domenica 17 dicembre 2017

Contro il neo-colonialismo e la barbarie razzista



 La coppia Minniti-Pinotti, rispettivamente ministri dell’Interno e della difesa del governo Gentiloni, hanno compiuto un altro decisivo passo nell’avventura neo-coloniale dell’Italia decidendo l’invio in Niger di un corpo di spedizione di 470 soldati che sostituirà la Legione straniera francese nel nobile compito di bloccare la fuga dei migranti che cercano di entrare in Libia per tentare l’ultimo tratto del loro “viaggio della speranza”.

Si chiude così la tenaglia che il governo stringe sui migranti per impedire, via terra e via mare, l’approdo di quei disperati sulle italiche coste.

Al finanziamento delle tribù libiche che intercettano le imbarcazioni cariche di profughi destinati agli immondi lager dove fuori da ogni controllo si praticano l’assassinio, la tortura e lo stupro, ora si aggiunge l’intervento militare diretto, questa volta in terra nigeriana, per fermare l’esodo sul nascere e fare proliferare anche in quel paese i campi di concentramento.

Ecco squadernata in tutto il suo vergognoso significato la politica verso l’immigrazione del governo italiano e del suo partito guida, il Pd, secondo il quale la partita si risolve in un solo modo, con la forza delle armi.
E’ così che li aiutiamo “a casa loro”, per usare l’ipocrisia di conio leghista: li aiutiamo a morire di stenti, di violenza, di sopraffazione.  

Così questi manigoldi assestano un altro potente colpo alla Costituzione: all’articolo 2, dove si legge che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (…) e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”; all’articolo 11, dove il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali viene sostituito “con l’impegno al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo, al fine della tutela degli interessi vitali o strategici del Paese”, come prevede il disegno di legge approvato nel febbraio scorso dal Consiglio dei ministri che consentirà al governo «la revisione del modello operativo delle Forze armate».

E quali sono gli interessi strategici del Paese?
Vendere armi, innanzitutto, poiché – come si legge nel Libro Bianco della ministra Pinotti – l’industria militare è “un pilastro del sistema paese” che “contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione”.

Detto in prosa: profitti, nient’altro che sporchi profitti, giacché l’Italia, in violazione della legge 185/90 che proibisce la vendita di armi a Paesi in guerra rifornisce di ordigni bellici di ogni genere la coalizione a guida saudita condannata dall’Onu per i bombardamenti aerei indiscriminati sullo Yemen che hanno causato la morte di migliaia di civili.
Un affare da 14 mld e mezzo nel 2016 intermediato da banche come Unicredit, come la bresciana Valsabbina, come la Popolare di Sondrio e come l’immancabile Banca Etruria.

Questi sono gli interessi serviti dal personale politico che ha sequestrato la sovranità popolare e sventrato la legge fondamentale dello Stato.
Liberarsi da questi usurpatori è diventato un imperativo a cui non ci si può sottarre.

lunedì 11 dicembre 2017

Potere al popolo: un seme destinato a germogliare



 “Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi povero; stipuliamo dunque un patto fra noi: permetterò che abbiate l’onore di servirmi a patto che mi diate il poco che vi resta in cambio del disturbo che mi prendo nel comandarvi”.

Si esprimeva così il grande Jean Jacques Rousseau, meritandosi una letterale citazione di Marx nel primo libro del Capitale, per avere descritto con corrosivo sarcasmo il patto “leonino” che codificava non già un presunto stato di natura, ma un vero e proprio stato di guerra attraverso il quale le classi dominanti, i ricchi, appunto, opprimevano e espropriavano le classi subalterne, i poveri.

Questo scriveva il grande filosofo ginevrino nella metà del XVIII secolo. E aggiungeva che nell’involucro di questi rapporti sociali “l’eguaglianza è solo apparente e illusoria”, perché “non serve che a mantenere il povero nella sua miseria e il ricco nella sua usurpazione”, per cui “le leggi sono sempre utili a chi possiede e nocive a chi non ha nulla”. Ecco perché “lo stato sociale giova agli uomini solo in quanto posseggano tutti qualcosa e nessuno di essi abbia qualcosa di troppo”.

Ebbene, cosa è cambiato, di sostanziale, da due secoli e mezzo a questa parte? Non è esattamente questa la condizione in cui versa quattro quinti dell’umanità, malgrado lo stupefacente sviluppo della scienza, della tecnica permetterebbe di risolvere, su scala planetaria, i problemi della fame, della sete, delle malattie endemiche, promuovendo il libero e multilaterale sviluppo di ogni essere umano?

Eppure accade l’esatto contrario. L’apice della modernizzazione tecnologica coincide con l’abbrutimento sino alla riduzione in schiavitù e alla negazione di futuro per masse sterminate di persone, ridotte a merci che producono altre merci al servizio dell’accumulazione capitalistica e dell’appropriazione privata di pochi.

Viene così in chiaro che piccole misure riformistiche non servono a nulla, perché hanno l’efficacia di impacchi caldi su una gamba di legno e assomigliano alle vecchie leggi sulla povertà di vittoriana memoria con cui un pugno di proprietari universali tiene in scacco popoli interi.

Questo è l’assetto del mondo contro cui vogliamo ribellarci. Anche in Italia, dove le forze maggiori che si contendono il potere politico non sono che varianti delle classi dominanti, che hanno fatto a gara nel distruggere i principi, i diritti sociali e civili sanciti dalla nostra costituzione antifascista.

