lunedì 23 novembre 2020

Intervento al Cpn 21-22 novembre 20

 

C’è molto di Kafka nei nostri comportamenti. Ci siamo convinti– almeno a me pare di avere capito – che è indispensabile lavorare ad un congresso unitario, che non significa affatto piallare le differenze che è bene possano vivere, in una sana dialettica, ma dentro un impianto condiviso sul quale innestare alcuni snodi, alcune tesi alternative che consentano di scegliere, senza drammi, la linea da adottare. E da applicare. 

Ma è chiaro che se non c’è neppure la possibilità di un impianto condiviso, di un massimo comune denominatore, se l’unico confronto interno si regge sulla dinamica cristallizzata fra governo e opposizione, vuol dire che non c’è un partito solo, ma ce ne sono due, forse tre, ma non uno solo.

Allora le ragioni di divisione fra eterni duellanti si riproducono all’infinito, in una insuperabile coazione a ripetere, come in quel film dove il protagonista è costretto a rivivere sempre lo stesso giorno: perché non c’è la linea politica, perché non hai fatto autocritica, perché non hai tratto bilanci su tutte le scelte precedenti (da Rivoluzione civile a Potere al popolo e via retrocedendo nel tempo), perché non ti sei flagellato abbastanza sullo 0,3% delle elezioni in Puglia, quando il vero bilancio di cui occuparsi dovrebbe servire a spiegare perché non riusciamo a fare quello che diciamo di voler fare e come ricostruire in un cimento comune, in uno sforzo solidale, un partito che sia in grado di farlo. Ma la minoranza non entra in segreteria perché nulla sembra giustificarlo se prima non si dipana la matassa fino all’ultimo filo. Non solo, c’è chi si oppone ad un rafforzamento dell’attuale esecutivo.

Allora chiedo al segretario, che presiede la commissione politica congressuale, di scrivere una traccia su cui lavorare e portare seriamente avanti il lavoro di ricerca di cui abbiamo tutti parlato.

Perché di discussioni da fare, di elaborazioni da rendere meno superficiali, di strategie da mettere a punto ve ne sono eccome.

 

A partire dal tormentone che segna da sempre la nostra vita interna, vale a dire gli appuntamenti elettorali.

Passando al merito, c’è un non detto, che dovrebbe essere reso esplicito, nelle posizioni di alcuni compagni, che suona così: “se non siamo nelle istituzioni, non siamo niente”. Questo è davvero un punto dirimente. Soprattutto nella situazione odierna, dove porre come irrinunciabile l’entrata nelle istituzioni, quando la nostra forza politica ed elettorale è così ridotta, significherebbe prestarsi ad entrare in coalizioni nelle quali la nostra possibilità di influenza e di efficacia sono pari a zero, in cambio di uno strapuntino che funzioni come illusorio certificato di esistenza in vita.

Altra cosa è se la tua azione politica, se le lotte di cui sei stato protagonista, se la credibilità che hai conquistato sul campo ti mettono nelle condizioni di avere una forza negoziale, di fare accordi davvero utili e capaci di cambiare la realtà delle cose, di essere utile alle persone che rappresentano il tuo riferimento sociale, senza offuscare minimamente il senso generale della tua strategia. Se invece inverti l’ordine dei fattori, il prodotto cambia radicalmente: la strategia sparisce e diventa puro tatticismo fine a se stesso, navigazione a vista, galleggiamento su un terreno arato dagli altri. Lo fa già Sinistra italiana con i risultati che vediamo quotidianamente.

Mi viene in mente la durissima polemica che Enrico Berlinguer ingaggiò contro la destra interna, a pochi mesi dalla sua morte su palco di Padova, quando la destra rivendicava che per crescere meglio e conseguire più ampi consensi elettorali occorreva trasformare il partito in una grande forza di opinione, più moderata e meno ancorata alle vecchie ubbìe classiste. Ed ecco la risposta che il capo del Pci diede in quella circostanza:

“A tener dietro a quei ragionamenti – rispose B. – si finirebbe non col divenire un grande partito di massa moderno, ma un partito elettoralistico, un partito all’americana, cioè un partito che penserebbe solo a prender voti, che svaluterebbe il lavoro a diretto contatto con la gente per aiutarla a ragionare, a organizzarsi e a lottare, che svuoterebbe di ogni contenuto la militanza politica, che penserebbe solo ad avere più deputati, più senatori, più consiglieri, più assessori, più posti di potere (…). Ma un partito rinnovato a questo modo sarebbe ancora il PCI? Non sono forse l’elettoralismo e la caccia al potere per il potere i vizi degli altri partiti ai quali si vorrebbe che noi ci omologassimo? (…). Ebbene, questo è il momento di fare più iscritti, e al tempo stesso di formare militanti, più consapevoli e attivi, di avere cioè più compagne e compagni impegnati in un lavoro preciso, con compiti ben definiti, con una carica politica, ideale e umana, armati della quale si va e si sa stare fra le masse, con i loro problemi, le loro aspirazioni, con le loro rabbie, le loro lotte”.

