“Il capitalismo sta morendo”,
recitava l’ottimistico refrain di una scolastica marxista conquistata alla
credenza di un prossimo, necessario tramonto del sistema imperniato su rapporti
capitalistici di produzione. La stupefacente capacità del vecchio mondo di
risorgere dopo ogni crisi si è incaricata di dimostrare l’infondatezza di
meccanicistiche profezie “crolliste” e il capitalismo, nella sua vocazione
polimorfa, ha saputo di volta in volta mettere in atto misure antagonistiche che
lo hanno reso capace di sopravvivere alle crisi più acute da cui è stato attraversato.
Del resto, mai Marx aveva autorizzato l’illusione di un epilogo evoluzionistico
verso il socialismo dei rapporti sociali, avendo non a caso dedicato l’intera
sua vita all’organizzazione del partito comunista. E da Rosa Luxemburg ad
Antonio Gramsci fu subito chiaro che il capitalismo non se ne sarebbe andato da
solo.
Colonialismo, imperialismo, inaudita
concentrazione del potere, globalizzazione, iperfinanziarizzazione
dell’economia, misure non convenzionali di politica monetaria, innovazione
tecnologica, organizzazione del lavoro, sino al ricorso allo sfruttamento umano
spinto a limiti estremi e, non ultima
ratio, il ricorso alla guerra, sono lì a dimostrare che la piovra ha saputo
trovare e trova in se stessa mille risorse ed artifizi per riprodursi.
La crisi sistemica del capitale
Cionondimeno, il sistema
retto sul rapporto di capitale è entrato in una crisi sistemica, andando
progressivamente a sbattere contro quello che Marx definì un suo limite
“interno”, un limite che rende via via decrescente la remunerazione del capitale
in rapporto all’investimento fisso. Comunque la si pensi a questo riguardo, è
un fatto difficilmente contestabile che la crescita rallenta da decenni in
tutto l’Occidente sviluppato e che lo stesso vale per il saggio di profitto,
ovunque in tendenziale diminuzione.
La reazione a questo processo
erosivo dell’equilibrio del sistema ha reso la borghesia capitalistica - i
“proprietari universali”, per usare l’efficace espressione di Luciano Gallino -
ferocemente aggressiva e determinata ad archiviare definitivamente la fase
“prometeica” del capitalismo, la sua promessa di felicità universale contenuta
nella dottrina Truman degli anni Cinquanta del secolo scorso, per concludere
che in questo mondo “non ce n’è per tutti” e che interi continenti e vaste
porzioni della stessa popolazione dei paesi sviluppati devono essere irrimediabilmente
abbandonati alla deriva. In questo nuovo scenario, anche la democrazia si è trasformata
in un fardello ingombrante ed è diventato necessario imprimere una torsione
autoritaria alla stessa architettura delle forme istituzionali e della governance politica.
Come dirà David
Rockefeller, fondatore della Trilateral
Commition, nell’Indirizzo al vertice della Commissione del giugno ’91,“la sovranità
sovranazionale di un’élite intellettuale e di banchieri mondiali è sicuramente
preferibile alle autodeterminazioni nazionali dei secoli scorsi”. E in modo ancor più diretto ed eloquente si esprimerà nel
maggio del 2013 il board della banca J.P. Morgan, sentenziando che “il sistema politico dei paesi europei del
Sud e in particolare le loro costituzioni adottate in seguito alla caduta del
fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione, perché
lì è forte l’influenza delle idee socialiste”.
Il messaggio è stato ed è chiarissimo: in
quei paesi vi è un sovraccarico di democrazia, per cui è necessario spostare il
potere dai parlamenti agli esecutivi e fra gli ostacoli da rimuovere stanno, in
primo luogo, la tutela dei diritti dei lavoratori, le loro organizzazioni e il
welfare.
La decisione delle classi
dominanti di sferrare un’offensiva a tutto campo contro l’insieme del mondo del
lavoro eterodiretto, la rinnovata corsa agli armamenti e l’opzione militare
completano un disegno teso a rimodellare l’organizzazione sociale e politica al
fine di mantenere saldo il dominio di classe sull’intero pianeta. In sostanza,
lo sfruttamento integrale di esseri umani e natura è nel tempo presente il
paradigma totalizzante riproposto dal dominio capitalistico.