Centrodestra e centrosinistra, M5S e la neonata ma già vecchia peudo-sinistra light di “Liberi ed eguali”, tutti costoro sguazzano nello stesso stagno, non avendo né l’intenzione né la capacità di trascendere l’ordine costituito, l’opprimente supremazia del mercato e delle leggi imposte per servirlo.
Nelle imminenti elezioni politiche proveremo, insieme a quanti e quante non si rassegnano, a mettere in campo una lista che guarda oltre quelle Colonne d’Ercole, una lista fatta da chi agisce il conflitto sociale, in cui si riconosca chi sta in basso e si oppone alla prepotenza vessatoria di chi sta in alto.
Non è che l’inizio, un seme destinato a germogliare.

lunedì 4 dicembre 2017

La Lista antiliberista è un investimento sul nostro futuro (e su quello del paese)


(Intervento al Cpn di Rifondazione comunista del 2 e 3 dicembre 2017)

Vorrei  innanzitutto dire che le dinamiche che hanno portato alla chiusura del Brancaccio non rappresentano un incidente di percorso, un equivoco che se superato con un poco di pazienza avrebbe consentito di realizzare quell’ embrasson nous, quell’unità della sinistra alla sinistra del Pd che secondo i suoi sostenitori avrebbe rimescolato le carte in campo creando un quarto polo, nel caleidoscopio politico italiano.

Al Brancaccio, è venuto in chiaro ciò che era da subito percepibile ad occhio nudo e cioè la diversa e persino opposta natura dei progetti politici, della visione di società, dei riferimenti sociali, della stessa idea di democrazia dei soggetti lì convenuti.

Lì si è finalmente capito che se c’è un modo per rendere incomprensibile il giusto obiettivo dell’unità della sinistra, esso è quello di erigerla a bene in sé, a prescindere.

Lì è venuto in chiaro che dobbiamo definitivamente liberarci della convinzione sempre latente che se non sei nelle istituzioni non esisti e che dunque è meglio stare in compagnie indecenti piuttosto che navigare in mare aperto dove ti devi fare strada a colpi di remi.

Il documento programmatico della troika Mdp, Si, Possibile è appunto lì a dimostrare che il perimetro politico entro il quale essa si muove è quello di un centrosinistra forse – e sottolineo forse - depurato dall’infezione renziana.

Ma il fatto è che non costruisci un progetto di inveramento costituzionale, che è un progetto di società – quello contro il quale J.P. Morgan ha scagliato la propria fatwa – con una spruzzata di modesti provvedimenti elettoralistici innestati su un impianto liberista. Perché questo è l’orizzonte culturale dei tre soggetti che si apprestano a confezionare una lista e forse un partito, l’una e l’altro saldamente nelle mani dei noti capi-bastone con l’aggiunta di un front-leader di appeal da spendere nella campagna elettorale.

Ci abbiamo messo un po’, correndo sul filo del rasoio, un po’ per convinzione e un po’ per un eccesso di tatticismo, ma l’importante è che alla fine abbiamo tirato le somme ed è questo che conta.

Liquidato il Brancaccio, è venuta tempestivamente in soccorso l’iniziativa dei ragazzi e delle ragazze di  Ie so pazzo che è la vera novità di questi tempi bui, la promessa di un futuro possibile.

Con una maturità forse insospettabile perché finalmente scevra da pregiudizi e diffidenze anti-partito che sono stati la cifra di tutti i precedenti fallimenti, hanno saputo avanzare una proposta, una piattaforma dotata della necessaria radicalità, potenzialmente capace di unificare sociale e politico, partiti, associazioni e movimenti di varia estrazione.

Sono in gran parte giovani – e dio sa quanto abbiamo bisogno di un rinnovamento, di un’ibridazione, anche generazionale, di idee e di energie.

Per una volta, impegno e conflitto sociale, lotta politica e rappresentanza istituzionale non sono vissuti come luoghi incomunicanti, ma terreni contigui, da agire in una battaglia a tutto tondo, dove tutto si tiene. Dove, per dirlo con una formula classica, il sociale si politicizza e il politico si socializza.

Abbiamo letto la bozza di programma redatta da Ie so pazzo.

Il testo definitivo dovrà certo essere scritto meglio, ci sono alcune ingenuità, bisognerà legarne le parti con una tessitura più organica e farlo dando vita ad una struttura di coordinamento nazionale più strutturata.

Poi se ne dovrà redigere una formulazione più snella ed incisiva, tale da rendere immediatamente comprensibile il messaggio nei suoi tratti salienti, senza arzigogoli, perché nella competizione elettorale devi essere concreto ed efficace, scoprendo – come disse una volta Berlinguer – il coraggio della banalità.
Ma lì dentro io trovo che l’essenziale c’è e contiene una proposta ed un linguaggio che chiama in causa e mette in mora la struttura del sistema, le classi dominanti, tutto il brutale armamentario liberista traslocato nelle politiche dei governi.
E parla con chiarezza a quanti ne patiscono sfruttamento e soprusi.
Sarà anche indispensabile – e bisognerà farlo subito, diciamo nelle prossime 72 ore – stabilire delle regole democratiche certe, tali da configurare il processo che si apre come un vero fatto democratico, dove non ci sono né primogeniture, né referenti, né garanti, né guru, né sacerdoti nelle cui mani depositare poteri particolari o esclusivi.

Forse si sta aprendo l’opportunità, anche in Italia, di costruire l’embrione di una sinistra anti-liberista, di ispirazione europea ma fortemente ancorata nella questione nazionale.

E comincia a farsi strada la persuasione che non è vero che un progetto di profonda trasformazione della realtà porti cucito addosso lo stigma dell’estremismo velleitario e sia inesorabilmente consegnato alla marginalità.

Insomma, è importante conquistare la convinzione che realismo non si declina con moderatismo. Del resto, lì il campo è già affollato.

Per ora si tratta di una possibilità, molto c’è da scavare e le insidie certo non mancano.
A partire dal fatto che il processo avviato non ha un retroterra sperimentato di lavoro politico, ma nasce dall’emergenza di un appuntamento elettorale, dalla necessità di lanciare nello spazio pubblico un segnale in netta controtendenza.

