno ad esso coagulare una coalizione di soggettività politiche diverse, tutte chiaramente visibili nella propria identità e autonomia, eppure tutte solidalmente unite nella realizzazione di quel disegno.
Basta, dunque, con le fallimentari scorciatoie politiciste con cui sino ad oggi si è preteso di rifondare la sinistra mettendo intorno ad un tavolo soggetti in cerca d’autore, contenitore senza contenuti.
Il paradigma va rovesciato perché, per una volta, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto cambia.
Prima viene il progetto politico, e precisamente quello incardinato nella Legge fondamentale che abbiamo per così dire, “riconquistato” in uno scontro campale e che, a leggerla bene, non fa sconti a nessuno.
  
Per lungo tempo quel testo è stato smarrito, o sottovalutato, da alcuni interpretato come una sorta di icona inerte, da celebrarsi a buon mercato negli esercizi retorici senza concrete conseguenze, da altri che pensano non valga la pena impegnarsi per meno della rivoluzione, come un un tiepido compromesso di impronta borghese. Quando a me pare evidente che viva nella Costituzione un impianto di classe molto più robusto che in tante superficiali declamazioni di antiliberismo.
Mi fermo qui perché non è qui il luogo ove declinare, punto per punto, il progetto politico che nella Costituzione trova il proprio centro di annodamento e che può rappresentare l’incipit di una riscossa democratica.
Purché sia chiaro che è questo il lavoro che da oggi dobbiamo fare, senza perdere un solo momento.

lunedì 19 dicembre 2016

Vinta una battaglia, ma la guerra è ancora aperta



 
Credo che nessuno pensasse seriamente che la sconfitta avrebbe indotto Matteo Renzi all’abbandono della politica. Men che meno lui. Lo scenario della debacle era talmente lontano dalle sue più pessimistiche previsioni che l’ipotesi di un ritiro alla vita privata era un puro espediente retorico, serviva a spaccare diametralmente il paese e costringerlo ad un plebiscito sulla sua persona. L’idea malsana somigliava a quella a suo tempo propugnata dal fu ideologo della Lega Gianfranco Miglio, il quale sosteneva che la costituzione si può (anzi si deve) cambiare a maggioranza e che dopo il dissenso lo si regola nelle piazze come problema di ordine pubblico!
La battaglia l’abbiamo vinta e questo successo apre un campo di lavoro per il futuro prossimo; la guerra invece è del tutto aperta, perché la democrazia è tuttora sotto assedio e – per continuare nella metafora - dovremo combattere casa per casa.
Il finto passo indietro di Renzi, con il varo di un governo indecente, plasmato a sua immagine e somiglianza e da lui telecomandato farà nel dettaglio quello che gli viene ordinato di fare. E precisamente: rimuovere la sconfitta, spostare in là nel tempo sia le elezioni sia la resa dei conti congressuale nel Pd, affidare al più squalificato dei governi della Repubblica il compito di fare un’altra legge elettorale che scongiuri un vero ritorno al proporzionale e prepari il pieno ritorno al potere di Renzi e della sua combriccola per continuare nell’opera di demolizione del poco che resta ancora in piedi della Costituzione.
C’è però un intralcio rilevante sulla loro strada: il referendum sul Jobs act e sulla disciplina degli appalti che ove le elezioni politiche non si tengano subito dovrà svolgersi in primavera. Renzi e i suoi sanno che una nuova bocciatura nelle urne rappresenterebbe la pietra tombale sull’intero impianto politico delle contro-riforme sociali che hanno caratterizzato l’azione di governo del centrosinistra, da Monti in avanti.
Bisogna tuttavia sapere che l’esito della partita non è scontato, malgrado la gravità di quei provvedimenti, dall’abolizione dell’articolo 18 ai voucher, per citare solo le misure più odiose, insieme all’abolizione delle pensioni di anzianità. Lo abbiamo già visto in altre occasioni, quando si trattò di difendere la scala mobile o quando provammo ad estendere a tutte le aziende, anche in quelle con meno di 16 dipendenti, l’efficacia dello Statuto dei lavoratori. Il fatto è che la tendenza all’astensione (contraddetta solo da quest’ultima consultazione) unita all’indicazione di disertare le urne da parte di qualche forza politica di peso può produrre facilmente, come spesso ha prodotto, l’effetto di non fare raggiungere il quorum. E una sconfitta sui referendum sociali rovescerebbe l’esito della straordinaria vittoria che abbiamo appena finito di festeggiare.
Dunque, come si vede, non bisogna “rimanere sui colpi”. Non appena avremo certezza che le elezioni politiche slitteranno, dovremo attrezzare la campagna, questa volta per il “Sì”, aggregando, come e più che per il referendum contro la “deforma”, tutte le forze disponibili. Potete essere certi che lo scontro non sarà meno feroce.