Delirio antropocentrico
Con la formazione
economico-sociale capitalistica la contraddizione fra uomo e natura è
degenerata nella forma di una vera e propria inconciliabilità.
Il delirio antropocentrico si
è risolto nell’idea che l’uomo non è un “ente naturale”, ma si colloca al di
sopra della natura e delle sue leggi.
L’uomo, attraverso il lavoro,
“crea” la natura e si rende artefice, demiurgo, di una manipolazione che rompe
l’equilibrio dentro il quale ha potuto evolversi la specie umana, sino a
mettere in forse l’esistenza delle generazioni future.
L’intrinseca follia della teoria
e della pratica sviluppista consiste nell’idea malsana che la produzione di
merci, il consumo in crescita esponenziale di materia e di territorio possano
procedere linearmente, lungo un continuum
senza fine.
A questo punto si impone la
domanda: perché accade ciò? Come mai hanno ancora libero corso teorie
negazioniste che sembrano ignorare quello che è persino constatabile
empiricamente da ognuno di noi?
La ragione è semplice: il
capitale, che regola in modo ormai uniforme i rapporti sociali dell’intero
pianeta, è totalmente autocentrato. Esso non ammette né regole né limiti, né
vincoli, né condizionamenti che siano esterni al suo codice genetico. La sua missione
è quella di creare profitto, di estrarre plus-valore dal lavoro e di soggiogare
la natura. Nell’uno e nell’altro caso la sua onnivora voracità non conosce
inibizioni morali: il capitale, per definizione, è cieco.
Osserva Marco Bersani che “come da sempre ci
ricorda il pensiero femminista, la pandemia ha dimostrato come nessuna attività
economica sia possibile senza garantire la riproduzione sociale. E se
quest'ultima significa cura di sé stessi, degli altri e dell'ambiente, è
esattamente intorno a questi nodi che va ripensato l'intero modello economico-sociale;
non solo come riconoscimento tardivo del lavoro di cura, bensì come
risignificazione del concetto stesso di attività economica e di lavoro; detto
schematicamente, o il lavoro è cura di sé, degli altri e dell'ambiente, o non è”.
Appare vieppiù evidente come
il lavoro, fondato sullo scambio ineguale fra individui soltanto formalmente
liberi, stia nel rapporto di capitale alla base dello sfruttamento,
dell’autosfruttamento e delle diseguaglianze, tanto nella produzione quanto
nella riproduzione sociale.
Anche nella più spinta
modernizzazione capitalistica la compravendita della forza lavoro viene
regolata come scambio fra “cose”, e non fra esseri umani: il lavoro umano è una
merce come le altre (sebbene comprata a prezzo politico) e il mercato del
lavoro funziona al pari del mercato delle patate.
Dai “30 gloriosi” alla sconfitta del movimento operaio
In Italia, dalla fine degli
anni Sessanta e per almeno un decennio, la presenza di una classe operaia capace
di conquistare elevati livelli di soggettivazione politica aveva cambiato i
rapporti di forza fra le classi e l’insieme dei rapporti sociali, esercitando
un’influenza egemonica su tutte le manifestazioni politiche e culturali del
paese.
Come la Costituzione italiana
è stata il risultato della rivoluzione democratica e antifascista, di un movimento
di popolo che aveva nel
suo imprinting un forte
contenuto di classe, così lo Statuto dei
lavoratori è stato il prodotto
dell’entrata in scena di uno straordinario movimento operaio che ha conquistato
sul campo inediti diritti individuali e collettivi, spianando la strada alla
produzione di norme legislative che hanno in parte recepito e
codificato quei risultati.
Esattamente al rovescio, nel
lungo riflusso di questi decenni, nel ristagno della lotta di classe, quelle
conquiste sono state progressivamente erose o cancellate.