Fare questo in un tempo così breve non sarà facile, perché siamo in grave ritardo e l’appuntamento elettorale è fra soli tre mesi; perché l’oscuramento sarà totale, perché i nostri mezzi di comunicazione sono rudimentali e perché nel circo mediatico la moneta falsa che viene spacciata è quella che identifica in D’Alema e soci la “vera” sinistra che si riorganizza.

E tuttavia, per dirla con le parole della favola di Esopo: hic rhodus hic salta! Infatti è qui ed ora che dobbiamo misurare la nostra vitalità, la nostra utilità e la nostra ragion d’essere.

E allora il ruolo di Rifondazione non può ridursi al pur decisivo e come sempre generoso contributo nella raccolta delle firme.

C’è un’iniziativa diretta, un compito di tessitura politica, di agglutinamento, da svolgere nei confronti del micro-universo delle organizzazioni della sinistra anticapitalista.

C’è un lavoro di interlocuzione e di inclusione nel quale Rifondazione deve spendersi in ogni territorio, annodando o riannodando fili che non hanno mai saputo organizzarsi un una trama unitaria.

Sono mondi che spesso hanno in comune una discreta vocazione autistica, che racconta delle cento sfumature in cui ciascuno di essi si articola e spesso si arrocca, difetto, del resto, dal quale neppure noi siamo immuni.

La frantumazione della sinistra di ispirazione anticapitalista ha una quantità di ragioni, fra le quali c’è la presunzione autoreferenziale, che a sua volta è il prodotto dell’assenza di un progetto forte e di una soggettività matura che lo sappia fare vivere.

Occorre però chiarire bene fra di noi, con i nostri iscritti e anche con i nostri interlocutori, che il successo o l’insuccesso di questa battaglia non si misureranno con il raggiungimento o meno del quorum nella prossima consultazione elettorale.

Certo, meglio se riusciremo a mandarla in buca, e per questo dovremo lavorare senza sosta, ma ciò che più conta è la nostra scelta di campo, fuori da ogni ambiguità, da ogni contiguità politicista, da ogni rischio di risucchio nella palude: la scelta di un nuovo campo da arare, la scoperta che il mondo non finisce con le colonne d’Ercole che hanno al proprio limite estremo Sinistra italiana.

Bisogna credere che il mondo dei subalterni può essere organizzato e darsi una rappresentanza, nelle lotte innanzitutto, ma per andare oltre il ribellismo estemporaneo e sussultorio che alla fine rifluisce nelle miserie del presente.

Liberiamoci dal pessimismo crepuscolare che è il sedimento inerziale di tante sconfitte. Ricominciamo, senza paura, a nuotare nell’elemento in cui i comunisti dovrebbero sentirsi più a loro agio.
E persuadiamoci che nessuna situazione è senza sbocco.
Lo diventa solo se abdichiamo al nostro compito.

In questi mesi siamo stati impegnati in cento iniziative di celebrazione del centesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre e del ruolo straordinario che in essa ebbe Lenin.

Tanta storia ci separa da quell’evento, ma ci sono fatti, comportamenti che trascendono il contesto in cui si verificarono e che nelle organizzazioni del movimento operaio tendono a riprodursi, nel presente, con stupefacente similitudine.

Come quando, nei primissimi anni del Novecento, proprio Lenin ingaggiava una battaglia durissima contro il riformismo bernsteiniano che rinunciava ad una radicale trasformazione della società, rinnegava la lotta di classe e invitava il movimento operaio ad abbandonare le utopie rivoluzionarie per ripiegare su un tiepidissimo riformismo.

Lenin, nel suo celebre Che fare, replicava così a coloro che giustamente definiva come avversari:

“Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza per mano.
Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco.
Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito la via della lotta alla via della conciliazione.
Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: "Andiamo nel pantano!".
E, se si incomincia a confonderli, ribattono: "Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà d’invitarvi a seguire una via migliore?".
Oh, sí, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati.
Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la nostra grande parola della libertà, perché anche noi siamo "liberi" di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso. "

lunedì 27 novembre 2017

“Loro no”. Lo strano caso di Falcone e Montanari



 C’è qualcosa di oscuro nel comunicato con il quale Anna Falcone e Tommaso Montanari, promotori dell’iniziativa del Brancaccio, hanno deciso di ritirarsi dal campo, rigettando “equanimemente” tanto la decisione unilateralmente assunta da Mdp, Sinistra italiana e Possibile di formare una propria lista con un proprio programma, propri candidati ed un proprio leader estratto dal cilindro della mai esausta nomenclatura politica, quanto la determinazione di Rifondazione comunista di sottrarsi a questa rimasticatura di consunte pratiche verticistiche, utili solo a riciclare nel teatrino politico uomini che hanno calcato tutte le stagioni e che oggi si candidano a riprodurne i miasmi, appena mascherati da un tiepidissimo riformismo che ha in un nuovo centrosinistra il proprio orizzonte culturale, il proprio invalicabile perimetro politico.