lunedì 12 dicembre 2016

L’occasione che non dobbiamo perdere




Ad essere sinceri dovremmo ringraziare Renzi. Dovremmo ringraziarlo per la sua bulimia di potere. Per avere tentato di travolgere la democrazia costituzionale attraverso un plebiscito che se vinto avrebbe cancellato il parlamento e consegnato il potere, tutto il potere, nelle mani di una consorteria di lestofanti che in questi anni avevano dato plateale dimostrazione degli interessi a cui sono asserviti. Dovremmo ringraziarlo per avere rimesso in moto la sovranità del popolo che è corso in massa alle urne non per incoronarlo, ma per mandarlo a casa. Infine, cosa della massima importanza, dovremmo ringraziarlo per avere contribuito, sebbene a sua insaputa, e comunque contro ogni sua intenzione, a riaccendere i riflettori sulla Costituzione, non soltanto sui temi, certamente rilevantissimi, della forma di governo, dello Stato, dell’architettura istituzionale, ma anche sui fondamentali principi costituzionali, sulla nervatura sociale, sul progetto di società e di democrazia che vive nella Carta e che da oltre trent’anni è stato messo in sonno, dimenticato, scardinato.
Il voto, come tutti hanno potuto vedere, ha avuto diverse facce, ma fra queste c’è un tratto fondamentale e decisivo: ha messo i ricchi e coloro che sentono di avere le terga al riparo da una parte e i poveri, i precari, i lavoratori, gli sfruttati dall’altra. Questi ultimi hanno capito, per istinto, che la Costituzione sta dalla loro parte e quelli che la vogliono liquidare dall’altra. Si è trattato, per usare le parole giuste, di un voto di classe.
Chi sta pagando drammaticamente la crisi ha pronunciato un solenne “Basta!” al potere che ha somministrato potenti dosi di austerità a chi sta in basso e laute prebende a chi sta in alto e che ha fatto della disuguaglianza il proprio distintivo politico.
Ma l’esito del referendum parla un linguaggio chiarissimo anche al frammentatissimo arcipelago della sinistra non addomesticata dalle sirene renziane, estranea e ostile alla deriva liberista del Pd e purtuttavia (sino ad ora) incapace di trovare un punto di incontro programmatico forte, durevole, tale da prefigurare un blocco sociale e politico alternativo alle due destre in cui si articola la rappresentanza delle classi dominanti, in Italia e in Europa.
Ebbene, il messaggio che deve giungere a tutte le orecchie ricettive è questo: fare proprio, per intero e senza omissioni, il contenuto politico della Carta del’48, farlo divenire il comune denominatore di un progetto trasformativo della società italiana, e intorno ad esso coagulare una coalizione di soggettività politiche diverse, tutte chiaramente visibili nella propria identità e autonomia, eppure tutte solidalmente unite nella realizzazione di quel disegno.
Basta, dunque, con le fallimentari scorciatoie politiciste con cui sino a ieri si è preteso di rifondare la sinistra mettendo intorno ad un tavolo soggetti in cerca d’autore, contenitore senza contenuti. Il paradigma va rovesciato: prima viene il progetto politico, l’attuazione della Costituzione, senza sconti per nessuno.
Per una volta, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto cambia.

lunedì 5 dicembre 2016

La Costituzione è salva! Ora facciamola vivere!






Contro mance dispensate a dritta e a manca, contro ricatti e profezie di sventura, contro palesi mistificazioni, malgrado l’occupazione di dimensioni senza precedenti di tutti i canali di informazione, i cittadini hanno respinto con un voto di proporzioni clamorose, il tentativo di manomettere in profondità la Costituzione e trasformare l’Italia in un principato, di inaugurare un regime, di rendere il potere costituito talmente monolitico e privo di contrappesi da divenire inamovibile.
Renzi ha cavalcato con un’arroganza e una protervia senza pari la convinzione che la maggioranza degli italiani lo avrebbe incoronato con un plebiscito.
Solo tardivamente deve essersi accorto che i conti non tornavano, che l’esca avvelenata non possedeva le virtù seduttive che egli aveva immaginato. E allora ha rilanciato la sfida, in forme sempre più ultimative, chiarendo anche ai più sprovveduti che era sulla sua persona che egli chiedeva di decidere. Ha speculato male, ha sottovalutato il Paese che pensava di dominare come un caudillo ed ora, travolto da quasi 20 milioni di no, è costretto a dimettersi, lasciando dietro di sé un cumulo di macerie, una legislazione sociale che ha contribuito a devastare la vita di milioni di persone, a partire da quel mondo del lavoro dipendente che vive la sua peggiore stagione dal varo della Repubblica.
Ora che i cittadini hanno utilizzato la sovranità popolare per ristabilire le regole del gioco, occorrerà dedicarsi, senza perdere un solo minuto, a perseguire due grandi obiettivi: varare una legge elettorale proporzionale, come la vollero i fondatori della Carta, spazzando via gli orrori del sistema maggioritario, ripristinando l’uguaglianza del voto, e costruire un movimento per la piena attuazione della Costituzione del ’48, del progetto di società che vive in esso, lasciato in sonno per un verso e demolito per un altro attraverso la sistematica elusione e violazione dei principi fondamentali che ne formano l’ossatura.
L’attacco alla Costituzione di quest’ultimo anno ha avuto, a dispetto delle intenzioni di coloro che l’hanno scatenato, un effetto dal quale oggi va tratto tutto il bene possibile. Quello di riaccendere i riflettori sull’atto fondativo della Repubblica, sul suo carattere di democrazia progressiva, irriducibilmente antifascista e antiautoritaria, ostile a qualsiasi revanscismo guerrafondaio, socialmente connotata, con al suo interno un progetto di società che piega l’iniziativa privata al bene sociale, che impone allo stato di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono la realizzazione di un’uguaglianza reale, il pieno sviluppo della persona umana e che si frappongono alla piena partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Brandire la Costituzione e farne il vessillo di uno straordinario progetto di rinascita del Paese, chiamando a raccolta tutte le soggettività disponibili ad ingaggiarsi in questo cimento: ecco l’opportunità e il compito che sono davanti a noi.

lunedì 28 novembre 2016

Renzi: fra mance e ricatti per estorcere un Sì




 Ricordate Il grande Totò che mette in scena la parodia dell’imbonitore che promette mirabilie per piazzare la sua merce scadente?: “Venghino signori, venghino, io non son qui per vendere, son qui per regalare”.