Il secondo comma dell’art.41
della Carta (“La legge determina i
programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e
privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”) è stato
nella nostra costituzione materiale rovesciato nel suo opposto. Il lavoro è al
servizio della riproduzione del capitale che decide se e cosa produrre in
ragione esclusiva dell’attesa di remunerazione dell’investimento effettuato.
L’interesse sociale, da “prius”
politico e sociale, è retrocesso a variabile dipendente del profitto. Prevale
la messa a mercato di tutto ciò che può assumere il carattere di merce. La sola
domanda interessante è per l’impresa capitalistica la domanda solvibile,
pagante.
Dal diritto del lavoro al “libero mercato delle
braccia”
Le condizioni di lavoro sono
ovunque peggiorate: dal salario alla sistematica distruzione del welfare, dal
carattere sempre meno progressivo dell’imposta sul reddito allo smantellamento
dei pilastri del giuslavorismo.
Il caleidoscopio del mercato del lavoro
contemporaneo, ridotto a libero mercato delle braccia, unisce vecchie a nuove
forme dello sfruttamento capitalistico (dalla legge 30 al Jobs act fino alle
più sordide forme di lavoro schiavile). La precarizzazione lavorativa ed esistenziale è divenuta il modello
canonico dei rapporti di lavoro nella modernità. False partite Iva, lavoro intermittente, lavoro a distanza,
smart working, lavoro agile: in un sistema di relazioni industriali
profondamente imbarbarito, si assiste alla sovrapposizione pressoché integrale del
tempo di lavoro al tempo di vita, senza né limiti né confini e senza che sia
possibile una seria regolamentazione contrattuale.
Con gli stivali delle sette leghe si procede verso
l’individualizzazione del rapporto di lavoro che rende plausibile l’inverarsi
del sogno di ogni capitalista: “libero padrone in libera impresa”.
Migliaia di giovani, reclutati per l’esposizione
Expo 2015, hanno poi direttamente scoperto come nella nuova vulgata il lavoro
possa non valere più niente e si sia costretti ad elargirlo anche a titolo
gratuito, in cambio di un umoristico curriculum.
Dal
capitalismo industriale finanziario al capitalismo digitale: nuove forme di
dominio
Il passaggio d’epoca che riorganizza le forme dello
sfruttamento è il passaggio dal capitalismo industriale finanziario a quello
che è ormai universalmente chiamato capitalismo digitale. Un passaggio, vale la
pena sottolinearlo, del tutto interno al modo di produzione e di consumo
capitalistico. La nuova gerarchia industriale vede in plancia di comando
colossi come Google, Amazon, Facebook che solo quindici anni fa non esistevano
e che con poche migliaia di dipendenti capeggiano la classifica mondiale del
fatturato e incassano profitti stellari.
I rapporti con i lavoratori sono regolati a distanza
da dispositivi digitali legati al loro corpo. Non vi è più una gerarchia
prossimale. Sarà un algoritmo a definire ritmi e tempi di lavoro, a scegliere
chi è meritevole di restare al lavoro e chi dovrà andarsene: una sentenza
inoppugnabile. Il meccanismo è asettico, impersonale, “pulito”.
Occorre prendere coscienza che questa modalità di
governo e di dominio si estende dal lavoro tradizionale al livello mondo,
perché ogniqualvolta noi utilizziamo lo smartphone
produciamo una massa sterminata di informazioni di cui si impossessano
gratuitamente le imprese proprietarie dei brevetti e degli strumenti che
utilizziamo. Queste informazioni vengono preziosamente custodite e vagliate e
serviranno per orientare produzione e consumo: miliardi di persone, quotidianamente,
stanno inconsapevolmente producendo plusvalore per le aziende capitalistiche.
Ma c’è un’altra implicazione. Consegnando le nostre
informazioni non stiamo solo producendo ricchezza per altri ma – sebbene non ve
ne sia contezza nei più – stiamo consentendo un controllo su noi stessi.