Ebbene, noi avevamo apprezzato la radicalità con la quale Montanari (ben più che Falcone, a onor del vero) aveva posto la necessità di una svolta nei contenuti che dovrebbero connotare un progetto di profonda trasformazione del paese nel senso tracciato dalla Costituzione antifascista: una visione della società in chiara rottura con i compromessi politicisti e con le politiche reazionarie prodotte in egual modo dai governi di centrodestra e di centrosinistra.
Avevamo condiviso con Montanari il giudizio di irriformabilità del Pd, da tempo e irreversibilmente approdato sulle sponde del liberalismo.
Ebbene, la troika composta da Mdp, Si e Possibile ha ampiamente dimostrato di muoversi su un’altra lunghezza d’onda. Per questo ha fatto saltare il banco rivelando quello che era già visibile ad occhio nudo: costoro si muovono entro l’ordine costituito, non contro di esso. E non è certo un caso se anche nelle file di quei partiti stia salendo la protesta di quanti vedono che i loro capi stanno portando acqua ad un altro mulino.
Il listone alla sinistra del Pd auspicato da Montanari e Falcone era, con tutta evidenza, un’accozzaglia contraddittoria, nella quale convivevano progetti politici e sociali inconciliabili.
Possibile che almeno Montanari non se ne sia reso conto? Possibile che egli oggi si ponga in una posizione di simmetrica, ostile equidistanza, come se le profonde ragioni di merito che hanno portato alla rottura non siano che dettagli insignificanti, come se ci si trovasse di fronte ad opposti settarismi?!
E poi viaggia un’altra palese mistificazione.
Rifondazione non sta lavorando ad una “propria lista con l’aggiunta di altri soggetti”, come scrivono Falcone e Montanari.
Rifondazione ha semmai aderito ad un movimento dal basso che non si è rassegnato al fallimento del Brancaccio per mettere in moto un percorso partecipativo di soggettività politiche e sociali, di singole persone che ne faccia vivere sul serio spirito, metodo e contenuti.
Senza primogeniture, né maggiorenti, né sacerdoti, né garanti che si erigano ad arbitri del destino comune.

lunedì 20 novembre 2017

Non mettiamo la testa sotto la sabbia: riparte (dal basso) il progetto di un cambiamento radicale del Paese



 Lo sforzo generoso di molti e di molte che hanno creduto e sinceramente sperato di trovare nella convenzione del Brancaccio l’incipit di un processo capace di portare  ad una coalizione di forze sociali e politiche, di movimenti, di soggettività non addomesticate dal politicantismo, uniti nella  determinazione di non soccombere sotto i colpi del liberismo imperante, ha trovato un ostacolo insormontabile nella troika formata da Mdp, Sinistra italiana e Possibile che hanno tentato di sequestrate quel progetto, stravolgendolo e mutandolo nel suo opposto.

Come è evidente di fronte alla prova dei fatti, costoro non pensano affatto di costruire un’alternativa programmatica al Partito democratico.
Costoro si propongono unicamente di disarcionare Renzi per riprendersi il governo del partito, senza mutarne la linea di fondo, senza opporgli una visione dei rapporti sociali che faccia davvero piazza pulita dello scempio che i governi di centrodestra e di centrosinistra hanno fatto della Costituzione repubblicana, dei diritti sociali, della libertà coniugata con l’uguaglianza che dovrebbero rappresentare la bussola del rinnovamento radicale che oggi si impone come una necessità assoluta.

Il centrosinistra rimane il perimetro entro il quale si muove la compagnia di giro che tenta di contrabbandarsi presso la disorientata opinione pubblica “come nuova sinistra”.

Alla presa d’atto che di questo si tratta non deve tuttavia corrispondere un “rompete le file”, un mesto abbandono del campo.

Al contrario, una volta tolto di mezzo l’equivoco che avrebbe trasformato l’ambizioso progetto di voltare pagina nella riedizione di vecchi metodi e di vecchie politiche; una volta chiarito che non si tratta di riciclare nei luoghi della rappresentanza istituzionale personaggi che tanta responsabilità portano nel degrado di questo tempo presente; una volta constatato che esiste nel corpo sociale un’autentica disponibilità ad un cambiamento sostanziale, si tratta di volgere altrove lo sguardo, come sabato hanno invitato a fare le centinaia di giovani che avevano preso parte al Brancaccio, i quali non hanno alcuna intenzione di sgomberare per lasciare il campo al politicantismo di coloro che si candidano a non cambiare nulla.

Hanno chiamato a raccolta tutti i non rassegnati in un’assemblea che si è svolta al teatro Italico per dire che “se nessuno si fa carico dei nostri bisogni proveremo a rappresentarci da soli”.

Un discorso semplice, chiaro e straordinariamente maturo, anche perché privo di arroganza, e tuttavia consapevole che il tempo di alzare la testa è ora.

Quei ragazzi e quelle ragazze (lavoratori precari, disoccupati, classe media in declino, studenti disperati, pensionati poveri) hanno detto che non ci stanno a vedersi calare addosso una pietra tombale, stretta fra populismo reazionario e pseudo-riformismo, uniti nel disinteresse verso chi occupa i gradini più bassi della gerarchia sociale.
Rifondazione è andata a quell’incontro e ha risposto che sarà della partita, che vi concorrerà profondendovi tutta la passione dei propri militanti e che se una lista di sinistra può e deve nascere, nascerà da qui, in un percorso democratico, dal basso, senza ipoteche di maggiorenti e sacerdoti, perché questa è la rotta giusta.

Siamo dunque ai prodromi di una novità importante e di una svolta, che non ha come obiettivo soltanto quello di non mancare un appuntamento elettorale, ma di rappresentare un investimento per il futuro. Il futuro della sinistra e del paese.

lunedì 13 novembre 2017

L’indecente accrocchio che si spaccia per “nuova sinistra”



Mdp, Sinistra italiana e Possibile hanno alla fine confezionato su misura il proprio vestitino elettorale, con il solo, palese obiettivo, ormai dichiarato senza infingimenti, di conquistare in qualsivoglia modo, un posticino nel parlamento della Repubblica.
Uno strapuntino o poco più, che sarà verosimilmente appannaggio della nomenclatura ex-piddina, variamente disarticolatasi nel corso di questi mesi, ma rianimata dalla sola voglia matta di prendersi una rivincita nei confronti del pessimo Renzi.

Per fare cosa? Questo pare un dettaglio insignificante. Basta dare un’occhiata al documento programmatico sottoscritto dai tre per rendersi conto che al netto di qualche scontata dichiarazione di principio non c’è niente: niente di niente.