Ebbene, la farsa, che ora rischia ti tramutarsi in tragedia si ripete sotto i nostri occhi, a spese nostre e della democrazia repubblicana.
Dopo avere spaccato il paese in due, dopo avere accarezzato l’idea malsana di concentrare tutto il potere nelle proprie mani, il guappo di Rignano è preso dalla paura blu di non farcela. E allora, visto che gli italiani non sembrano disposti a bere la minestra avvelenata, gioca sporco, più sporco del solito, mischiando promesse e minacce, mance e profezie di sventura se non dovessimo dargli retta, se non dovessimo gradire il “Sì” che egli pretende di estorcerci il 4 dicembre.
E allora via con le promesse, che tanto poi, a babbo morto, chi se ne ricorderà, e se mai dovesse ricordarsene cosa potrà più farci.
Così compaiono “bonus” da ogni parte e per ogni tasca: bonus paternità, bonus per la cultura e ora anche per la musica per i neo-diciottenni, bonus per le future mamme, bonus per gli asili nido, recupero di un’altra tranche di “esodati”.
C’è un problema al Sud dove i sondaggi danno il “No” in chiaro vantaggio? Niente paura! c’è pronta una mancia elettorale anche lì: saranno prorogate le decontribuzioni per i nuovi assunti.
Il corruttore si avvale di un imponente apparato mediatico che in barba ai doveri elementari di una corretta informazione propala senza decenza le sue balle a getto continuo.
E tuttavia l’uomo è preso dal sospetto che tutto ciò non basti. E allora brandisce la clava chiodata e minaccia, minaccia, minaccia. E torna da dov’era partito, da quel “se perdo me ne vado”, che aveva per un breve periodo tolto di mezzo su suggerimento dei suoi superpagati consulenti. Ora, in preda al delirio, ha ricominciato a farneticare, paventando l’avvento di “governi tecnici” nel caso prevalgano i No. Insomma, Renzi torna con quel refrain del “dopo di me il diluvio” che sta da solo ad indicare la pericolosità di quest’uomo e del suo disegno reazionario.
L’ultima tegola gli è franata addosso con la sentenza della Corte che ha annullato la legge Madia che voleva attuare le privatizzazioni esautorando le regioni. Renzi è sbottato e se l’è presa con la “burocrazia” che per lui, appunto, è sinonimo di “democrazia”. Vuole comandare e basta, insofferente ad ogni regola. Come tutti i dittatori, dichiarati o mascherati.
La strategia della tensione è in pieno dispiegamento. Dopo Confindustria, dopo Bankitalia, dopo i grandi gruppi finanziari, ecco fare irruzione il Financial Times, il quotidiano della City londinese che spara la sua cannonata: “Italiani, votate Sì, altrimenti 8 banche italiane saranno a rischio di fallimento”.
Ma cosa c’entra la Costituzione con il dissesto delle banche? Ovviamente nulla ma, come nel paese dei balocchi, lor signori pensano si possa dire di tutto.
Mettiamoli alla porta.




lunedì 21 novembre 2016

Fermiamo i rottamatori della Costituzione





Più si avvicina la scadenza del voto e più crescono l’angoscia e l’accanimento protervo con cui il Pd e i peggiori cortigiani di Renzi tentano di truccare i termini della contesa. Nell’impresa di contraffazione della verità si avvalgono di un dispiegamento mediatico che non ha precedenti: via etere e tramite carta stampata assistiamo ad un bombardamento ossessivo che oscura le ragioni del “No” o le rappresenta in modo caricaturale, mentre esalta con martellante ripetitività quelle del “Sì”: Renzi è dappertutto, esce ormai anche dal buco dei lavandini. Il monopolio comunicativo, l’occupazione ossessiva dello spazio pubblico dà un’idea di ciò che potrà accadere se l’esito del referendum consegnerà a Renzi l’esorbitante potere che egli rivendica. A ben vedere, proprio l’arroganza messa in mostra rivela più di ogni altra cosa le intenzioni sue e del blocco di potere che gli è avvinto.
Costoro hanno travolto tutto, persino la Carta dei valori del Pd del 2008 dove si trova scritto, letteralmente, questo: “La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione di limitazione di tutti i poteri. Il Partito democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale”.
C’è da non credere ai propri occhi! Ora costoro stanno facendo l’esatto opposto. E a farsene protagonista è proprio il governo, che per definizione dovrebbe astenersi da ogni intervento sulla Costituzione.
Provate a immaginare, di fronte ad un simile precedente, cosa accadrebbe se ogni governo, ogni coalizione che conquistasse il potere dovesse sentirsi in diritto di cambiare radicalmente la Legge fondamentale, alterandone principi e cambiando la forma dello Stato, a proprio piacimento. Sarebbe la stessa idea di Costituzione ad essere distrutta. Si annienterebbe ogni forma di coesione sociale, si preparerebbe uno stato di guerra civile permanente dalle conseguenze drammatiche.
Il crinale oggi è proprio questo.
Siamo di fronte ad un bivio: o si sta con i “deformatori” e si cancella la Costituzione nata dalla sconfitta del fascismo, oppure si batte questo disegno reazionario e si rilancia la lotta per la piena applicazione della Costituzione, dei principi di giustizia, libertà ed uguaglianza che ne costituiscono il cuore, ma che negli ultimi trent’anni sono stati via via calpestati.
Guardate da che parte sono schierate le associazioni imprenditoriali (tutte), le banche, i grandi attori della speculazione, i poteri europei protagonisti delle politiche di austerità che hanno impoverito i popoli, defraudandoli di ogni sovranità e capirete quali sono gli interessi in gioco in questa partita.
Il 4 dicembre possiamo, dobbiamo fermarli.

