La sciagurata legge elettorale che nelle sue spericolate
varianti condiziona da molti anni la vita politica nazionale è servita a
inchiavardare il sistema politico in una ferrea logica bipolare, utile a
mandare in soffitta, insieme alla proporzionalità della rappresentanza
parlamentare, una reale dialettica democratica, coartandola nella camicia di
forza del “voto utile”. Si vota, quando ancora si vota, per chi si suppone meno
lontano, non per chi è più vicino al proprio sentire, perché le minoranze sono
nei fatti espulse dall’ingranaggio stritolante di una competizione elettorale
che si gioca con carte truccate. L’equivalenza sostanziale del profilo
politico-culturale dei principali competitors ha ormai persuaso la metà dei
cittadini ammessi al voto che le elezioni non servono a niente se non a
gratificare le ambizioni e gli interessi di un personale politico totalmente
autoreferenziale, dedito ad applicare i dogmi mercatisti del “pilota
automatico” di conio draghiano. Da un simile colpo al plesso solare la
democrazia rischia seriamente di implodere.
La costruzione
di una coalizione politica non ha alternative
Ecco perché, nella situazione data, la necessità di
costruire un’aggregazione di soggettività politiche capace di costituire una
massa critica sufficiente diventa la conditio
sine qua non per non ridurre la presenza di ciò che resta della sinistra di
classe ad un esercizio di velleitaria testimonianza.
Per questo credo necessario compiere ogni sforzo affinché
Unione popolare, pur nel suo traballante incedere, continui ad esistere. Purché
duri e non si riduca soltanto ad uno degli episodi transeunti di questa nostra
eterna transumanza da una coalizione all’altra, in cerca d’autore.
Va da sé che se al primo tornante riusciremo a
distruggere anche Unione popolare infliggeremo al morale non troppo alto dei
nostri militanti un colpo difficilmente riassorbibile.
Via dalle
pulsioni leaderistiche
Tuttavia, perché la costruzione finalmente funzioni,
dobbiamo imparare dagli errori compiuti. Per esempio, emancipandoci dalla
tendenza a ritenere più di ogni altra cosa decisiva la rincorsa a reclutare
qualche personaggio eccellente, qualche “papa straniero” che si suppone capace
di conferire alla coalizione il “soffio della vita”. Ci abbiamo provato più
volte e la cosa, con tutta evidenza, non ha funzionato.
Il rifugio salvifico nel (presunto) leader carismatico
di turno nasconde una sostanziale sfiducia nella propria proposta politica e si
è rivelato una scorciatoia praticata nella speranza, o meglio, nell’illusione,
che questa sovraesposizione personale, questo cedimento ad una forma di populismo
“sui generis”, potesse riscattare il nostro insufficiente radicamento sociale,
l’assenza di un conflitto di classe che lo innervi, vera radice di una nostra perdurante
marginalità politica.
Unione
popolare non può crescere su se stessa
So bene, ovviamente, che le elezioni non sono tutto e,
per un partito comunista, neppure il prevalente, ma oggi, come ieri e credo
anche domani, sarà ineludibile la questione della partecipazione alle
consultazioni elettorali, croce di tutta la storia del Prc, visto che intorno a
quegli appuntamenti si sono consumate sanguinose rotture e, ancora oggi, feroci
e irriducibili contrasti.
Ora, che Up debba cercare,
con ogni determinazione e in quanto possibile, alleanze elettorali, tanto nelle
consultazioni politiche generali quanto in quelle amministrative regionali e
comunali, dovrebbe essere, come suggerisce il buon senso, sforzo condiviso e
non motivo di laceranti contenziosi pseudo-ideologici. Certo, devono essere
soddisfatte condizioni minime: un programma accettabile, l’alternatività al
centrosinistra e poche altre cose essenziali. Chi pensa che Up possa crescere
su se stessa, guardandosi l’ombelico e svilupparsi per “partenogenesi”,
respingendo aprioristicamente qualsiasi convergenza, sbaglia di grosso e si
condanna (ci condanna) ad uno sterile arroccamento identitario, figlio di un
retaggio settario che finisce per precludersi qualsiasi concreto obiettivo di
cambiamento della realtà esistente.
Questa è però solo una parte
del ragionamento.
Alle elezioni ci si presenta. Sempre
L’altra ha anch’essa a che fare con il principio di
realtà: cosa facciamo quando ogni tentativo di costruire un’alleanza
elettorale, sinceramente e con convinzione perseguito, si rivela infruttuoso?
