mercoledì 26 aprile 2017

In Francia rinasce la sinistra di classe



 La vera, straordinaria novità delle elezioni francesi non sta nel risultato di Marine Le Pen e neppure nella pole position conquistata da Emmanuel Macron, ultima risorsa dell’establishment finanz-capitalistico europeo.
Il fatto nuovo – un vero investimento sul futuro – sta in quel quasi 20% ottenuto da Jean-Luc Mélenchon, capace di unire tutta la Gauche e di farlo su un programma di radicale trasformazione della Francia, del suo assetto istituzionale, delle sue politiche economiche e sociali, della politica estera e del rapporto con l’Europa.
Basta elencarne i capitoli, nella loro esemplarmente chiara semplicità, per comprendere di cosa si parli, finalmente fuori da ambiguità e fumisterie.

Mélenchon propone di ridare alla Francia una democrazia parlamentare, chiudendo la stagione del semi-presidenzialismo.
Il centro del programma è la restituzione di dignità al lavoro.
Come? State a sentire.
In una Francia tramortita dalle politiche di austerità, una “riforma del lavoro” che rimetta al centro la questione sociale e i diritti dei lavoratori attraverso queste misure:

-      abolizione della famigerata “Loi Travail”, parente stretta del renziano “Jobs Act”, che deregolamenta il mercato del lavoro spalancando le porte ai licenziamenti senza giusta causa;
-      aumento delle retribuzioni e fissazione di un salario minimo inderogabile (a 1300 euro mensili);
-       riduzione dell’orario di lavoro settimanale a 30 ore e a parità di salario;
-      partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese in difficoltà;
-      introduzione di un’imposta progressiva sul reddito;
-      lotta serrata ai paradisi fiscali;
-      proprietà pubblica dei “beni comuni” (acqua, gas, energia);
-      separazione fra banche commerciali e banche d’affari;
-      nazionalizzazione della banca di Francia.

Mélenchon prende poi di petto il tema del ripristino della sovranità nazionale violata dai patti europei, propone la rinegoziazione del debito sovrano, il controllo dei movimenti di capitali, la revoca dell’accordo di libero scambio con il Canada (CETA).

Per la prima volta dalla ratifica del “Trattato di Maastricht”, una forza politica di sinistra mette nero su bianco l’ipotesi di uscita unilaterale dalla moneta unica e dall’Unione Europea: con l’abbandono dell’Unione e il ritorno alla moneta nazionale, Mélenchon inaugurerebbe una nuova fase di protezionismo economico volto alla tutela dei lavoratori e delle aziende d’interesse nazionale.
Il dogma acritico dell’europeismo a prescindere, il mantra degli “Stati Uniti d’Europa” nonché la velleità di “riformare l’UE da dentro”, sono giudicati come semplici artifici retorici o slogan propagandistici.

Infine, l’uscita dalla NATO, presentata come tappa fondamentale per la riconquista dell’indipendenza nazionale, “è la base della rottura con l’attuale atlantismo per una politica estera multipolare, sovrana e pacifica”.

Francamente, c’è molto da imparare. Anche per noi!

lunedì 17 aprile 2017

La fotografia di un paese ingiusto, decadente e senza guida



Mentre il governo spaccia la moneta falsa dell’ottimismo e nella presentazione del documento di economia e finanza si diffonde nella narrazione di un paese quasi in stato di grazia, il Rapporto Istat fotografa (almeno in parte) lo stato reale del paese, quello che i cittadini vivono sulla propria pelle, non esorcizzabile dalle fole che vivono nelle veline che Palazzo Chigi fa diffondere dalla stampa addomesticata, cioè quasi tutto il mainstream.

Ebbene, la realtà è quella di un’Italia in stato di regressione economica e sociale pesante, ben al di sotto della media europea e in alcuni settori nel fondo della classifica dei 28 stati dell’Ue, con l’eccezione della Grecia, massacrata dalle misure imposte dalla troika.

Sul decisivo fronte del lavoro scopriamo che 4 persone su 10, nella fascia fra i 20 e i 64 anni sono disoccupate, mentre il lavoro precario, quello che ha generato una legione di lavoratori poveri, non diminuisce, ma semmai aumenta, grazie ai disastri provocati dal Jobs Act.

Il gap con il Mezzogiorno sta diventando una voragine, ma non potrebbe che essere così, considerata la caduta degli investimenti pubblici e privati, l’abbandono di ogni progetto di infrastrutturazione del paese e il conseguente collasso della produzione industriale.

Proprio in queste ore, a Gioia Tauro, il porto calabrese affacciato sul Mar Tirreno, la Mct licenzia 400 operai, mentre l’Alitalia manda a spasso 1700 lavoratori dichiarati in esubero strutturale e taglia i salari dei superstiti dell’8%.