lunedì 14 novembre 2016

Lezioni americane







Lezioni americane

A cose fatte assistiamo ad uno sciame di piagnistei fra i democratici e progressisti americani ed europei per la vittoria di Donald Tramp, il quale contro il pronostico di quasi tutti i media statunitensi ha incassato oltre 60 milioni di voti e vinto in 29 Stati, proprio in quelli decisivi del midwest operaio dove deindustrializzazione, disoccupazione e caduta dei salari hanno morso di più e dove l’affluenza al voto è stata superiore a quella del 2012.
Per capire cosa è successo e perché occorre fare un passo indietro. Nelle primarie democratiche era prepotentemente emerso un fatto nuovo che si chiama Bernie Sanders. Il settantaquattrenne senatore indipendente del Vermont aveva deciso di entrare in lizza per la presidenza nel partito democratico, si era definito socialista, senza se e senza ma, e aveva presentato un programma di nettissima impronta sociale quale mai si era visto nella storia delle elezioni presidenziali americane. Sanders aveva tutto contro di sé,
e invece ha preso ben 13 milioni di voti e ha vinto in 15 Stati. I giovani hanno visto in lui un candidato lontano anni luce dal funzionamento corrente dell’economia e della società e l’hanno votato con una percentuale del 71%, con punte dell’86% in Nevada, dell’84 in New Hampshire, dell’80% negli Stati del Midwest. Per quattro mesi egli ha destabilizzato il sistema politico statunitense, ha fatto tremare l’establishment, ha rischiarato il plumbeo orizzonte delle anemiche sinistre mondiali. L’esito era segnato, ma questa scossa ha fornito un’indicazione nitida per un possibile percorso alternativo. La conventio ad excludendum regna sovrana nel sistema politico statunitense rigidamente bipolare: i tentativi di fondare un terzo partito sono sempre stati respinti e neutralizzati. Fin dall’800 negli USA c’è stato un fortissimo pregiudizio antisocialista: con interventi di milizie private della Pinkerton contro scioperanti e manifestanti. A differenza di Hillary Clinton, Sanders non ha mai votato a favore della guerra in Iraq; a differenza di Barack Obama, non è uno che promette di chiudere Guantanamo e dopo 8 anni quella vergogna sta ancora lì; né è uno che scende a patti con le banche.
Sanders ha sempre tenuto un linguaggio che ricorda quello di Franklin Delano Roosevelt. Il voto per Sanders ha espresso l’indignazione di fronte allo strapotere delle banche, di fronte alla doppia legalità, una che vale per i comuni cittadini e una che vale per Wall Street e per la grande finanza che può sperperare miliardi di dollari e che comunque non pagherà mai perché sarà sempre salvata da uno Stato complice.
Sanders ha commesso solo un errore. Quello di non portare lo scontro sino alle estreme conseguenze; quello di andare in soccorso di Hillary Clinton; quello di non cogliere l’occasione di fare ciò che non era mai accaduto prima: rompere la coazione verso i due partiti tradizionali, entrambi espressione delle classi dominanti; quello di non fondare il Partito socialista d’America.
Così ai cittadini non è rimasto che scegliere fra la Clinton, creatura di Wall street, dell’establishment finanziario, delle lobbies armiere militari legate al Pentagono, e il miliardario newyorkese, razzista, misogino, omofobo, contrario alla cultura ambientalista, ma almeno a parole disposto a farsi carico della disoccupazione, degli investimenti necessari alla ripresa interna e altrettanto ostile alla politiche aggressive della Nato. Molti americani hanno così scelto fra le sole due pietanze loro offerte, fra la padella e la brace.

domenica 6 novembre 2016

La miserabile parabola di Gianni Cuperlo




Dunque Gianni Cuperlo, detto cuor di leone, ha passato il guado ed è rientrato in buon ordine nei ranghi renziani, abbandonando la già tiepida pattuglia della sinistra interna che ha invece ribadito il suo No allo stravolgimento della Costituzione.
Cuperlo ha invece annunciato il suo Sì, come conseguenza, così ha spiegato, dell’accordo da lui personalmente raggiunto con gli uomini di Renzi per una futura modifica della legge elettorale.
I punti che lo hanno convinto alla giravolta sarebbero la disponibilità del Pd a rinunziare al ballottaggio (purché venga istituito un sistema che garantisca ugualmente la governabilità); poi l’attribuzione del premio di maggioranza alla coalizione e non più alla lista (cioè al partito) e infine una soluzione che elimini i capilista bloccati.
Ma se si elimina il ballottaggio cosa accadrà ove la soglia del 40% necessaria per ottenere il premio di maggioranza non venga raggiunta? Certo non vorranno tornare alla redistribuzione proporzionale dei seggi. E allora cosa faranno? Abbasseranno quella soglia in dimensioni così vistose da consentire l’incasso del premio a minoranze ancora più risicate?
La seconda innovazione consisterebbe nel ritorno al premio di coalizione, utile a dare fiato ad un Pd ridimensionato dai recenti insuccessi elettorali e preoccupato che il dispositivo inventato per il Pd medesimo finisca per favorire i 5 Stelle. In questo modo si potrebbe ricompattare il centro-sinistra ed ottenere anche il consenso di Berlusconi che vede nel premio alla coalizione la sola possibilità di tenere insieme un centro-destra altrimenti diviso e condannato alla sconfitta. Naturalmente, in cambio di un voto favorevole del caudillo di Arcore alla riforma costituzionale.
Buio ancora più intenso sulla questione dei capilista bloccati che farà del parlamento, ancora più di oggi, un’accolita di nominati.
Cuperlo crede, fortissimamente vuole credere, nelle promesse di Renzi, perché pensa che da una sua sconfitta possa venire una caduta del governo e il declino del Pd a cui tiene come le pupille dei suoi occhi. Ma le promesse di Renzi sono scritte sull’acqua – come ha capito persino Bersani – e se c’è una possibilità di mettere le mani sull’infame Italicum questa è proprio quella di votare No il prossimo 4 dicembre e bocciare la revisione costituzionale.
Del resto, quanto a promesse disattese, il Pd detiene un primato ineguagliabile, anche a proposito della Costituzione.
Sentite cosa c’era scritto nella Carta dei valori del Pd del 2008: La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza”.
Sembra incredibile, ma è l’esatto opposto di quello che oggi i rottamatori della Costituzione stanno facendo. Evidentemente la loro parola vale come il loro screditato personale politico: niente.