Nulla sulla premessa che fu all’origine dell’assemblea del Brancaccio, vale a dire l’irrevocabile giudizio sull’irriformabilità del Pd, di tutto il Pd, non soltanto di quello a trazione renziana, perché nella sua interezza guadagnato ad una cultura politica liberista; nulla, se non un' impalpabile allusione alla riforma dell’Ue e soprattutto nulla sulla necessità di revocare i trattati che ne formano l’ossatura antisociale; nulla sull’alleanza militare di cui l’Italia è succube e sulla necessità di rompere quel perverso sodalizio guerrafondaio; nulla sulle misure incostituzionali e anti-popolari varate dal governo Monti (dall’abrogazione dell’articolo 18, alla cancellazione delle pensioni di anzianità all’allungamento dell’età pensionabile, al taglio drastico degli ammortizzatori sociali): tutte misure adottate con il consenso attivo di Berlusconi e della truppa di Bersani allora alla guida del Pd.

Ora costoro vorrebbero accreditarsi come espressione di una sinistra che ritrova se stessa, ma non vi è niente che autorizzi una simile ragionevole speranza.

Pare persino che ci sia già il leader in pectore della neonata coalizione, quel Pietro Grasso che da presidente della Camera non ha mosso un dito (come avrebbe potuto e dovuto fare) per impedire che si votasse la fiducia sull’ennesima legge elettorale incostituzionale.

Oggi Tommaso Montanari, promotore del Brancaccio, dimostrando un rigore morale, prima ancora che politico, che gli fa onore, ha annullato l’assemblea del 18, sparando a palle incatenate su Mdp, Sinistra italiana e Possibile che hanno dimostrato di non avere capito nulla del progetto che dal Brancaccio aveva preso le mosse.
Sbaglia invece, Montanari, quando attribuisce a Rifondazione una simmetrica volontà di ipotecare pro domo sua l’assemblea del 18.
Quel “riprendiamoci il Brancaccio”, dal petto uscito dopo la scoperta che Mdp, Sinistra italiana e Possibile stavano sequestrando l’assemblea per pilotarne l’esito nella solita palude politicista, indicava, certo veementemente, la necessità di tornare al progetto originario, quello che con tenacia Montanari torna a riproporre come unico terreno utile per la ricostruzione di una sinistra degna di questo nome.

Quanto a Sinistra italiana, pare abbia finito di sbattere da una sponda all’altra come una pallina da flipper.
Del resto, come recita un vecchio adagio: “Si cade sempre dalla parte dove si pende” e il trasformismo, l’opportunismo non sono certo merce rara nel mercato politico di questo paese.

Un opportunista, per la sua stessa natura, eviterà sempre di prendere una posizione chiara e decisa, cercherà sempre una via di mezzo, si divincolerà sempre come un serpente tra due punti di vista che si escludono a vicenda, cercando di concordare con entrambi e di ridurre le proprie divergenze di opinione ad insignificanti obiezioni, dubbi, innocenti e pii consigli”.
Si esprimeva così, molti anni fa, un certo Vladimir Uljanov, detto Lenin, uno che di queste cose si intendeva.

lunedì 6 novembre 2017

Così stanno facendo a pezzi la Costituzione che noi vorremmo applicare



 Torniamo di nuovo sulla mancata rivalutazione delle pensioni che, non dimentichiamolo, rappresenta la plateale violazione di un diritto.
Lo facciamo perché ora è intervenuto un fatto nuovo, che spiega molte cose.

Ricorderete che nel 2015 una sentenza della Corte Costituzionale aveva bocciato il blocco delle pensioni, obbligando il governo Renzi a varare un decreto con cui, senza riparare davvero al maltolto, erogava ai pensionati poveri una modesta mancia.

Ciò aveva indotto migliaia di pensionati a fare causa al governo e all’Inps, proprio in ragione di quella sentenza.
Non pochi giudici ritennero quei ricorsi fondati e, doverosamente, rinviarono il giudizio conclusivo alla Corte Costituzionale medesima.

Ma questa volta il giudizio è stato rovesciato, in quanto la Corte ha ritenuto che la soluzione adottata dal governo (la misera mancia di cui si è detto) rappresentava “un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica”.

Dunque, ci troviamo di fronte ad una radicale rimozione dell’articolo 3 della Costituzione che stabilisce con parole di una chiarezza adamantina che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”.

D’ora in avanti, quelli che la legge fondamentale dello Stato riconosce come diritti inalienabili, costitutivi del diritto di cittadinanza, possono essere messi in mora per ragioni di bilancio, le cui priorità, non dimentichiamolo mai, sono stabilite dai governi e dagli interessi di cui essi sono portatori.

Ma come tutto ciò è stato possibile? Qual è il fondamento giuridico di un simile voltafaccia della Corte.

Ebbene, esso sta nella modifica dell’articolo 81 della Carta, approvata con i voti del centrosinistra e del centrodestra, operazione consumata nel più assoluto riserbo, senza il minimo dibattito pubblico e senza nessun contributo informativo da parte dei media su una legge di così grande importanza che cambia nel profondo la gerarchia del diritto.