Quella risposta di B. è una lezione che servirebbe anche a noi, perché quella che allora fu una tragedia, per noi, ridotti ad un sedicesimo, o a un trentaduesimo di ciò che fu il Pci, si volgerebbe in farsa.

Scriveva Nicolò Machiavelli nel Principe che ‘Se le Repubbliche e le sette (cioè i partiti odierni) non si rinnovano, non durano. E il modo di rinnovarle è di ricondurle verso i principi loro”.

 

Le cose di cui invece dobbiamo occuparci, senza perdere ulteriore tempo, sono di fondamentale importanza e io ho qui il tempo di elencarle solo per titoli:

1.           la pandemia ha prodotto le condizioni per una nuova narrazione di senso comune che può prendere direzioni molto diverse, come in tutti i momenti di crisi acuta: la nuova consapevolezza che va promosso un grande sforzo solidale, che va  rilanciata la funzione della mano pubblica (sanità, previdenza, istruzione, investimenti per il lavoro) e che bisogna invertire la corsa alle privatizzazioni nel suo contrario, oppure, all’opposto, in assenza di una critica radicale e di una proposta credibile di cambiamento, si faccia strada la convinzione che serva una stretta autoritaria;

2.           prima o poi si uscirà dal tunnel, fuori dalla moratoria del patto di stabilità, e vi arriveremo in ginocchio, con un crollo della produzione industriale, con salari da fame e contratti al palo, con licenziamenti di massa e una caduta nella povertà di strati estesi della popolazione, con un aumento della precarietà del lavoro e la spinta confindustriale a fare dello smart working l’occasione di un forte impulso verso l’individualizzazione dei rapporti di lavoro, fuori da ogni vincolo contrattuale. A quel punto torneranno in vigore tutte le norme iugulatorie dei trattati e il calvario di un rientro dal debito e dagli interessi che saranno lievitati in modo esorbitante, assorbendo tutto l’avanzo primario che si dovesse generare con i primi refoli di ripresa. Ne deriverebbe la distruzione di ciò che resta del welfare, del sistema di protezione sociale. Nostro compito, riprendendo ciò che abbiamo detto nei mesi scorsi, è promuovere una campagna battente contro i vincoli dell’architettura monetarista dell’Ue che hanno dimostrato come anche in questa parte del globo sia necessario che la Bce stampi denaro, non imputabile a debito, per sostenere un grande piano per l’occupazione e la ricostruzione dell’infrastrutturazione primaria, la riconversione ecologica dell’economia. Nella continuità dei trattati c’è spazio solo per un aumento delle disuguaglianze e per una regressione generale della civiltà. Altrimenti, come profeticamente scriveva Karl Marx, continuerà ad inverarsi la follia per cui “l’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che entri realmente nel possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico”.

3.           Quando definiamo un progetto politico non ce la caviamo con il comodo elenco di tutte le cose che bisognerebbe fare, senza definire priorità strategiche ed evitando furbescamente contraddizioni in termini e di sostanza: piena occupazione, riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore, ma anche RdB incondizionato del quale dovremmo approfondire implicazioni teoriche, politiche e sociali; se si segue una strada se ne esclude un’altra e le due non sono certo equivalenti;

4.           Con una certa, ingiustificata supponenza, continuiamo a parlare di lavoro come se maneggiassimo l’argomento con disinvoltura. In realtà abbiamo iniziato solo da poco ad occuparcene con serietà. La questione cruciale della ricomposizione di un fronte di classe dovrebbe stare al centro delle nostre preoccupazioni, a partire dalla questione sindacale che continuiamo a trattare con reticenza, come se il partito dovesse stare ben attento a non rompere le uova nel paniere a questa o a quella organizzazione. Il sindacato possiede in esclusiva solo il compito di fare i contratti. Su tutto il resto non esistono né deleghe, né prerogative dedicate. Il partito deve avere un punto di vista su tutto, altrimenti abdica al ruolo che diciamo essergli proprio di organizzare la lotta di classe;

5.           Mentre siamo immersi nel lockdown si sviluppa silenziosamente, sotto traccia, una discussione che coinvolge centrosinistra e centrodestra su modifiche elettorali e alterazioni costituzionali che hanno per obiettivo la riduzione del ruolo del parlamento, la definitiva liquidazione delle minoranze e l’esito finale di una Repubblica presidenziale di cui si iniziò a parlare nel ’97 con la commissione bicamerale presieduta da Massimo D’alema. Dobbiamo rilanciare con grande forza la nostra battaglia contro il presidenzialismo già perfettamente introiettato nelle elezioni comunali e regionali.