mercoledì 2 novembre 2016

Goro, Ferrara, Italia


Vogliamo dire due parole a quella parte degli abitanti dei comuni di Goro e di Gorino (in provincia di Ferrara) che si è resa responsabile della ripugnante cacciata di dodici donne e dei loro bambini, giunti nel nostro paese dopo un’odissea vissuta per terra e per mare.
Persone disperate che avrebbero dovuto essere ospitate in un ostello e che invece hanno subito il vigliacco ostracismo di quegli “onesti cittadini” i quali non hanno esitato ad elevare barricate per sbarrare la strada al pullman che trasportava i profughi per poi festeggiare e brindare al successo della loro nobile impresa.
C’è di straordinario che coloro a cui voi “onesti cittadini” avete negato la più elementare accoglienza, coloro a cui avete detto “di voi non ci frega un cazzo” non vi portano rancore, esprimono solo meraviglia.
“Ci siamo rimaste male quando abbiamo capito che la popolazione non ci voleva, forse perché non conosce le nostre storie”, hanno detto Belinda, Joi e Faith.
Noi, invece, in quanto vostri concittadini, noi che vi conosciamo bene, vogliamo rivolgere un semplice augurio a voi “timorati di Dio”, a voi che avete usato la prepotenza e il pugno di ferro per distruggere, insieme al brandello di speranza che tiene ancora in vita quelle sfortunate persone, anche l’ultimo briciolo di umanità che avrebbe dovuto vietarvi un comportamento così abietto.
L’augurio che vi rivolgiamo è di rinascere un giorno nelle medesime condizioni di coloro di cui vi siete fatti persecutori, di sentire cosa si prova a vivere sotto le bombe, a subire le più atroci torture, ad essere depredati di ogni avere, a subire le stesse inaudite violenze, a vedere le proprie donne violentate, i propri figli scaraventati dai barconi annegare fra i flutti. E infine, una volta giunti senza nulla più avere sulle sponde di un paese che si crede civile, vi auguriamo di incontrare l’accoglienza che voi avete loro riservato.
Tutto questo auguriamo di cuore a voi e a tutti coloro che in ogni parte d’Italia avrebbero seguito o già stanno seguendo il vostro squallido esempio. Perché è solo vivere sulla propria carne quell’esperienza che vi può insegnare qualcosa e restituirvi la dignità umana che avete perduto.
Leggiamo anche che il presidente del consiglio, Matteo Renzi, avrebbe detto che quella di Goro “è una vicenda molto difficile da giudicare”, perché “da un lato c’è comprensione, anche se non condivisione, nei confronti di una popolazione molto stanca e preoccupata, e dall’altra 11 donne e 8 bambini”.
Eccolo qui, l’ipocrita al lavoro. “Da una parte, dall’altra”, dice. I piatti della bilancia sono in equilibrio, dunque come si può giudicare. E se non si può giudicare, come prendere posizione? E soprattutto, come agire?
Avrebbe potuto evitare, almeno per una volta, di fronte ad una vicenda così grave, di lisciare il pelo agli istinti che trasudano un così spietato egoismo. Ma Renzi ha preferito non inimicarsi coloro che, a differenza dei profughi, a votare ci vanno. E si sa dove batte il suo cuore.

martedì 25 ottobre 2016

Articolo 11

Il presidente degli Stati uniti d’America, Barack Obama, ha voluto esprimere il suo sostegno alla proposta renziana di cambiare la costituzione italiana.
Solo i malati di inguaribile servilismo possono non trasalire di fronte all’ennesimo, gravissimo episodio di ingerenza della più grande potenza mondiale nelle questioni che chiamano in gioco la sovranità del popolo italiano, nientemeno che sulla legge fondamentale del Paese.
Rovesciamo parti e contesto: cosa accadrebbe se il presidente della Repubblica italiana, o il presidente del consiglio, o anche soltanto l’ambasciatore italiano a Washington dovessero permettersi di criticare la Costituzione americana?
Nemmeno immaginabile, vero? Del resto, è nella fisiologia stessa del rapporto fra il padrone e il suo servo che quest’ultimo obbedisca senza discutere.
La relazione fra i due è asimmetrica: l’uno comanda e l’altro obbedisce, senza discutere.
Fra Italia e Stati uniti è sempre stato così.
Sin dal 1947, quando Alcide De Gasperi volò negli Usa e riscosse un assegno di 100 milioni di dollari in cambio dell’estromissione dei comunisti dal governo.
Lo stesso è accaduto in tutte le vicende cruciali della storia politica patria, dalla strategia della tensione, allo stragismo, al piduismo. Sempre, di dritto o di rovescio, è intervenuto lo zampone americano, con la politica o attraverso la mano occulta dei suoi servizi segreti.
Oggi la commedia si ripete.
Obama plaude allo smantellamento della Costituzione preteso da Renzi e si augura che il suo governo resti comunque in sella.
E non fa nulla se il contenuto della riforma renziana è l’esatto opposto del modello americano.
Perché là vige il bicameralismo perfetto e perché l’elezione del presidente non trascina con sé –automaticamente, come avverrebbe in Italia con l’Italicum – la formazione monocolore del parlamento. Là, in America, c’è il bilanciamento dei poteri, qui tutto il potere sarebbe concentrato nelle mani di un partito solo, di un uomo solo.
E allora, perché questo appoggio senza se e senza ma?
Semplice: in cambio dell’invio di truppe italiane in tutti i teatri di guerra ove gli Usa chiamino, direttamente o per il tramite della Nato; in cambio della permanenza sul territorio italiano delle basi militari statunitensi e delle armi nucleari stoccate nelle basi di Ghedi e di Aviano; in cambio della soppressione di fatto dell’articolo 11 della Costituzione che mette fuori legge l’uso della guerra come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Ringraziano anche le potenti lobbies dei produttori di armi, protette e blandite dal nostro governo, pronto a promuovere affari con chiunque e di qualunque colore paghi con moneta sonante.
Renzi chiede al popolo italiano di autorizzarlo a gestire un potere assoluto. Abbiamo già visto per fare cosa. Dirgli di no è ancora possibile.

domenica 23 ottobre 2016

La posta in gioco è la democrazia



                                   


Dobbiamo avere chiara percezione che siamo ad uno snodo decisivo della storia della nostra democrazia.

Siamo cioè in prossimità di una soglia oltrepassata la quale si spalanca la strada di una profonda e probabilmente irreversibile degenerazione dell’architettura istituzionale inscritta nella Costituzione repubblicana.

Il coordinato disposto fra la legge elettorale (il cosiddetto “italicum”) e la riforma del Senato rappresentano infatti un “uno-due” micidiale che se non sventato provocherà una inaudita concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo, in dimensioni e caratteristiche non rintracciabili in nessuna democrazia occidentale.

Da una parte, La legge elettorale già approvata e che è in vigore dal 1° luglio di quest’anno, il sistema elettorale maggioritario a doppio turno, parente stretto del suo archetipo (il Porcellum) che nel caso in cui nessuno superi la soglia del 40%, soglia che consentirebbe di accaparrarsi il premio di maggioranza, prevede il ballottaggio fra le due liste che avranno ottenuto un numero maggiore di voti. Lì il quorum sparisce, per ragioni evidenti, essendo solo due le forze contendenti.

Ciò comporta che la lista (vale a dire il partito) che otterrà un solo voto in più dell’altra potrà contare sulla maggioranza assoluta dei seggi e assumerà il controllo totale del parlamento, ridotto ad una funzione ornamentale nei confronti del governo, vera sede della decisione politica.
Il fondamentale principio della rappresentanza, in base al quale il voto dei cittadini ha un eguale peso, viene totalmente stravolto.