E cosa dice questa modifica? Una cosa semplice e micidiale e cioè che la Costituzione impone allo Stato e agli enti locali il rispetto del pareggio di bilancio, dunque l’impossibilità di ricorrere a nuove spese per finanziare la gestione ordinaria.
Questa norma, perfettamente conforme al dogma liberista imposto dall’Europa di Maastricht e sancita dagli accordi che ne sono seguiti, sta autorizzando il saccheggio di ogni sovranità nazionale, con la diretta complicità delle forze che odiano la Costituzione e il modello di società che essa delinea, un modello che fonda la libertà sull’uguaglianza.

lunedì 30 ottobre 2017

L’aumento della speranza di vita: come mentire con le statistiche per truffare lavoratori, giovani e pensionati



L’Istat ha pronunciato la sua sentenza: secondo l’Istituto nazionale di statistica la speranza di vita in Italia si è allungata, precisamente di cinque mesi. Lo splendido mondo in cui viviamo ci avrebbe dunque regalato circa mezzo anno di vita in più. Ma chi campa di più in questo immaginario paese di Bengodi? L’Istat non lo dice, anzi volutamente lo ignora, perché il computo è costruito su una media: da una parte, persone che non hanno mai usato le mani per lavorare, dall’altra, lavoratori che prestano la propria opera nei lavori più gravosi ed usuranti. Tutti quanti nello stesso calderone, in cui non si distingue nulla. Non si racconta quanto campa un addetto agli altiforni in siderurgia, o un edile che sgobba col martello pneumatico sul selciato bollente sotto la canicola estiva o, in inverno, arrampicandosi sulle impalcature precarie degli edifici in costruzione; né si documenta quanto dura la vita dei braccianti agricoli o dei raccoglitori di pomodori nelle campagne pugliesi.
L’inganno è lo stesso di cui ci parlava il grande Trilussa, quando denunciava con sarcasmo l’imbroglio statistico che mischia volutamente poveri e ricchi, per trarne conclusioni fraudolente, spacciate per verità scientifica.
Scriveva  il poeta in una delle sue più ficcanti poesie dialettali:
“(…) da li conti che se fanno
secondo le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra ne le spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due”.
La conseguenza dell’imbroglio è che grazie alla legge Fornero votata come un sol partito da Forza Italia e dal Pd, la pensione di vecchiaia scivola a 67 anni nel 2019, mentre per andare in pensione in anticipo rispetto all’età di vecchiaia, sempre dal 2019 serviranno 43 anni e tre mesi di contributi per gli uomini e 42 anni e tre mesi per le donne.
Come si vede, l’inganno statistico serve a propinare la beffa, che colpisce coloro i quali, stremati da una vita di fatica, scoprono che il miraggio della pensione si allontana continuamente, mentre il governo Gentiloni ha deciso che le pensioni in essere continueranno a non essere indicizzate, perdendo inesorabilmente valore.
Il prezzo lo pagano anche le nuove generazioni che vedono sempre più ostruiti gli sbocchi di lavoro in Italia e fuggono all’estero. L’anno scorso sono espatriate più di 124 mila persone: il 39% di costoro sono giovani fra i 18 e i 34 anni, il 23% in più dell’anno prima.
Questa drammatica situazione dovrebbe almeno rendere consapevoli che gli interessi dei giovani e quelli degli anziani coincidono e che chi contrappone gli uni agli altri non è che un impostore.

martedì 24 ottobre 2017

L’autonomia di Zaia parla di secessione…quella di Maroni non parla a nessuno



 Il referendum-day svoltosi nelle due regioni a trazione leghista, voluto dal Carroccio per farsi propaganda in vista delle prossime elezioni regionali e politiche, ha prodotto due risultati opposti: nel Veneto ha vinto Zaia (58% l’affluenza al voto con un 2% di “no”), mentre in Lombardia è caduto rovinosamente Maroni (37% l’affluenza e il 5% di “no”).

Come ognuno ha potuto vedere, in entrambe le regioni tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione (Lega, Pd, Forza Italia, M5S, persino Fratelli d’Italia che si è dissociata dalla posizione di Giorgia Meloni) hanno invitato i cittadini a recarsi alle urne. Una maggioranza che faceva presagire un plebiscito, che in realtà non si è verificato, da nessuna parte.

Ma il fatto ha una sua rilevanza e il dividendo politico (nel Veneto) lo riscuoterà solo la Lega: agli altri utili idioti, che erano stati nella partita per puro opportunismo, non resterà che il ruolo delle comparse che hanno portato acqua al mulino altrui.

Ora Zaia, gonfio come un pavone, alza il tiro e ai toni pacati della vigilia sostituisce un piglio ben più aggressivo, avanzando pretese che vanno ben oltre la richiesta di una maggiore autonomia in base all’articolo 116 della Costituzione, per tradursi nella rivendicazione esplicita di trattenere in loco nove decimi delle tasse riscosse nella “sua” regione: una tesi dirompente, questa, che fa a pugni con il patto fiscale su cui si fonda l’unità nazionale.

Ecco dunque che il tema della secessione, negato a parole, rientra prepotentemente in gioco, come pure la sempre verde parola d’ordine leghista, “padroni a casa nostra”, con tutti i risvolti antisolidaristici e xenofobi che porta con sé.

Se tutte le regioni si incamminassero su questa strada e pretendessero di godere dei privilegi assegnati alle regioni a statuto speciale saremmo ad un passo dalla disgregazione nazionale, cosa negata a parole, ma abilmente praticata nei fatti.
E il fantasma di Gianfranco Miglio tornerebbe ad aleggiare sulla penisola italica.

Quanto alla Lombardia, il flop di Maroni è clamoroso su tutta la linea. Aveva chiesto un mandato a fare come il suo ben più abile compare veneto e ha ricevuto un sonoro ceffone che non gli ha impedito di millantare un mandato a procedere che il voto gli ha negato.

La sorte non ha risparmiato a Maroni neppure un esilarante effetto comico quando, mentre il voto elettronico andava in tilt e si rivelava clamorosamente più lento dello scrutinio cartaceo egli ne esaltava la modernità ed annunciava una lettera a Gentiloni per chiedere al presidente del consiglio di utilizzare la strumentazione farlocca sperimentata in Lombardia anche per le prossime consultazioni politiche.

Cosa accadrà ora? In concreto nulla, da un lato perché la procedura prevista per aprire il confronto con il governo centrale prescinde del tutto dall’esito della messa in scena referendaria, dall’altro perché la materia fiscale è prerogativa esclusiva dello Stato.
E allora?
Solo tempo e soldi buttati e un bel po’ di propaganda elettorale gratis per la truppa di Salvini.

lunedì 23 ottobre 2017

Altro che sinistra di alternativa: Mdp corre verso il pantano!