Di tutto questo merita che ci occupiamo con passione e impegno senza i quali ogni traguardo diventa impossibile.

martedì 6 ottobre 2020

Intervento al convegno on line sulle stragi fasciste e sulla strategia della tensione. 1 agosto 2020

 


 


 

L’antefatto della strage di Piazza della Loggia: le lotte di classe a Brescia nei primi anni Settanta

 

Per capire cosa sia stata la strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974 è indispensabile fare un passo indietro di alcuni anni. Anni cruciali che hanno rappresentato uno spartiacque nella storia dell’Italia repubblicana, lungo il decennio che va dalla fine degli anni sessanta a buona parte dei settanta.

 

Il 20 maggio 1970 entra in vigore lo Statuto dei diritti dei lavoratori. E’ una vera rivoluzione perché, per la prima volta dalla fondazione della Repubblica, la Costituzione varca le stanze chiuse di ogni luogo di lavoro. La fabbrica non è più una zona franca, dominio esclusivo del padrone. Si riconosce e formalizza in modo cogente che i lavoratori hanno il diritto di organizzarsi e di tutelare i propri interessi in forma conflittuale, l’attività antisindacale viene punita in quanto reato, i licenziamenti di cui sia dimostrata l’illegittimità vengono revocati, la tutela dell’integrità psico-fisica dei prestatori d’opera viene con forza affermata. Da universo concentrazionario dove è possibile ogni arbitrio padronale la fabbrica diventa luogo dove in forza di legge è possibile affermare i diritti di cittadinanza, la libertà di pensiero, di attività sindacale.

 

Ma lo Statuto non piove dal cielo. Esso è il frutto di una straordinaria stagione di lotte operaie che conquistano sul campo parte rilevante dei risultati che ora trovano una legittimazione legislativa.

Il contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici del 21 dicembre 1969, firmato dopo oltre 180 ore di sciopero, viene vissuto dai vertici confindustriali come uno smacco insopportabile.

 

Ma il movimento operaio che era stato protagonista di quella impetuosa stagione non si ferma. E realizza forme

inedite di rappresentanza sindacale che prevedono un intreccio di democrazia diretta e democrazia delegata e rimodellano lo stesso rapporto fra sindacato esterno e rappresentanza interna. Nascono i consigli di fabbrica. I delegati non sono più di nomina esterna ma vengono eletti da tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato. Ogni reparto o gruppo omogeneo diventa una sorta di collegio uninominale, dove ognuno è elettore ed eleggibile. Vige la revoca del mandato, se sottoscritta dal 50%+1 dei lavoratori di cui il delegato è espressione.

 

Ciò che rende questa esperienza un unicum nella storia del sindacalismo mondiale è la decisione del sindacato di mettere in capo ai delegati liberamente eletti i poteri che lo Statuto attribuiva alle Rsa di designazione sindacale. Prima nei metalmeccanici, in seguito anche nelle altre categorie, i consigli di fabbrica diventano il primo livello unitario della struttura sindacale, a cui si riconoscono poteri di contrattazione e di rappresentanza.

Questa potente iniezione di democrazia, che sorge direttamente dalla base, diventa l’elemento propulsore, direi scatenante, di una capillare vertenzialità quale non si era mai vista in precedenza.

I padroni non mandano giù il rospo e ogni vertenza produce uno scontro di grande durezza. Prima ancora di guadagnare il tavolo di trattativa occorre fare riconoscere come interlocutori del negoziato i consigli di fabbrica. Davanti ai cancelli si consumano veri e propri corpo a corpo, con i crumiri e con i fascisti che appaiono sempre più frequentemente sulla scena, sistematicamente spalleggiati dalla polizia e dai carabinieri. Non solo, ormai, davanti alle fabbriche metalmeccaniche, ma anche davanti a quelle tessili, dell’abbigliamento e calzaturiere dove sono le donne a guidare e sostenere le battaglie più dure.

 

I padroni non ci stanno: “Bisogna fermarli. A qualsiasi costo”

 

I padroni bresciani si riorganizzano, si moltiplicano le riunioni di associazione nelle quali essi manifestano tutta la propria rabbia per quella che chiamano un’usurpazione, una violazione della proprietà privata, la fabbrica divenuta teatro di un conflitto di potere quotidiano. Un sentimento si fa strada sempre più acuto nel padronato: “bisogna fermarli. A qualsiasi costo”.

Torna a galla “il marcio di Salò”, la parte più intrisa di fascismo, strutturalmente ostile al sindacato, abituata a trattare con il bastone i rapporti sociali.