Più precisamente, una minoranza assoluta, diciamo una forza che, verosimilmente, guardando alla consistenza delle forze politiche in campo, può contare su un 25%-30% dei voti validi, con un’affluenza alle urne prossima al 60%, può intestarsi tutto il potere: con un peso del 20% del potenziale corpo elettorale ci si mangia il paese. Ovviamente, nel nome della governabilità.
E come è composto quel parlamento? In questo modo: ci sono 100 collegi elettorali; in ognuno di essi ogni forza politica designa un capolista di liste corte. Costui sarà eletto in ogni caso, anche se non prendesse neppure una preferenza. Il capolista può essere proposto in altri 10 collegi. Poi, a schede scrutinate, opterà per uno dei collegi in cui si è presentato, determinando l’elezione automatica del secondo in lista. Il risultato è che una cospicua parte degli eletti, superiore alla metà del totale, prescinderà dal voto degli elettori. Un altro capolavoro democratico di questa geniale architettura!

La Corte costituzionale, come già per il “Porcellum” di calderoliana memoria, dovrà pronunciarsi anche sulla legittimità costituzionale dell’Italicum contro il quale sono state sollevate ben 12 eccezioni di incostituzionalità. Anzi, avrebbe dovuto già farlo, lo scorso 4 ottobre. Ma inopinatamente ha deciso di rinviare il responso “per non influire – così si è detto – sulla contesa referendaria imminente”, cosa piuttosto strana perché la Consulta dovrebbe essere per definizione impermeabile a qualsiasi vicenda che si svolge nell’agone politico.

Osservo, di passaggio, che all’origine Renzi pensava che il premio di maggioranza dovesse essere riconosciuto alla coalizione. Poi arrivarono le elezioni europee con lo strabiliante 41% ottenuto dal Pd.
Questa performance ingolosisce Renzi e lo induce a trasferire il premio sulla lista, cioè sul partito.
Con un disegno preciso: il premier, cioè lui stesso, si fa il governo da solo, domina il parlamento attraverso il partito di cui lui stesso è il segretario, anzi attraverso la maggioranza di quel partito, anzi attraverso la ristretta corte che gli è avvinta. Un capolavoro!
Poi, però, il vento cambia, le tornate amministrative segnano una seria battuta d’arresto del Pd e Renzi capisce che sta fortemente rischiando di scuotere la pianta e che siano altri a raccoglierne i frutti. In sostanza, l’astuto premier capisce che rischia di restare vittima delle proprie macchinazioni. E allora – nuova acrobazia – torna sui suoi passi e comincia a spiegare che la legge elettorale, giudicata sino a quel momento immodificabile, potrebbe cambiare.
“Che problema c’è”, dice. “Intanto approviamo la riforma costituzionale, poi vedremo”.
Se questo paese avesse sufficiente memoria di sé e della propria storia non ci sarebbe spazio per questi volgari imbrogli.
O forse basterebbe ricordare l’insegnamento di Collodi, che raccontava di come la volpe e il gatto turlupinarono Pinocchio convincendolo a seppellire le sue monete d’oro nel campo dei miracoli, dove di lì a poco sarebbe sorto un albero colmo di zecchini d’oro.
Si sa come finì.
La sinistra interna non abbocca, almeno al momento. Berlusconi invece capisce al volo, interessato com’è ad un premio di maggioranza attribuito alla coalizione, che è il solo modo di tenere insieme le maglie sfilacciate del centrodestra. Così partono sotto traccia le trattative e credo che di qui al voto ne vedremo delle belle.

Spesso si usa dire che siamo di fronte ad una deriva presidenzialista, per metterne in luce il carattere autoritario.
Ma si tratta in realtà di una definizione ancora riduttiva. Perché le repubbliche presidenziali alle quali si fa di solito riferimento (due fra tutte: quella statunitense e quella francese) prevedono pur sempre un bilanciamento dei poteri: il presidente non è onnipotente. Obama è il potente presidente Usa, ma ha di fronte una Camera e un Senato repubblicani.
Quanto alla Germania, dove si vota con il proporzionale, Angela Merkel sta governando i forza del 43% dei voti, ma non sono stati sufficienti perché, per governare, lì serve la maggioranza assoluta.

Il progetto costruito da Renzi prevede invece che al vincitore, benché lontanissimo dalla maggioranza assoluta, sia consegnato tutto: il governo, il parlamento, la possibilità di ipotecare l’elezione del presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura.
In un colpo solo, con l’Italicum, si elegge il premier e il parlamento, cosa che non esiste in nessuna democrazia del mondo.
La divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) contrassegno della democrazia ineludibile viene nei fatti dissolto.
Di più: un potere come quello che verrebbe ad instaurarsi consentirebbe di legittimare l’occupazione di tutti i gangli del potere da parte di un partito solo.
Si pensi alle nomine delle presidenze degli enti di Stato. Si pensi alla Tv e al ruolo fondamentale di manipolazione dell’opinione pubblica che attraverso di essa si può esercitare.
Il potere che attraverso queste riforme si instaura è un potere che tenta di creare le condizioni preventive per conservarsi e diventare tendenzialmente totalitario.

Come ha efficacemente spiegato Alessandro Pace, il modello è piuttosto quello di un principato.
Precisamente: “Un blocco di potere affaristico-finanziario con propaggini piduistiche che grazie ad una legislazione elettorale drogata potrebbe confiscare tutto il potere per anni con il favore di una minoranza di elettori”. Non si poteva dire meglio!

Non deve sorprendere il consenso che questo progetto riscuote nei cosiddetti poteri forti.