Oppure quando la sola possibilità che ci si presenta è quella di essere
cooptati in un ruolo gregario dentro uno schieramento che snatura il nostro
programma e la stessa ragione della nostra esistenza, cioè l’essere alternativi
al centrodestra e al centrosinistra? Cosa facciamo? Ci asteniamo dal
presentarci e scaldiamo i muscoli in attesa che maturino tempi diversi e che
qualcuno, prima o poi, ci offra un salvagente a cui aggrapparci? Rinunciamo
cioè alla nostra autonomia e certifichiamo la nostra dipendenza da altri?
La “condanna” di ogni partito, o anche di una semplice
coalizione, impone di partecipare alle elezioni. Se non lo fai risulti
invisibile, perché vuol dire che non possiedi un’idea di paese, o di regione, o
di comune da contrapporre a chi governa o amministra. Confermi, cioè,
implicitamente, che c’è un recinto, gelosamente custodito dagli attuali
protagonisti della scena politica, al di là del quale non esiste e non può
esistere nulla.
Conosco l’obiezione: riscuotere un risultato scarso, o
scarsissimo - l’incubo dello “zerovirgola”, per capirci - delude, mortifica,
scoraggia: di sicuro non solleva il morale di nessuno. Ma nascondere in modo
tartufesco la propria marginalità sotto il tappetto può tuttalpiù esorcizzare,
ma non cambiare, la realtà delle cose. E neanche questa mi pare una buona
soluzione.
I nostri veri maestri, i comunisti che si batterono
nelle condizioni più disperate, non esitarono mai a presentarsi alle elezioni,
almeno finché non fu loro impedito manu
militari: forse merita ricordare che Gramsci entrò in parlamento con le
elezioni del 1924, le ultime elezioni multi-partitiche a sovranità popolare svoltesi
nell’Italia che stava per sprofondare nella dittatura
fascista.
Settarismo e
politicismo: due errori fatali
A me pare che molti di noi sottovalutino e,
contemporaneamente, sopravvalutino l’appuntamento elettorale. Lo si sottovaluta
perché si pensa che l’approdo istituzionale non serva in quanto conta solo il
“sociale”, ed è un errore; lo si sopravvaluta perché, all’opposto, lo si vive come una sorta di “certificato di
esistenza in vita”, sulla base di un presunto primato assoluto del “politico”,
ed è un altro errore.
Allora, a me pare che contro il settarismo identitario
e il politicismo c’è forse quella che è la via maestra: stare con continuità
dentro i conflitti, cogliere ogni movimento reale della società e la
ripercussione che quel movimento esercita sulla politica: rendersi capaci
dell’analisi differenziata e metterla al servizio di una intelligente capacità
di azione politica. Insomma, occorre capire che non ci si trova mai “nella notte dove tutte le vacche sono nere”
e, nello stesso tempo, prepararsi ad una lunga marcia, perché non esistono
scorciatoie che trasformino in un batter di ciglio i brutti anatroccoli in
magnifici cigni.
Così si salda la tattica alla strategia e si evitano i
due rischi capitali. Il primo: quello di fare della strategia l’unica tattica,
che significa declinare, in ogni momento, se stessi, con ossessiva
ripetitività, vietandosi ogni possibilità di manovra politica e consegnandosi
ad una predicazione millenaristica; il secondo: quello di fare della tattica la
sola strategia, perdendo di vista l’obiettivo, cedendo all’improvvisazione,
all’elettoralismo fine a se stesso che fatalmente conduce all’opportunismo.
Se su questi nodi cruciali è bene venire in chiaro.
Talvolta per fare un passo avanti è necessario dividersi, nella chiarezza.
Unione
popolare e il Prc: una relazione da chiarire
L’ipotesi di trasformare UP in un partito non esiste,
se non nella testa di qualche intellettuale orfano di una propria collocazione
identitaria. Bisogna togliersi dalla testa che Up, attraverso un’acrobazia da
prestigiatore, possa (o debba!) trasformarsi nel partito che non riusciamo ad
essere. Questo equivoco può marciare solo ove non si comprenda quale differenza
passi fra un movimento plurale ed un partito comunista, soggetti di natura
diversa e con compiti diversi: da una parte, il partito comunista, che deve
organizzare /promuovere/guidare la lotta di classe, sapere leggere le
contraddizioni della formazione economico-sociale capitalistica e delineare un
progetto di radicale trasformazione della società; dall’altra una coalizione
ampia, “a bassa soglia d’ingresso”, che deve
avere come cornice politica e culturale la Costituzione antifascista, compito
essenziale, in una situazione nella
quale quasi l’intero arco parlamentare è ad essa ostile (ai suoi principi, ai
suoi valori, alla sua architettura istituzionale, al progetto di società che la
innerva).