Giorgio Almirante viene sistematicamente a Brescia: a Nave, a Lumezzane, sul Garda. Qui si incontra con gruppi di imprenditori, soprattutto siderurgici, garantendo loro sostegno attivo. Vengono assunte squadre di picchiatori fascisti (all’Idra di Pasotti, alla Fenotti &Comini, alla Palazzoli) con il solo compito di intimidire i lavoratori.

 

I prodromi della strage

 

Dal 1970 in avanti è un crescente stillicidio di attentati alle sedi sindacali, del Pci e dello Psiup; si moltiplicano gli agguati a militanti di sinistra, militanti del movimento studentesco vengono aggrediti da gruppi di fascisti che fanno capo ad Ordine Nuovo.

Inutilmente il Comitato Unitario Provinciale Antifascista interviene presso prefetto e questore per chiedere un intervento nei confronti di organizzazioni di cui si conoscono perfettamente nomi e intenzioni. E’ sempre più chiaro che i fascisti contano di simpatie, connivenze, quando non aperto sostegno negli organi istituzionali e di polizia.

Dieci giorni prima della strage un fascista, Silvio Ferrari, salta in aria con il suo scooter mentre trasporta un ordigno destinato ad un attentato.

 

28 maggio 1974: la strage

 

Nei giorni immediatamente successivi viene proclamata dal CUPA una manifestazione antifascista a cui il sindacato aderisce unitariamente proclamando per quel giorno uno sciopero generale di 4 ore che si svolge sotto una pioggia battente.

Alle 10,12, mentre è in corso il comizio, sotto il portico adiacente alla piazza, esplode la bomba: alla fine saranno 8 i morti e 108 i feriti. Muoiono sei insegnanti, l’intero gruppo dirigente della Cgil scuola che si era dato appuntamento nei pressi del cestino dei rifiuti dove era stato deposto l’ordigno per discutere di una iniziativa per sostenere la gratuità dei libri di testo. Muoiono dilaniati anche due operai ed un pensionato, ex partigiano.

Di tutti gli eccidi perpetrati nel corso della strategia della tensione, quello di Brescia è il più direttamente rivolto contro i lavoratori. Questa volta non viene scelto un luogo neutro (una banca, un treno, una stazione) dove sparare nel mucchio per creare terrore. L’obiettivo questa volta è esplicito e diretto: il nemico dichiarato è il movimento operaio.

 

Lo sconvolgimento è totale, sangue ovunque, scene di disperazione, ma non prevale il panico. La piazza non viene abbandonata. Si prestano i primi soccorsi ai feriti. Solo due ore dopo lo scoppio il vicequestore e il capitano del nucleo investigativo dei Carabinieri procedono al lavaggio della piazza, facendo scomparire reperti essenziali per comprendere la natura dell’esplosivo utilizzato dagli attentatori: è il primo di una lunga serie di depistaggi messi in atto dagli apparati dello Stato.

La prima risposta: occupare le fabbriche e assemblee ovunque

 

Immediatamente si decide di andare in massa alla Camera del lavoro che da quel momento diventerà lo stato maggiore che dirigerà per tutti i giorni a seguire la risposta operaia e popolare: una sorta di agorà nella quale partecipazione spontanea e organizzazione troveranno una sintesi perfetta.

La prima, fondamentale decisione è quella di prolungare sino a tutto il giorno dopo lo sciopero, rientrare nelle fabbriche, occuparle e svolgervi assemblee aperte a cittadini, partiti democratici, studenti. Anche il movimento studentesco bresciano decide l’occupazione di tutti gli istituti medi superiori.

L’obiettivo è quello ti tenere assieme i lavoratori, impedire che prevalga lo scoraggiamento e, nel contempo, produrre un’analisi lucida della situazione e farlo nel corpo vivo del movimento.

Si organizzano centinaia di assemblee in tutte le grandi e medie fabbriche dove confluiscono i lavoratori delle piccole aziende. E’ un popolo intero che si mette in moto. Saranno due giorni di impressionante tensione emotiva nei quali migliaia di lavoratori e lavoratrici prendono parola. Se si sfogliano le centinaia di verbali redatti nel corso delle assemblee non si può non essere colpiti dalla istintiva percezione che con sicuro istinto politico corre da fabbrica a fabbrica, da persona a persona: l’attentato è contro di noi, contro ognuno di noi, contro quello che siamo e che stiamo facendo: ci sono i fascisti, certo, ma i mandanti stanno altrove, ci sono i padroni, ci sono i servizi, ci sono gli apparati dello Stato, c’è il potere costituito.