C’è una logica ferrea in tutto ciò. I sostenitori del “sì” hanno un profilo che non lascia spazio ad equivoci:
c’è la banche d’affari Goldman Sachs, famosa per avere frodato i propri risparmiatori con la vendita di titoli tossici subprime, c’è la Morgan Stanley, croce di tanti azionisti messi sul lastrico dal false informazioni sullo stato dell’azienda, è la più grande società finanziaria del mondo, la Citigroup, c’è quella Banca Morgan che raccomandava di liquidare le costituzioni antifasciste perché troppo intrise di socialismo. Troviamo sempre fra i sostenitori del “sì” George Soros, il re di tutti gli speculatori globali e il commissario europeo Pierre Moscovici, coprotagonista di tutte le politiche di austerità che stanno devastando la vita e il futuro di milioni di europei. Troviamo il settimanale iperliberista anglosassone Economist, né poteva mancare la nostra Confindustria. E per finire in gloria, John Phillips, l’ambasciatore americano in Italia, che ha posto il sigillo finale all’allegra brigata di lestofanti.
Ebbene lor signori – siatene certi – non sbagliano mai. Sono quelli che con una formula riassuntiva possiamo definire i “padroni universali”, con la testa costantemente immersa nella greppia. Loro sanno sempre da che parte stare e come mungere il gregge. La democrazia, la sovranità popolare, la giustizia sociale sono abiti troppo stretti per loro. Hanno solo bisogno di maggiordomi che reggano loro il gioco. Renzi è per loro l’uomo giusto al posto giusto.

Persino Obama si è buttato nella mischia e ha voluto offrire il suo “disinteressato” endorsement alla riforma renziana che, detto per inciso, prefigura un modello istituzionale che è l’opposto diametrale di quello americano. Un’invasione di campo – quella di Obama– che rinnova e conferma la storica sudditanza del nostro paese nei confronti del potente alleato.

Oggi Renzi spaccia la moneta falsa secondo cui lo scontro sarebbe fra modernità e conservazione, fra innovazione e nostalgia per le liturgie paralizzanti e consociative della prima repubblica.
Ma sentite cosa scriveva il Pd nella sua Carta dei valori del 2008, anch’essa rottamata dal caudillo di Rignano:
La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale. La Costituzione può e deve essere aggiornata, nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise, coerenti con i princìpi e i valori della Carta del 1948, confermati a larga maggioranza dal referendum del 2006”.

Poi c’è la legge costituzionale, che completa e rende organico il disegno politico con la trasformazione della funzione del Senato.

·     E’ vero che viene superato il bicameralismo perfetto? No, perché sopravvivono almeno una mezza dozzina di materie dove la procedura bicamerale rimane.
·      Ma è poi vero che il bicameralismo fa perdere tempo e nuoce alla “governabilità”? No! Due Camere rendono più solido e accurato l’esito legislativo; due camere lavorano in parallelo ed esaminano nel medesimo tempo pdl diverse evitando l’ingolfamento.
·     E’ vero che si procede come nelle principali democrazie? No! Si citano a sproposito la Germania e gli Usa. Ma nella Germania (che è uno Stato federale) esiste una vera camera dei Lander, i quali hanno consistenti e chiare sfere di autonomia: il Bundesrat, nel quale i governi regionali nominano da 3 a 6 rappresentanti con vincolo di mandato. E quando il procedimento legislativo coinvolge gli interessi dei lander questo è perfettamente bicamerale. Al contrario, nella riforma costituzionale, il quarto comma del nuovo articolo 117 contiene invece la cosiddetta “Clausola di supremazia”, la quale comporta che anche su materie di interesse regionale sulle quali il nuovo Senato si fosse espresso a maggioranza, la Camera può avocare a sé il responso finale e bocciarle con un voto di maggioranza determinando un fortissimo accentramento decisionale. Dunque il nuovo Senato, definito Camera delle autonomie locali, la cui funzione sarebbe appunto quella di dare voce alle istanze regionali in realtà non conta nulla.
·     Quanto agli Usa, altra confederazione di Stati, è noto che lì il procedimento legislativo è perfettamente bicamerale. Di più: nel Senato, composto di 100 senatori (2 per Stato) per approvare una legge non basta la maggioranza assoluta, occorre la maggioranza qualificata di 60. Se questa non c’è si continua a discutere.
·     E’ vero che in Italia c’è un grave ritardo nella produzione legislativa e che occorre una semplificazione del processo decisionale per cui il governo non riuscirebbe a governare? In realtà, già oggi c’è un contingentamento dei tempi di discussione ma, soprattutto, l’approvazione delle leggi promosse per iniziativa dell’esecutivo sono state dell’80% con Berlusconi, del 68% con Monti, dell’89% con Letta, dell’82% con Renzi che nei primi 21 mesi ha fatto approvare 102 leggi. I tempi medi sono stati 109 giorni.
·     E’ vero che si riducono i costi della politica? No! A parte l’incredibile idiozia (o totale assenza di cultura politica) di trattare la democrazia, la Costituzione come se fosse un centro di costo, resta il fatto che neppure i presunti risparmi sono reali (i già risibili 540 milioni sbandierati dal governo). La ragioneria dello Stato ha corretto i conti fasulli del governo e ha chiarito che il risparmio dopo la riforma ammonterà a meno di 50 milioni, 0,80 centesimi l’hanno per cittadino.
·     E cosa dire del meccanismo di formazione del Senato se non che è un esempio di rara follia: esso sarà formato da 21 sindaci, 74 consiglieri regionali e 5 senatori a vita nominati dal presidente della Repubblica. La nuova norma stabilisce che questi siano scelti dalle Regioni in conformità con il voto degli elettori, palese contraddizione in termini. Quello che è già chiaro è che essi saranno individuati dai partiti e poiché è stata loro riconosciuta l’immunità parlamentare è facile intuire quale non troppo nobile mercanteggiamento si verificherà per accaparrarsi quel ruolo.
·     Si tratterà di dopolavoristi, che svolgeranno a giorni alterni le loro duplici funzioni: quando fanno i senatori non potranno farei consiglieri regionali e viceversa. O forse non faranno nessuna delle due cose. Lo stesso vale per i sindaci. E poiché è previsto che essi decadano da senatori quando non fossero più consiglieri regionali (o sindaci), ciò che accade molto spesso a seguito di scioglimento dei consigli comunali o regionali, essi saranno sostituiti dai nuovi arrivati in un sistema di sliding doors istituzionale. Ci vuole una mente perversa per immaginare un guazzabuglio di simili proporzioni.


Tutta questa poderosa macchinazione – non lo si dimentichi – ad opera di senatori e deputati eletti (in realtà nominati) grazie ad una legge elettorale che la Consulta ha dichiarato incostituzionale:
in definitiva, la liquidazione della Costituzione per mano di un potere illegittimo.
Ognuno può capire – anche in ragione dell’esperienza che si è già consumata – a quali scopi serva questa curvatura autoritaria, questo imbavagliamento della democrazia rappresentativa.