Proseguiamo. L’Istat ci dice che 8,7 milioni di cittadini versano in pesanti difficoltà economiche e 4,5 milioni di questi vivono in condizioni di povertà assoluta, vale a dire di grave deprivazione intesa come “incapacità di acquisire uno standard di vita minimo accettabile” (non potersi permettere un pasto proteico almeno ogni 2 giorni, il riscaldamento dell’abitazione, non riuscire a fronteggiare spese impreviste e neppure quelle prevedibili come muto, affitto, bollette, debiti).

Il pil pro-capite è in Italia del 4,5% inferiore alla media europea, del 9,2% rispetto alla Francia e del 23% rispetto alla Germania.

Per la prima volta nella storia della Repubblica l’aspettativa di vita è in calo generalizzato in tutte le regioni, più forte nelle regioni meridionali. Il motivo è semplice: è diminuito l’impegno per la prevenzione e la spesa sanitaria pesa per quasi un quarto sulle spalle dei cittadini che ormai disertano le cure e persino l’acquisto di medicinali.

Si allarga la forbice della disuguaglianza. Anche questo è un dato percepibile ad occhio nudo, ma che le statistiche inesorabilmente rilevano: la grande maggioranza delle famiglie percepisce un reddito inferiore alla media nazionale.

Vedremo fra breve anche dove colpirà la stangata con cui il governo intende recuperare i 3,4 miliardi con cui diminuire il rapporto deficit/pil come preteso dall’Ue che minaccia di aprire contro il nostro paese la procedura di infrazione in ossequio al patto di stabilità, ma già si parla di aumento dell’Iva e delle accise.
La disuguaglianza accentua e moltiplica le ingiustizie.
Il referendum del 4 dicembre non ha insegnato nulla a un potere sordo e arroccato su se stesso.

lunedì 10 aprile 2017

La metamorfosi annunciata: dal PD al PDR



 La metamorfosi del Partito democratico sta giungendo rapidamente al suo ultimo stadio.
Dopo la sconfitta subita nel referendum del 4 dicembre scorso, Matteo Renzi – archiviate le promesse di abbandono della politica e metabolizzata con sollievo la scissione della minoranza interna – si sta dedicando al grande rientro nella politica attiva, per altro mai abbandonata per interposto governo Gentiloni.
L’auto-riciclaggio è avvenuto nei giorni scorsi grazie al lavacro della consultazione degli iscritti, sebbene meno della metà di questi abbiano preso parte al voto e solo un decimo abbia preso parte alla discussione, di una inconsistenza disarmante, che si è svolta nei circoli di partito. Il tutto si è risolto nella conta dei voti, amministrata dai signori delle tessere, fra contestazioni e denunce di brogli che ormai si verificano ad ogni appuntamento di quel partito. Al punto che neppure i tre competitori (Renzi, Orlando ed Emiliano) sono riusciti a mettersi d’accordo sull’esito del voto.
Fatto sta che – al netto del litigio - due terzi dei consensi sono andati all’ex-segretario che ha ripreso col piglio di sempre i toni arroganti da capo bastone, potendo vantare, questa volta, l’investitura degli iscritti.
Si può dunque affermare che il Pd, o ciò che ne è rimasto, è davvero e per grande parte il “partito di Renzi”, a lui legato per intima convinzione.
Non si può più ritenere, come per un po’ qualcuno aveva pensato, che sotto l’ala renziana continuasse a battere, nella base, un cuore non ancora addomesticato alla cultura liberista. Non è più così, se mai lo è stato.
Renzi ora è davvero e sino in fondo il padrone di una formazione politica che senza infingimenti o camuffamenti ha dichiaratamente ripudiato ed espiantato anche la più pallida ispirazione di sinistra.
Ma c’è di più. Dopo la consultazione degli iscritti, ora si passerà al referendum aperto a chiunque voglia parteciparvi, per cui la nomina da parte del Pd del futuro candidato premier potrà essere condizionata/influenzata/determinata anche da forze ad esso estranee e persino opposte e antagoniste.
Renzi è oggi meno sicuro di ieri di pescare consensi a destra, non già perché il contenuto della sua politica dispiaccia a lor signori, ma solo perché Forza Italia torna a sperare di giocarsela in proprio la partita, considerato che il “re mida” l’ex enfant prodige della politica italiana ha rivelato di essere ben poca cosa.
Del resto, il fatto che la prossima volta si andrà alle urne con una legge – quale che essa sia – non più maggioritaria e che l’ambizione a lungo coltivata di potere disporre di un potere totalitario è stata spazzata via dal voto del 4 dicembre spingerà Renzi a muoversi nel brodo che gli viene più naturale, quello dell’inciucio politico, lungo la scia dei governi bipartisan inaugurati da Mario Monti, sotto la sferza dell’Unione europea e della Banca centrale.
Questo è ciò che passa la miseria della politica italiana, più che mai periferia del mondo, prigioniera di meschini giochi di potere e congiure di palazzo, dove nulla di significativo e di decente accade mai, tranne il servilismo verso gli oligarchi che hanno fatto a pezzi l’indipendenza del paese e sequestrato la sovranità che la Costituzione riconosce in via esclusiva al popolo italiano.