Come scrive Paolo Ciofi, “oltre ad offrire pubblicità per gli inserzionisti, nei livelli più
alti e sofisticati le maggiori piattaforme usano gli algoritmi e tutti i
trucchi che il software consente per metterci sotto controllo, ed estrarre dal
nostro corpo e dalla nostra mente tutto ciò che serve per pianificare la loro
attività di manipolatori e venditori di servizi: il corpo umano come un pozzo
di petrolio dal quale estrarre materia prima per il business (…). Il consumatore
non sa di essere un lavoratore, mentre il lavoratore diventa un consumatore che
non sa di lavorare”.
Difficile dire meglio.
Il
salto tecnologico: opportunità o maledizione?
Torna la ricorrente domanda che si pone di fronte ad
ogni salto tecnologico: l’applicazione delle scoperte scientifiche alla
produzione è una opportunità o una maledizione? Progresso o nuova radicale sudditanza?
I lavoratori di ogni luogo e di ogni tempo hanno
sperimentato come l’innovazione tecnologica porti con sé disoccupazione, in
ragione dell’aumento della produttività del lavoro. E come l’obiettivo della piena occupazione, trasformato
in diritto universale dall’articolo 4 della Costituzione, metta in luce un contrasto
irriducibile fra capitale e lavoro. Per il capitale un tasso stabile di
disoccupazione, l’avere a disposizione un esercito di riserva, è funzionale a
tenere bassi i salari. Per i lavoratori è vero l’esatto opposto. Di qui
l’opzione strategica di un grande piano per il lavoro imperniato sulla
progettazione di una radicale riconversione ecologica dell’economia. Una
riconversione che abbia per motore la “mano pubblica”: infrastrutturazione
primaria (fuori dalla mitologia speculativa delle ‘grandi opere’), bonifica
dell’assetto idrogeologico, messa in sicurezza delle aree a rischio sismico,
progressivo abbandono delle fonti energetiche di origine fossile e massiccio
investimento nelle fonti energetiche rinnovabili.
Ma vi è una risposta ed una
sola che possa venire razionalmente a capo di quella che sotto la giurisdizione
del capitale si risolve in una contraddizione insanabile ed è la riduzione dell’orario
di lavoro a parità di retribuzione.
Già Keynes, nell’intento di
salvare il capitalismo, aveva intuito che quella fosse la strada obbligata da
percorrere. Con un intento ben altrimenti radicale, gli autori del Manifesto dei comunisti avevano indicato
questo fondamentale obiettivo nel loro indirizzo ai proletari di tutto il
mondo.
Karl Marx, in particolare, ha
dedicato a questo argomento pagine memorabili, nelle quali il tema è affrontato
sotto un’angolatura speciale: quella della liberazione dal lavoro vincolato,
socialmente necessario, dell’affrancamento dall’alienazione, per riconquistare
le proprie energie fisiche e mentali ed approdare ad una forma superiore di
lavoro, di libera attività creativa: la produzione fine a se stessa, la capacità
di creare “secondo le leggi della bellezza”, propria di liberi esseri umani.
Lo sviluppo tecnologico
consentirebbe oggi ai produttori associati, riuniti in libere e democratiche
istituzioni, di risolvere tutti i problemi che si presentano all’umanità, di
riappropriarsi del tempo oggi sequestrato dal padrone e di affrancarsi da forze
estranee per ritornare protagonisti del proprio destino.
E’ parallelamente aperto un dibattito,
piuttosto acceso, sulla necessità di prevedere forme di reddito garantito, scollegato
dal lavoro (reddito di base, di cittadinanza, di inclusione, di dignità, di
garanzia e continuità, di autodeterminazione, di reinserimento, di autonomia,
ecc.). Si tratta di proposte elaborate da diversi soggetti collettivi, o da
intellettuali, taluni dei quali di solida formazione comunista. Si tratta di
proposte fra loro molto diverse per costrutto teorico, ampiezza di visione e
portata strategica.
Epilogo (provvisorio) di
una sconfitta storica
Come è
noto, al crollo dell’Unione Sovietica, contrariamente alle profezie dispensate
dal riformismo europeo, è corrisposta la crisi irreversibile delle
socialdemocrazie, definitivamente rinculate, l’una dopo l’altra, dentro il
dogma liberista, lungo un’inarrestabile fuga nell’opposto. La società di mercato
è divenuta l’orizzonte entro cui obbligatoriamente muoversi. Ci si persuase che
oltre quelle Colonne d’Ercole c’era solo l’ignoto.