Ebbene, serve a completare la svolta reazionaria che ha già fatto franare masse di detriti sui precetti e sui contenuti socialmente più avanzati della Costituzione: diritto al lavoro, alla salute, alla previdenza, all’istruzione, trasformati da diritti che lo Stato deve garantire a merci che si acquistano sul mercato.

L’espropriazione dei beni comuni, la privatizzazione dei servizi sociali, la progressiva spoliazione del welfare – in perfetta armonia con i dogmi liberisti che l’Italia ha condiviso con l’Ue, con la Bce e col Fmi – non sono altro che il progetto politico che le classi dominanti vogliono imporre a tappe forzate.

La liquidazione della Costituzione è il passaggio obbligato per raggiungere questo obiettivo.
E il governo Renzi ne è l’esecutore testamentario.

A sostegno di questa poderosa manomissione si invoca il concetto di “governabilità”, un vero mantra nelle argomentazioni dei nostri presunti modernizzatori.

Un concetto tuttavia del tutto estraneo al costituzionalismo occidentale, ma che tanto favore riscuote in un’opinione pubblica disinformata, obnubilata e addomesticata da un martellante bombardamento mediatico.

La tesi che si vuole fare passare è che la democrazia è un ingombro che paralizza la decisione e condanna all’immobilismo.

Quante volte abbiamo sentito dire: “lasciamoli governare; poi, fra tot anni, quando si tornerà a votare, li si potrà punire o premiare per ciò che hanno o non hanno fatto”.

Come se la democrazia (e, a ben vedere, il compito stesso dei cittadini e dei corpi sociali intermedi) si potesse ridurre a porre una volta tanto la scheda in un’urna per poi consegnare tutto nelle mani del vincitore, fino al turno elettorale successivo.

A pensarci bene e a seguire la vulgata, il massimo della governabilità consisterebbe nella dittatura che spazza via qualsiasi intralcio e affida tutto all’uomo della provvidenza.

Vent’anni di spoliticizzazione di massa, coltivata con tenacia dal potere costituito, hanno prodotto questo: anomia, individualismo, passivizzazione.

Parafrasando la battuta di un famoso film di fantascienza: “E’ così che muore la democrazia: fra scroscianti applausi”.

Poi Renzi ha provato ad inquinare i pozzi.

Ha detto: “Se perdo mi ritiro dalla politica”.
Un gesto presentato come un atto di umiltà.
E in realtà un gesto di estrema arroganza e superbia.

Un gesto che provava a togliere di mezzo l’oggetto reale del confronto, il merito della questione sottoposta al giudizio degli italiani, con l’obiettivo di trasformare la consultazione in un plebiscito.

E’ come se Renzi avesse esteso l’istituto della fiducia (largamente abusato nel parlamento) all’intero corpo elettorale: “O con me o contro di me; o a me tutto il potere – senza se e senza ma, come si usa dire oggi – oppure me ne vado”.
Poi, vista la mala parata e l’incertezza circa l’esito, l’uomo ha fatto una delle sue frequenti capriole e ha spiegato che quale che sia il responso delle urne lui resterà comunque in sella.


Negli ultimi giorni abbiamo visto circolare in rete il facsimile del quesito referendario... ma era talmente paradossale da sembrare una bufala. Poi, quando Renzi lo ha mostrato nella trasmissione serale di Lilly Gruber abbiamo scoperto che il quesito è davvero quello.
Sentite cosa dice: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?"

Per la prima volta nella storia della Repubblica il quesito non si limita a citare l'articolo di legge ed il relativo titolo, da approvare o respingere, ma, cosa inaudita, ne propone un riassuntino tematico in forma di spot, uno spot che durerà sino alla fine e che entrerà fin dentro le cabine elettorali. L’elenco evidenzia infatti solo alcuni aspetti apparentemente positivi, scelti come motivazioni di vendita accattivanti, non segnalando niente che possa risultare negativo.
Non spiega, per esempio, che il Senato rimane con importantissime funzioni, ma non potremo più votare i senatori; si spinge poi ad invocare il “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni” come se la riforma deliberasse una generica e diffusa riduzione della spesa per tutte le istituzioni.
Come nei regimi totalitari, il quesito assume dunque la forma di una domanda retorica, che induce a pensare che non possa esservi altra risposta che quella positiva.
Come qualche giorno fa ricordava Dal Lungo: “Sarebbe un po’come chiedere ai cittadini se vogliono o meno sopprimere una quota delle stazioni ferroviarie che servono il paese proponendo nel quesito: “Volete superare la frammentazione degli arrivi e delle partenze, orari complicati, troppe coincidenze ed il contenimento dei costi per l’esercizio delle ferrovie?”.
Oppure, guardando al referendum che 3 milioni di cittadini hanno ottenuto si svolga sul famigerato Jobs act, sarebbe come se il titolo del quesito fosse concepito più o meno così: “Vuoi che sia abrogata la legge che permette contratti di lavoro a tutele crescenti, assunzioni a tempo indeterminato, combatte la precarietà e difende i diritti dei lavoratori?”.

Ecco, questi sono i mezzi poco puliti che un presidente del consiglio privo del più elementare scrupolo democratico sta usando per manipolare l’opinione pubblica e fare passare un disegno che spinge il paese verso il dispotismo plebiscitario.

Ci sentiamo continuamente raccontare che questa riforma è ciò che “gli italiani ci chiedono” (qualche illustre idiota dice, addirittura, da 70 anni, cioè prima ancora che la Costituzione fosse promulgata…). Ora, bisognerebbe smetterla di parlare a nome degli italiani: parlino per sé e per quelli che sono d’accordo con loro.

Dicono anche – e questa è un’altra falsificazione bella e buona – che l’impasse politico del Paese dipende dalla farraginosità delle sue norme.
Ebbene, l’impasse politica di questo Paese dipende dal fatto che la Costituzione, in tanta sua parte, non la si è voluta applicare e oggi la si vorrebbe anche formalmente archiviare.
Noi, al contrario, diciamo che la Costituzione non si cambia. E’ invece ora di applicarla. Proprio per cambiare l’Italia. Per questo ci battiamo e ci batteremo.