Ci risiamo!
Per Mdp nonché articolo 1 l’astinenza da Pd si rifà sentire.
Ed ecco il colonnello Roberto Speranza e il generale Pier Luigi Bersani tornare a prosternarsi davanti a Renzi.

Pensavate davvero che le posizioni del partitino dei transfughi contenessero una riflessione autocritica e irreversibile sulla drammatica stagione politica in cui il Pd, tutto unito, si adoperava per fare a pezzi la Costituzione nei suoi tratti socialmente più rilevanti?

Eccovi serviti!
Speranza riapre ora alla necessità di ricucire lo strappo, perché di fronte alla destra ovunque fortissima “non si può fare finta di niente” e si deve perciò verificare “se è possibile riannodare il filo che si è spezzato col Pd” in quanto solo un “centrosinistra unito” può vincere.

La strategia dell’inciucio che fino a ieri aveva avuto per primattore Giuliano Pisapia è stata riafferrata da coloro che furono i convinti sostenitori del governo bipartisan di Monti.

Ebbene, confessiamo di essere nauseati da questa insopportabile manfrina che si consuma sulle sorti del paese e dedichiamo all’Mdp le parole che nel celebre “Che fare” Lenin rivolse contro l’opportunismo politico bernsteiniano che contagiava parte della socialdemocrazia russa.

“Piccolo gruppo compatto – scriveva Lenin - noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza per mano.
Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco.
Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito la via della lotta alla via della conciliazione.
Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: "Andiamo nel pantano!".
E, se si incomincia a confonderli, ribattono: "Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà d’invitarvi a seguire una via migliore?".
Oh, sí, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati.
Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la nostra grande parola della libertà, perché anche noi siamo "liberi" di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso”.

Guerra per banche, guerra fra massoni



 Che Bankitalia responsabile della mancata vigilanza sui crac bancari non abbia vigilato affatto ed abbia, anzi, girato la testa da un’altra parte “lo sanno anche i bancomat”, come scrive con efficace sarcasmo Marco Travaglio.
Altrettanto lampante è che Ignazio Visco, “detto Tutto-va-ben-madama-la-marchesa” – scrive ancora con tagliente umorismo il direttore del Fatto Quotidiano – in un paese serio “non sarebbe più governatore da un pezzo”.
E allora, perché prendersela col “povero” Renzi che ora ne chiede la testa?
Per una ragione semplicissima, e cioè che per anni il duo Renzi&Boschi ha lasciato marcire le crisi bancarie, “per non turbare l’ottimismo obbligatorio fino al referendum del 4 dicembre 2016”.
In quel tratto di tempo il conto di quel disastro finanziario è cresciuto fino ad oltre sessanta miliardi e i conto è stato messo a carico dello Stato, cioè su tutti noi.
Ma c’è di più, perché lo “scaricabarile” sulla banca centrale serve a mascherare due magagne grandi come un condominio.
La prima è la responsabilità diretta e personale di Maria Elena Boschi in una delle vicende più scabrose fra i crac finanziari italiani, quello di Banca Etruria, che la signorina di Laterina ha cercato in ogni modo di coprire, abusando del proprio potere, negando e spergiurando la propria estraneità di fronte al parlamento, insieme alle pesanti responsabilità del padre che della banca di Arezzo era vicepresidente.
La seconda è che nel preteso licenziamento di Visco si nasconde non la voglia di pulizia, non l’esigenza di restaurare la credibilità gravemente compromessa della Banca centrale, non l’intento di riguadagnare la fiducia popolare verso i compiti di vigilanza di un ufficio che dovrebbe vegliare con scrupolo istituzionale sul risparmio degli italiani, ma la vendetta nei confronti di Visco, reo di avere chiesto il commissariamento della banca del papà della sottosegretaria alla presidenza del consiglio e di averlo multato.
Ora Renzi, recidivo nel considerare gli italiani una mandria di buoi, vende la sua personale crociata come un’iniziativa meritoria, ispirata al rispetto che si deve ai risparmiatori. E dal trenino che lo porta nel peripatetico viaggio propagandistico in giro per l’Italia ordina l’attacco a Visco. Ma da dove è uscita quella mozione? Perché nessuno ne sapeva nulla: non il partito, non i gruppi parlamentari. Cadono dalle nuvole sia il presidente del consiglio sia il capo dello stato.
Po si scopre il mistero: la prima firma sulla mozione di sfiducia la mette tale Silvia Fregolent, deputata che non ha alcuna competenza sulla materia, ma ha il merito di appartenere al ristretto cerchio magico boschiano.
Si tratta, palesemente, di un prestanome e, precisamente, il prestanome di Maria Elena Boschi, vera autrice del papello, nuovamente protagonista spudorata di un mastodontico conflitto di interessi che ogni giorno si gonfia di nuovi episodi.
La vituperata ditta Renzi&Boschi si muove ormai come una bussola impazzita, ma a guidarne le malefatte, nell’ombra e tuttavia sempre più visibili, agiscono lobbies e poteri corruttori; poteri che hanno da tempo espropriato quella sovranità che secondo la nostra Costituzione dovrebbe appartenere al popolo.
C’è solo da chiedersi come sia possibile che costoro tengano in ostaggio un paese intero.

lunedì 16 ottobre 2017

Ecco il risultato del liberismo: ci si infortuna e si muore di più sul lavoro, mentre la speranza di vita diminuisce





Dopo decenni nei quali si assisteva ad un decremento degli infortuni e delle morti sul lavoro (in misura comunque e sempre elevatissima) oggi assistiamo al trend inverso.
Infatti nei primi sette mesi dell’anno i primi sono cresciuti dell’1,3%, le seconde addirittura del 5,2%.