La vittoriosa offensiva ideologica thatcheriana
degli anni Ottanta del secolo scorso (“la
società non esiste, esistono soltanto gli individui”) è stata la più netta
rivendicazione del tramonto della lotta di classe, l’affermazione apodittica
del primato assoluto del mercato, dell’individualismo proprietario, dell’idea
che non esiste riscatto collettivo, ma si progredisce esclusivamente in forza
delle proprie individuali capacità, anche mettendo spietatamente i piedi gli
uni sulla testa degli altri: un mix di calvinismo sociale (per cui ricchezza e
povertà sono, rispettivamente, meriti o colpa di ciascuno) e di hobbesismo (“ogni
uomo è lupo per l’altro uomo”). Il trionfo di questa ideologia, conseguito – è
utile ricordarlo - attraverso la liquidazione sul campo del più combattivo
sindacato britannico, ha forgiato un nuovo paradigma, fondativo di un salto
d’epoca, di un nuovo modo di pensare che ha plasmato le relazioni sociali e le
formazioni politiche in tutto il continente, condizionando potentemente
l’involuzione culturale di quella che fu la sinistra di classe. Fu proprio la
“Lady di ferro” che alla domanda di un giornalista che le chiese quale fosse
stata la sua più importante vittoria rispose “la trasformazione culturale del Labour”.
Si possono cogliere sino in fondo i tratti (e gli
effetti) di questa metamorfosi nella genesi e nell’architettura della
costruzione europea, consacrata al liberismo e al libero-mercatismo con la
benedizione delle forze di ispirazione socialista.
La
questione sindacale
Questa
debacle politica e culturale ha
investito come un ciclone anche le organizzazioni sindacali. In tutto il
continente, ma con una particolare accentuazione in Italia, il conflitto è stato derubricato da fisiologico confronto fra interessi
contrapposti a patologia delle relazioni sociali. Il dogma della
flessibilità, spacciato per naturale evoluzione dell’impresa moderna, ha via
via corroso l’intera impalcatura dei diritti; la contrattazione si è
trasformata in una negoziazione “a perdere”; la scelta della moderazione
salariale, nell’illusione che questa favorisse gli investimenti e
l’occupazione, si è impadronita, con poche significative eccezioni, dei gruppi
dirigenti sindacali. Mentre si rottamavano le scuole di formazione sindacale,
considerate retaggi di un sindacato intriso di ideologia, venivano forgiate
schiere di sindacalisti educati alla pseudo-scienza di una contrattazione che
legava gli emolumenti salariali a indici di bilancio imperscrutabili.
L’autonomia della rivendicazione salariale spariva e veniva soppiantata da
formule astruse in cui la retribuzione diventava una variabile dipendente, ora
dell’inflazione, ora del margine operativo lordo dell’impresa e da mille
diavolerie che la rendevano incerta e variabile. Ci fu contrasto, alla base, una
resistenza difensiva che qui e là ancora riaffiora, ma i fortilizi di
resistenza furono progressivamente espugnati.
Il
decentramento della produzione, la disarticolazione artificiosa del ciclo
produttivo in cento segmenti rigorosamente controllati dal padrone, sebbene
formalmente autonomi, hanno minato alla radice l’unità di classe, hanno ridotto
la consistenza e la forza della classe operaia “centrale”, hanno
desindacalizzato una grande fetta del lavoro industriale e dei servizi.
La
contrattazione collettiva nazionale è ormai congelata da tempo o ridotta a un
simulacro, mentre quella aziendale, anche nel settore manifatturiero dove
vantava la sua più antica e consolidata tradizione, si è strada facendo
trasformata in un aziendalismo intrinsecamente segnato dalla subalternità. La
proliferazione degli enti bilaterali e le forme esplicite o surrettizie di
finanziamento del sindacato ad esso connesse ne hanno compromesso l’autonomia e
l’indipendenza.