 

La democrazia di massa si organizza

 

Come accade in rare occasioni, dopo un primo, breve momento di smarrimento, si genera una situazione totalmente nuova, certamente imprevista ed opposta a quella immaginata dagli ideatori della strage: al senso di paura, all’orrore e allo sbigottimento subentra la mobilitazione. E’ la democrazia di massa che si organizza: la fabbrica, il luogo del conflitto sociale ne diventa l’epicentro. E’ lì che ciò che potrebbe disperdersi si riaggrega, istantaneamente. Attraverso la discussione si ricostruisce l’intelligenza dei fatti, si analizza, si decide, si elabora la ferita subita e si trasforma la rabbia in risposta politica, in stretto rapporto con un sindacato che entra in risonanza con questi sentimenti e guida il movimento, senza impossibili briglie, ma con mano sicura. Le richieste sono chiarissime: mettere fuori legge il Msi, epurare dagli apparati dello Stato quanti sono transitati in perfetta continuità dallo Stato fascista a quello repubblicano, rendere obbligatorio lo studio della Costituzione nelle scuole di ogni ordine e grado.

 

Dalla piazza alla fabbrica e viceversa: la città in mano agli operai

 

Poi, la seconda fase. Il processo che si determina è biunivoco e transitivo: dalla piazza insanguinata alla fabbrica e poi di nuovo alla piazza e quindi a tutta la città, governata, presidiata dai Consigli. Sono migliaia i delegati che presidiano ogni via d’accesso alla città, ogni piazza. Alla strage caratterizzata dal più alto tasso di politicità possibile si oppone ora una risposta altrettanto politica.

I due giornali quotidiani bresciani e non solo, colgono che si respira, nei giorni che vanno dall’eccidio ai funerali, un’atmosfera “rivoluzionaria”, quale era possibile cogliere solo nei giorni della Liberazione, dove vigilanza, disciplina, controllo del territorio sono rimessi nelle mani di migliaia di operai, di delegati con bracciale rosso al braccio che costruiscono un nuovo “ordito” democratico.

 

I funerali: giù le mani dai nostri morti!

 

I funerali sono stabiliti per il 31 maggio, a 4 giorni dall’attentato. Presidenza della Repubblica e Presidenza del consiglio vogliono i funerali di Stato e fanno pressione sui sindacati nazionali affinché se ne rispetti il cerimoniale che prevede solo interventi istituzionali. Luciano Lama chiama la Camera del lavoro di Brescia e propone di risolvere la questione prevedendo che in una data successiva alla cerimonia ufficiale se ne svolga una sindacale. La richiesta è seccamente respinta: i morti sono nostri, la bomba è contro di noi. Se insistono, noi non faremo i funerali di Stato. La condizione è che fra gli oratori ci sia proprio Luciano Lama: prendere o lasciare!

 

Quel giorno, il 31 di maggio, arriva a Brescia più di mezzo milione di persone. Le due piazze e le vie adiacenti a Piazza della Loggia sono gremite all’inverosimile. Striscioni dei consigli di fabbrica e bandiere rosse ovunque.

Tutta la gestione organizzativa e persino la sicurezza è nelle mani del sindacato. Né il presidente della Repubblica, né le autorità locali sono in grado di opporsi: le forze dell’ordine sono relegate nel cortile della prefettura e nelle caserme.

 

La contestazione alle autorità

 

La Brescia ufficiale, custode dei poteri istituzionali, ancora non capisce. Non capisce il decano di tutti i sindaci d’Italia, rimasto in carica per quasi 20 anni, dai giorni successivi alla Liberazione, che nel discorso pronunciato ai funerali dei caduti cercherà invano – subissato dai fischi – di derubricare la strage a fatto locale, gesto folle di isolati.

Non capisce il vescovo di Brescia, monsignor Morstabilini, che nella sua omelia non saprà andare oltre un’innocua invettiva contro lo “spirito di Caino”. Capisce ancor meno – ma come potrebbe! – il presidente della Repubblica Giovanni Leone, che resterà muto ed impietrito di fronte alla piazza che lo contestava dopo avere tentato, senza successo, di ottenere una revisione edulcorata dei discorsi ben altrimenti espliciti degli altri oratori.

Capisce perfettamente il presidente del

Consiglio, Mariano Rumor, che rinuncia a prendere parola.

 

Il corteo funebre che per tre chilometri e mezzo percorre le strade cittadine, dalla piazza al cimitero Vantiniano, si snoda fra folte ali di folla. Il selciato è totalmente coperto di fiori, si intravede appena l’asfalto sottostante.