Se UP deve diventare (quale
ancora oggi non è) un movimento largo e inclusivo, noi non dobbiamo chiedere a
nessuno che voglia parteciparvi di professarsi comunista. Con l’avvertenza che
nessuno può chiedere a noi di rinunciare ad esserlo e a rimanere organizzati
nel partito con la falce e martello. Dunque, il movimento deve avere unicamente
nel programma politico il comune punto di riferimento.
Il tema decisivo della sovranità: chi decide?
Ovvero: come si decide dentro
Up. In questo caso non è a mio avviso possibile adottare il criterio canonico
di ogni democrazia: “Una testa un voto”, dove “uno vale uno”.
Questo lo si può fare dentro
un partito o dentro un’aggregazione che ha ormai raggiunto un livello molto
forte di omogeneità politica, al punto di poter essere considerato un soggetto
unico dove, legittimamente, si decide a maggioranza. Non lo si può fare dentro
un contenitore formato sia da soggetti politici organizzati, sia da singole
persone.
La drammatica vicenda di 4
anni fa, dentro Potere al popolo, è lì dimostrarci che la rottura avvenne
proprio su questo: la pretesa di Pap di votare a maggioranza semplice su tutto,
mentre Pap lanciava l’Opa sul Prc. Se questa logica riprende il sopravvento, il
cortocircuito è dietro l’angolo.
Esiste un solo modo, per
quanto non esente da complicazioni, per procedere, ed è la decisione condivisa
(a larghissima maggioranza). Questo implica tre conseguenze della massima
importanza: che non può esservi alcuna cessione di sovranità da un partito
costituito ad UP che diventerebbe automaticamente un soggetto politico
sovraordinato; che tutto ciò che unisce deve essere agito, nello spazio
pubblico, come UP; che tutto ciò che non è condiviso restituisce a ciascun
soggetto il diritto-dovere di agire in proprio.
Naturalmente sui temi
controversi si continua a discutere e le pratiche comuni non possono che
aiutare ad ampliare l’area della condivisione.
Il rischio che questa prassi
possa porre chi non fa parte di una forza organizzata nella scomoda posizione
del vaso di coccio fra vasi di ferro esiste, ma l’impegno ad assumere decisioni
solo se largamente condivise può aiutare anche in questo caso.
L’adesione ad Unione popolare è un optional?
Se il partito aderisce come
tale ad Up, sulla base cioè di una decisione degli organismi dirigenti, questo
vale per tutti e per tutte. Quindi ognuno/a è intraneo/a ad Up e non c’è
bisogno di un doppio tesseramento per formalizzarlo. Si può essere d’accordo
oppure no, ma questo non toglie nulla al valore della decisione. Ricordo che
una volta, nel Pci, quando si accendeva una dialettica interna, chi aveva
posizioni risultate in minoranza, doveva essere il primo a sostenere
pubblicamente le posizioni della maggioranza. La cosa può apparire (e per certi
versi era) un po’ perversa, ma aveva una sua logica: quella che la linea della
maggioranza, sino a quando non cambia, è la linea di tutti, perché da questa
coerenza e da questo rigore dipendono la forza e la credibilità del partito.
Pretendere l’applicazione della linea adottata non è un atto di prevaricazione:
è semplicemente la condizione di esistenza del partito stesso. Noi invece no.
Il nostro partito è sicuramente libertario, ma solo per approssimazione
comunista, al punto che è possibile sottrarsi all’impegno – che dovrebbe essere
più che mai vincolante - di presentare alle elezioni la lista elettorale di cui
facciamo parte. Sembra che da noi ognuno possa farsi il proprio Prc personale,
quello che coincide con le proprie personali convinzioni.
Dunque, tutti noi facciamo
parte di Up, finché non cambiamo linea. Chi non ha partito deve invece potere
formalmente segnalare la propria adesione, con una dichiarazione on-line, e
sottoscrivere una quota, non consistente, ma non risibile. Questo non deve competere
agli iscritti/e, né al Prc che finanzia Up come nessun altro soggetto (denaro,
sedi, materiali, e così via).