Il
peso dei servizi a prestazione individuale (uffici vertenze, patronati, assistenza
fiscale) ha assunto un rilievo sempre più rilevante rispetto alla
contrattazione collettiva e sta mutando radicalmente il rapporto stesso fra il
sindacato e gli iscritti. Si attenua sino a smarrirsi del tutto il significato
del sindacato come strumento di riscatto collettivo: il riferimento non è più
la classe, ma le persone che avendo un lavoro cercano nel sindacato, ciascuna
per sé, una qualche forma di assistenza e di protezione individuale. Così, la
più elementare coscienza di classe si stempera sino ad evaporare.
Riunificare tutto il lavoro eterodiretto
Ora, è evidente che una
svolta non può che passare attraverso la ricostruzione del sindacato, per
rimettere in piedi e rifondare un
modello contrattuale
inclusivo, capace di riunificare i segmenti in cui tutto il mondo del lavoro
eterodiretto è stato scomposto, disaggregato, per ricostruire quella trama solidale
la cui disintegrazione sta alla base della guerra tra poveri su cui i padroni
hanno in questi anni costruito la propria fortuna economica e politica.
Per farlo efficacemente,
l’ultima cosa che serve è avventurarsi in bizzarre fumisterie.
Si può leggere nel documento
che la Cgil ha portato alla discussione del suo 18°congresso che “nel nuovo modello di relazioni industriali
innovative, in funzione delle nuove caratteristiche della prestazione del
lavoro digitale, la nuova frontiera è contrattare l’algoritmo”.
Inutilmente cerchereste nel
testo un approfondimento circa le caratteristiche di questo “innovativo”
modello negoziale. Mentre non è difficile immaginare la reazione umoristica che
questa formula ha generato fra gli operai, i quali forse preferirebbero un sindacato
che tornasse ad occuparsi di salario, di orario e condizioni di lavoro,
considerato che il salario continua a diminuire, l’orario ad aumentare e le
condizioni di lavoro a peggiorare. Ma per farlo – ecco il punto – non bisogna disporsi
a “contrattare l’algoritmo” quanto, piuttosto, a liberarsene. L’homo sapiens,
dopo tutto, può e sa fare di meglio che lasciarsi guidare da un algoritmo. Ciò
che comporta il recupero di una smarrita propensione al conflitto, alla
vituperata lotta di classe, troppo
spesso trattata come un’ubbìa
passatista, di fronte alle velleità concertative di questo trentennio.
La rivoluzione non è un destino scritto nel Dna del
proletariato
Abbiamo da gran tempo
imparato che la rivoluzione comunista non è un destino scritto nel codice
genetico del proletariato al quale
spetterebbe solo di scoprire
ciò che è occultato dall’ideologia delle classi dominanti. Alimentare questo
equivoco consolatorio, per giunta nelle modeste condizioni in cui siamo, servirebbe
solo a produrre un involontario quanto poco raccomandabile effetto comico.
E’ invece indispensabile
riprendere con umiltà il trascuratissimo lavoro di inchiesta e di analisi della
composizione di classe nel tempo
presente, delle condizioni
oggettive e soggettive di ogni segmento del lavoro subordinato o eterodiretto. Quasi
nessun sindacato sente più il bisogno di apprendere direttamente dai
lavoratori, dalla materialità della loro condizione. Il sapere è già
presupposto, si forma e si deforma nei labirinti autistici delle relazioni
industriali, anch’esse sempre più asfittiche e inconcludenti.
Tornare all’inchiesta
Tornare all’inchiesta
significa indagare innanzitutto le differenze, cioè le specifiche modalità
attraverso le quali si materializza il rapporto di capitale nel tempo presente,
come esso cambia la concreta condizione di lavoro e forma le idee, la coscienza
di sé, le aspettative
di quanti entrano nel
processo di produzione e riproduzione.
Fra i pochissimi che stanno
investendo nel lavoro di inchiesta e di analisi per sostenere, connettere e
organizzare le lotte che a macchia di leopardo sono in atto in Italia, c’è il
collettivo Clash City Workers.