 

Un nuovo “ordito” democratico, una nuova legalità costituzionale

 

Ormai si era aperta una cesura, una vera e propria frattura: alla delegittimazione di poteri istituzionali privi di credibilità corrisponde l’affermazione di un movimento di massa che rivendica e soprattutto pratica una nuova legalità costituzionale, forse per la prima volta così esplicito, dai giorni della sconfitta del fascismo. Per questo quel sedimento, estesamente penetrato nella coscienza collettiva, è durato. Per questo il ’74 diventa, a Brescia, il mito propulsore di una nuova fase dei rapporti sociali, di un rilancio delle istanze di rinnovamento sociale e politico radicale che ispirarono le lotte del ’68 e del ’69. Per questo si verificherà negli anni successivi – come ricordò Claudio Sabattini – un doppio movimento che imporrà un mutamento dei rapporti di forza tanto in fabbrica quanto nel rapporto fra cittadini e istituzioni. Non a caso prende corpo, in quegli anni, la breve ma intensa esperienza dei Consigli di zona, vale a dire il più ambizioso tentativo operaio di proiettare all’esterno della fabbrica, nel territorio, nella società civile quella carica egualitaria di rinnovamento e di partecipazione che aveva innervato le lotte di fabbrica e che aveva attratto a sé forze intellettuali e strati sociali fino a poco tempo prima refrattari o diversamente dislocati. Per questo, infine, in quella temperie poté forgiarsi e perdurare una leva di quadri di estrazione operaia che segnerà a lungo la storia eccentrica quanto feconda del sindacalismo bresciano.

 

Sappiamo chi è STATO

 

Come sappiamo, tutto questo non è stato sufficiente a Brescia – come prima a Milano e poi a Bologna – a individuare e sanzionare giuridicamente i mandanti dello stragismo nero, i protagonisti della strategia della tensione. C’è però una verità politica e storica che nessuna acrobazia, nessun depistaggio, tuttora coperti da interessate omertà, può cancellare.

Il giudizio politico e la stessa ricostruzione degli eventi, della trama che li preparò, sono stati già ampiamente conseguiti, sin da quando, il 1° giugno del ’74, in piazza della loggia comparve per la prima volta lo striscione che portava scritto “Sappiamo chi è STATO”.

 

Le inchieste, i processi, fra omissioni e depistaggi

 

La catene processuale durò oltre 40 anni. E da subito si mise in moto la catena di depistaggi, di manomissione delle prove.

Siamo nell’epoca delle “larghe intese”, della “solidarietà nazionale”, che a Brescia ha radici profonde. E c’è un teorema politico che guida l’indagine giudiziaria: bisogna circoscrivere il campo delle responsabilità, da limitare ai fascisti locali, del tutto privi di legami esterni.

Così recintata, la prima inchiesta dei sostituti pm Vino e Trovato porterà, nel luglio del ’79, alla condanna all’ergastolo del mitomane Ermanno Buzzi e Angelino Papa, personaggi in bilico fra criminalità comune e neo-fascismo. Tutti gli altri imputati, anch’essi appartenenti alle organizzazioni del fascismo bresciano, verranno assolti per insufficienza di prove o con formula piena. Penseranno Mario Tuti e Pierluigi Concutelli, uomini di Avanguardia nazionale, a “giustiziare” Ermanno Buzzi tappandogli la bocca per sempre nel carcere di Verona.

Sarà la corte d’assise d’appello, nel marzo dell’82, a dimostrare la totale infondatezza della precedente sentenza e ad assolvere tutti: giudizio confermato

La Cassazione che annulla la sentenza e dispone che si rifaccia il processo: nuovi imputati (compaiono fra questi anche il comandante dei carabinieri Delfino e Pino Rauti), ma identico esito. Tutti assolti.

La Cassazione annulla anche questa sentenza e si torna a chiedere che si ricominci da capo. Ma anche tutte le successive sentenze, nei vari livelli di giudizio (’89, ’93, 2010, 2012) portano allo stesso punto morto.

La Cassazione stabilisce che un nuovo processo dovrà accertare le responsabilità di due degli imputati che nei processi di primo e secondo grado erano stati assolti: Maurizio Tramonte, un uomo vicino ai servizi, che tanto ha parlato negli anni di eversione e bombe, e Carlo Maria Maggi, ottantenne medico veneziano, all'epoca a capo di Ordine Nuovo nel Veneto. Nel 2015, quarantun’anni dopo la strage, si conclude l’iter processuale con la condanna all’ergastolo di Maggi e Tramonte.

 

Buio sui mandanti: la durissima requisitoria del giudice Zorzi

 

Buio totale sui mandanti, sui depistaggi e sulle complicità istituzionali. Sarà il giudice istruttore Zorzi a denunciare l'esistenza di un meccanismo "che fa letteralmente venire i brividi, soprattutto di rabbia, in quanto è la riprova, se mai ve ne fosse bisogno, dell'esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo".