I cantori del nostro decrepito regime hanno tentato di spiegare con un trucco l’aumento degli omicidi bianchi, hanno cioè raccontato che all’origine del fatto vi è la risibile ripresa produttiva di questi tempi e l’aumento (altrettanto risibile) dell’occupazione.
Ma la bugia ha le gambe corte perché è proprio l’Istat a rivelarci che nel complesso dell’industria e dei servizi il numero delle ore lavorate è diminuito, come conseguenza dello sviluppo crescente dei lavori precari e discontinui.
Il che rinvia alle vere cause di questa ulteriore compromissione delle condizioni di lavoro: pochi investimenti in sicurezza, misure di prevenzione prossime allo zero, formazione inadeguata, occupazione instabile e precaria, organi di controllo e sorveglianza ridotti ai minimi termini, scarsa o nulla efficacia della rappresentanza sindacale.
Tutto ciò che si condensa in una sola formula: dilaga ormai senza argini lo sfruttamento del lavoro, spesso in forme primordiali, autorizzate da politiche che hanno indebolito i lavoratori davanti al padrone, rendendoli succubi di ogni sorta di ricatto.

A questa infamia se ne aggiunge un’altra: per la prima volta dalla promulgazione della Repubblica, la “speranza di vita diminuisce”: in altre parole, si muore prima.

Qui i corifei governativi tacciono.
Ma le ragioni sono altrettanto semplici.

La parte più debole della popolazione, le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà e quanti si trovano in un’area di prossimità all’indigenza non si curano più, perché le medicine e le visite ambulatoriali costano: sono 11 milioni gli italiani che hanno rinunciato alle prestazioni sanitarie.
Il tutto in un quadro aggravato dal peggioramento dei servizi pubblici, mentre sale vorticosamente la spesa sanitaria privata, arrivata a 34,5 mld di euro. Che significa “più sanità, ma soltanto per chi può pagarsela”.

Per questo la prevenzione di cui parla la propaganda governativa non è altro che un esercizio di cinica ipocrisia e il diritto alla salute un altro precetto costituzionale buttato nel cestino.

Del resto, i salari italiani, con una contrattazione collettiva che quando va bene racimola briciole, sono i più bassi nell’Europa dei 15, superiori solo a Spagna e Portogallo, mentre il potere d’acquisto delle pensioni è crollato in 15 anni del 33 per cento e la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente grazie al blocco della rivalutazione annuale introdotto dalla riforma Fornero.

Quindi, delle due l’una: o riusciamo a mandare al macero questa sciagurata politica e con essa le classi sociali e il personale politico che le propugna, oppure dei diritti sociali solennemente scolpiti nei fondamentali principi costituzionali non resterà traccia per le generazioni future.

lunedì 9 ottobre 2017

Il governo regala l’Ilva a Marcegaglia e soci, permettendo ai nuovi padroni di licenziare 4 mila lavoratori e di abbattere diritti e salari





Dopo l’affossamento dell’Ilva da parte della famiglia Riva e il disastro economico, sociale e ambientale procurato da questi magnifici esemplari dell’italica razza padrona, il ministero dello sviluppo economico che gestisce la società in regime di commissariamento ha accettato l’offerta d’acquisto della cordata Arcelor Mittal/Marcegaglia.

Costoro hanno scritto venerdì una lettera in cui hanno spiegato cosa intendono fare dell’assetto occupazionale del gruppo a fronte dell’annunciato investimento di circa 2 miliardi e mezzo fra risanamento industriale e piano industriale.

Ebbene, secondo i nuovi padroni, 4 mila dei 14 mila dipendenti sparsi per l’Italia sono in esubero e se ne dovranno andare.

A Taranto ne resteranno 7.600 su quasi 11 mila, a Genova 900 su 1.500, a Novi Ligure torneranno al lavoro in 700, meno della metà dell’organico attuale, mentre poche decine rimarranno in attività nei rimanenti stabilimenti.

Ma il taglio dei posti di lavoro non si esaurisce con questa sforbiciata perché il cosiddetto cronoprogramma aziendale prevede che nei prossimi anni, a regime, l’occupazione calerà a 8.480 dipendenti.

Inoltre, secondo Marcegaglia e soci il rapporto di lavoro sarà nuovo ad ogni effetto, dunque saranno cancellate le voci retributive relative agli accordi aziendali e saranno azzerati gli scatti di anzianità, con un salasso della busta paga tra il 20 e il trenta per cento.

E non è finita qui, perché trattandosi di nuovi rapporti di lavoro, secondo quanto prevede il Jobs act, i lavoratori non saranno più protetti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con la conseguenza che ove fossero individualmente licenziati, anche senza giusta causa o giustificato motivo, sarebbero cacciati con l’accompagnamento di una misera mancia, visto che la nuova normativa prevede il solo indennizzo di due mensilità per ogni anno di servizio prestato.

E poiché Am InvestCo – questo il nome della nuova cordata – è una nuova società, questa potrà utilizzare ex-novo tutto il pacchetto della cassa integrazione previsto dalla legge, avvalendosi di un ulteriore, straordinario polmone di flessibilità.

Ma che cosa ne sarà dei lavoratori in eccedenza? Semplice: resteranno in collo alla vecchia Ilva in amministrazione controllata, in regime di cassa integrazione “a perdere”.
Il costo dell’ammortizzatore sociale sarà a dunque a carico dei cittadini, perché nulla dev’essere imputato alla nuova azienda, beatificata come “salvatrice”, in base all’aureo principio del capitalismo da rapina che impone che si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite.

E i sindacati? Il confronto riparte oggi, a Roma, presso il ministero dello sviluppo economico, con i lavoratori in sciopero in tutte le sedi dell’Ilva. Ma occorrerà una rivolta per fare del confronto una trattativa vera e non una farsa dall’esito annunciato.