La composizione tecnica di classe è allora il primo
punto da cui partire: comprendere come ogni segmento si colloca nella
complessità dell’organizzazione della produzione sociale, come ogni tessera del
mosaico contribuisce alla generazione della catena del valore. Non per ridurre
tutto, meccanicamente, ad omogeneità ma, esattamente al contrario, per cogliere
gli aspetti differenziali, quelli attraverso i quali il capitale divide e
contrappone il lavoro subordinato, quello formale e quello informale, quello
materiale e quello intellettuale, quello cognitivo in ogni sua sfaccettatura e
quello in cui la fatica fisica è ancora l’elemento prevalente.
Insomma, l’omogeneità della
classe, oltre la dimensione seriale, non è un dato di partenza, prodotto
necessario di una sorta di “ontologia” proletaria, ma l’obiettivo per cui
lottare.
L’indagine deve anche saper
decifrare la struttura soggettiva dei bisogni, senza la quale il concetto di
composizione tecnica rimane ancorato ad una descrizione sociologica.
Solo dentro questo complesso
processo è possibile tentare di conquistare una ricomposizione politica di classe e definire nel
concreto (non astrattamente, non “in vitro”) una politica capace di riaggregare
ciò che l’organizzazione capitalistica del lavoro ha diviso, trasformando il
mondo del lavoro in un caleidoscopio, fratturandone la coesione solidale,
separandone gli interessi, ponendoli in reciproca concorrenza.
Con questo schema teorico e
nella temperie del conflitto si può individuare il piano comune, concreto e
insieme politico e simbolico su cui far leva per ridare vita ad un punto di
vista di classe oggi profondamente indebolito.
Hic et nunc
Ci sono due punti chiave su cui re-incardinare l’iniziativa
politica e sindacale.
1. Riproporre l’urgenza assoluta della questione salariale e organizzare la
lotta per mettere fine ai salari da fame, ponendo l’obiettivo che nessun lavoro
(da quello dei raccoglitori di agrumi nelle campagne meridionali a quello dei
riders) possa valere meno di 10 euro l’ora. Dieci euro come minimo tabellare,
fissato dalla legge, a cui aggiungere i ratei di tredicesima, ferie e
trattamento per malattia, infortunio e maternità. Questa semplice e lineare
indicazione, immediatamente comprensibile da parte di tutti i proletari e da
tutte le proletarie di questo paese, coerente con quanto stabilito
dall’articolo 36 della Costituzione, costringerebbe le stesse organizzazioni
sindacali maggiormente rappresentative a rivedere la scala parametrale dei
contratti di non poche categorie dove coloro che sono inquadrati al livello più
basso dell’inquadramento percepiscono molto meno di quell’importo minimo capace
di assicurare qualcosa che assomigli a “un’esistenza libera e dignitosa”.
2. Riesumare il tema sciaguratamente rimosso della riduzione dell’orario di
lavoro, che ha rappresentato un caposaldo della migliore storia sindacale passata:
dal lavoro che si protraeva “da sole a sole” (per usare un’espressione di
Giuseppe Di Vittorio) alle 48 e poi alle 40 ore settimanali, per arrivare alle
36 in vigore nel settore pubblico. Il traguardo delle 32 ore, come nuovo orario
legale, senza perdita della retribuzione, costituisce un passaggio obbligato, a
maggior ragione di fronte all’impatto delle nuove tecnologie digitali che
abbandonate nelle mani dei padroni determinerebbero fatalmente un’ondata crescente
di disoccupati.
Riabilitare
e praticare il conflitto
Risalire il piano inclinato comporta la fatica di
un’immersione nelle lotte e nelle rivolte, ancora difensive, sussultorie ed
episodiche, che attraversano il paese, tentandone l’unificazione e la
produzione di senso; e – contemporaneamente –l’ingaggio per una ridefinizione
teorica capace di alimentare una nuova narrazione anticapitalistica di senso
comune. Ci sono molte buone ragioni che rendono impervio questo percorso. Ma
non vi sono scorciatoie. E l’illusione di avventure politiciste che
restituiscano respiro al di fuori della riorganizzazione del conflitto ha già
dimostrato tutta la propria inconsistenza.