Nelle motivazioni della sentenza si possono leggere queste drammatiche parole, sufficienti a spiegare quali forze si sono mosse per nascondere la verità sotto una colata di cemento: “Lo studio dello sterminato numero di atti che compongono il fascicolo dibattimentale porta ad affermare che anche questo processo, come altri in materia di stragi, è emblematico dell'opera sotterranea portata avanti con pervicacia da quel coacervo di forze individuabili con certezza in una parte non irrilevante degli apparati di sicurezza dello Stato, nelle centrali occulte di potere che hanno prima incoraggiato e supportato lo sviluppo dei progetti eversivi della destra estrema e hanno sviato, poi, l'intervento della magistratura, di fatto rendendo impossibile la ricostruzione dell'intera rete di responsabilità. Il risultato è stato devastante per la dignità stessa dello Stato e della sua irrinunciabile funzione di tutela delle istituzioni democratiche, visto che sono solo un leader ultraottantenne e un non più giovane informatore dei servizi, a sedere oggi, a distanza di 41 anni dalla strage sul banco degli imputati, mentre altri, parimente responsabili, hanno da tempo lasciato questo mondo o anche solo questo Paese, ponendo una pietra tombale sui troppi intrecci che hanno connotato la mala-vita, anche istituzionale, dell'epoca delle bombe”.

 

In tutte le stragi di cui oggi abbiamo parlato si è vista l’alacre attività di depistaggio degli apparati dello Stato.

A Brescia si parlò di “pista libica”, poi si sostenne che la bomba fosse rivolta non già contro i manifestanti, ma contro le forze di polizia che di solito stazionavano nel luogo dove esplose l’ordigno; infine si cercò incredibilmente di attribuire l’attentato ad Euplo Natali, il pensionato ed ex partigiano perito nell’esplosione! Altrettanto, come è noto, accadde per la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Milano, quando la “pista anarchica” che portò all’incriminazione di Pietro Valpreda e all’assassinio di Giuseppe Pinelli negli uffici della questura milanese fu ampiamente sostenuta dalle autorità istituzionali e da una potente campagna mediatica. E a Bologna, dove ancora oggi si tenta di attribuire l’attentato alla stazione ferroviaria ad una trama palestinese!

 

La strage di Brescia: una fase (e una modalità) della lotta di classe in Italia

 

Le stragi nere – e in modo esemplare quella di Brescia – sono state una fase (e una modalità) della lotta di classe in Italia. Una fase nella quale le classi dominanti e parte cospicua del loro personale politico hanno usato il fascismo e il terrore per impedire una profonda trasformazione dei rapporti sociali in italia.

 

I conti mancati con il fascismo e il “sovversivismo” delle classi dominanti

 

C’è un’ultima riflessione da fare, una riflessione da riprendere in altra sede, ma del tutto congrua ai fatti che oggi abbiamo esaminato: nel nostro Paese i conti con il fascismo non sono mai stati fatti e la stessa promulgazione della Costituzione, sortita dalla lotta di Liberazione, è stata vissuta come una parentesi dalle classi dominanti, il cui latente sovversivismo è pronto a riemergere ogniqualvolta la situazione lo richieda.

 

Vale infine la pena di chiedersi, a quasi mezzo secolo di distanza dalla strage di Brescia, se questa consapevolezza, che fu così forte in quel tempo, sia ancora tale, oppure, come a me pare, se l’oblio non sia ampiamente calato su quel tratto di storia, divenuta tristemente estranea alle nuove generazioni e in parte rimossa dalla memoria di quelle più anziane. Il danno è grave e chiama in causa molte recidivanti, colpevoli amnesie, troppe indulgenze e troppe indolenze, il cui effetto più nefasto è quello di avere consentito che rientrassero in circolo tossine, veleni di cui pensavamo di esserci liberati per sempre.

domenica 13 settembre 2020

Editoriale del 2°numero di SU LA TESTA, argomenti per la rifondazione comunista "Lavoro. Quale, quanto, di chi, per chi e per che cosa"



“Il capitalismo sta morendo”, recitava l’ottimistico refrain di una scolastica marxista conquistata alla credenza di un prossimo, necessario tramonto del sistema imperniato su rapporti capitalistici di produzione. La stupefacente capacità del vecchio mondo di risorgere dopo ogni crisi si è incaricata di dimostrare l’infondatezza di meccanicistiche profezie “crolliste” e il capitalismo, nella sua vocazione polimorfa, ha saputo di volta in volta mettere in atto misure antagonistiche che lo hanno reso capace di sopravvivere alle crisi più acute da cui è stato attraversato. Del resto, mai Marx aveva autorizzato l’illusione di un epilogo evoluzionistico verso il socialismo dei rapporti sociali, avendo non a caso dedicato l’intera sua vita all’organizzazione del partito comunista. E da Rosa Luxemburg ad Antonio Gramsci fu subito chiaro che il capitalismo non se ne sarebbe andato da solo.