Un film
di fantascienza di grande successo di alcuni anni fa, “Matrix”, dei fratelli Wachowski, propone una grande metafora del
mondo di oggi, come vive nel racconto di uno dei suoi protagonisti che così
sentenzia: “Io disprezzo voi umani perché
non siete dei veri mammiferi… I mammiferi instaurano un equilibrio fra sé e il
mondo circostante. Voi no. Voi colonizzate un territorio, lo depredate, poi
passate ad un altro. E così via. C’è un solo organismo vivente che si comporta
come voi: il virus”.
Marco
Bersani, Fuori dal virus del del capitalismo, per una società della cura, Su la testa, 1° luglio 2020
Scrive
Marta Fana: “Il precariato è la risposta
feroce contro la classe lavoratrice, il tentativo più riuscito di distruzione
di una comunità che aveva in sé un connotato, quello di classe, che si
caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli
interessi di chi ogni mattina si sveglia e coltiva il culto dell’insaziabilità,
dell’avidità che si fa potere. Il potere di sfruttare, di dileggiare tutti
quelli che contribuiscono a creare le fortune dei pochi che se le accaparrano
(…). Loro hanno vinto nel momento in cui sono rimasti uniti perseverando nel
disaggregare i lavoratori in quanto corpo sociale. Per farlo hanno avuto bisogno
di molta creatività, di imporre, con una buona dose di maquillage, un nuovo
volto al lavoro: eliminando dall’immaginario i bassifondi, gli operai;
escludendo dal racconto quotidiano la fatica dello sfruttamento; mascherando
l’impoverimento dietro l’obbligo di un dress code”.
Osserva
Renato Curcio che “solo gli schiavi,
nella storia, producevano plusvalore assoluto. Il padrone dava loro solo ciò
che serviva per rimanere in vita. Ora stiamo attraversando una fase storica in
cui il capitalismo digitale recupera il rapporto di schiavitù e lo ripropone –
mutatis mutandis – sotto forma di un lavoro volontario, disseminato e persino
suadente. Il capitale riesce cioè in un miracolo egemonico, in senso
gramsciano: riproduce il rapporto capitalistico di produzione non solo
attraverso la coercizione, il dominio, ma, contemporaneamente, attraverso il
consenso”
(Renato
Curcio, Capitalismo digitale. Controllo,
mappe culturali e sapere procedurale: progresso?, in Paginauno n.50)
Così si esprime il collettivo nell’incipit di
un libro che riassume i risultati di una ricerca e di un’inchiesta condotti
“sul campo”:
“Purtroppo a Sinistra,
in quella parte politica che una volta era interessata a studiare com’era fatta
la società per trasformarla, abbiamo trovato ben poco. Sono decenni che si è
rinunciato alla capacità di analizzare seriamente la struttura del corpo
sociale e ci si è persi invece dietro a tatticismi politici, a suggestivi
‘immaginari’, a nuove ‘narrazioni’(…). Nel frattempo, proprio chi ci governa ci
studiava attentamente, produceva ricerche, indagini, sondaggi, pieni di dati e
ragionamenti. Perché? Perché chi ci governa ha molta più consapevolezza di noi.
Chi ci governa – che per comodità chiameremo la borghesia, i padroni, quelli
che detengono i mezzi di produzione (fabbriche, campi, aziende, proprietà,
capitali, rendite…) – si percepisce come un insieme definito da certe
caratteristiche, come una classe sociale con degli interessi precisi,
contrapposti ad un’altra classe sociale che esprime ‘naturalmente’ altri
interessi, anche quando non ne è cosciente. Per questo motivo la borghesia ha
bisogno di sapere come siamo fatti (…). Anche noi (…) abbiamo bisogno di sapere
precisamente come siamo fatti e come sono fatti i nostri nemici (…). Che lo si
voglia o no, è la realtà il terreno dello scontro: anche perché a combattere
con le allucinazioni si perde sempre”.
Clash City Workers, Dove
sono i nostri, lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi,
pp.10,11,12, La casa Usher