Colonialismo, imperialismo, inaudita concentrazione del potere, globalizzazione, iperfinanziarizzazione dell’economia, misure non convenzionali di politica monetaria, innovazione tecnologica, organizzazione del lavoro, sino al ricorso allo sfruttamento umano spinto a limiti estremi e, non ultima ratio, il ricorso alla guerra, sono lì a dimostrare che la piovra ha saputo trovare e trova in se stessa mille risorse ed artifizi per riprodursi.

 

La crisi sistemica del capitale

Cionondimeno, il sistema retto sul rapporto di capitale è entrato in una crisi sistemica, andando progressivamente a sbattere contro quello che Marx definì un suo limite “interno”, un limite che rende via via decrescente la remunerazione del capitale in rapporto all’investimento fisso. Comunque la si pensi a questo riguardo, è un fatto difficilmente contestabile che la crescita rallenta da decenni in tutto l’Occidente sviluppato e che lo stesso vale per il saggio di profitto, ovunque in tendenziale diminuzione.

La reazione a questo processo erosivo dell’equilibrio del sistema ha reso la borghesia capitalistica - i “proprietari universali”, per usare l’efficace espressione di Luciano Gallino - ferocemente aggressiva e determinata ad archiviare definitivamente la fase “prometeica” del capitalismo, la sua promessa di felicità universale contenuta nella dottrina Truman degli anni Cinquanta del secolo scorso, per concludere che in questo mondo “non ce n’è per tutti” e che interi continenti e vaste porzioni della stessa popolazione dei paesi sviluppati devono essere irrimediabilmente abbandonati alla deriva. In questo nuovo scenario, anche la democrazia si è trasformata in un fardello ingombrante ed è diventato necessario imprimere una torsione autoritaria alla stessa architettura delle forme istituzionali e della governance politica.

Come dirà David Rockefeller, fondatore della Trilateral Commition, nell’Indirizzo al vertice della Commissione del giugno ’91,“la sovranità sovranazionale di un’élite intellettuale e di banchieri mondiali è sicuramente preferibile alle autodeterminazioni nazionali dei secoli scorsi”. E in modo ancor più diretto ed eloquente si esprimerà nel maggio del 2013 il board della banca J.P. Morgan, sentenziando che “il sistema politico dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione, perché lì è forte l’influenza delle idee socialiste”.

Il messaggio è stato ed è chiarissimo: in quei paesi vi è un sovraccarico di democrazia, per cui è necessario spostare il potere dai parlamenti agli esecutivi e fra gli ostacoli da rimuovere stanno, in primo luogo, la tutela dei diritti dei lavoratori, le loro organizzazioni e il welfare.

La decisione delle classi dominanti di sferrare un’offensiva a tutto campo contro l’insieme del mondo del lavoro eterodiretto, la rinnovata corsa agli armamenti e l’opzione militare completano un disegno teso a rimodellare l’organizzazione sociale e politica al fine di mantenere saldo il dominio di classe sull’intero pianeta. In sostanza, lo sfruttamento integrale di esseri umani e natura è nel tempo presente il paradigma totalizzante riproposto dal dominio capitalistico.

 

Delirio antropocentrico

Con la formazione economico-sociale capitalistica la contraddizione fra uomo e natura è degenerata nella forma di una vera e propria inconciliabilità.

Il delirio antropocentrico si è risolto nell’idea che l’uomo non è un “ente naturale”, ma si colloca al di sopra della natura e delle sue leggi.

L’uomo, attraverso il lavoro, “crea” la natura e si rende artefice, demiurgo, di una manipolazione che rompe l’equilibrio dentro il quale ha potuto evolversi la specie umana, sino a mettere in forse l’esistenza delle generazioni future.

L’intrinseca follia della teoria e della pratica sviluppista consiste nell’idea malsana che la produzione di merci, il consumo in crescita esponenziale di materia e di territorio possano procedere linearmente, lungo un continuum senza fine[1].

A questo punto si impone la domanda: perché accade ciò? Come mai hanno ancora libero corso teorie negazioniste che sembrano ignorare quello che è persino constatabile empiricamente da ognuno di noi?

La ragione è semplice: il capitale, che regola in modo ormai uniforme i rapporti sociali dell’intero pianeta, è totalmente autocentrato. Esso non ammette né regole né limiti, né vincoli, né condizionamenti che siano esterni al suo codice genetico. La sua missione è quella di creare profitto, di estrarre plus-valore dal lavoro e di soggiogare la natura. Nell’uno e nell’altro caso la sua onnivora voracità non conosce inibizioni morali: il capitale, per definizione, è cieco.

Osserva Marco Bersani che “come da sempre ci ricorda il pensiero femminista, la pandemia ha dimostrato come nessuna attività economica sia possibile senza garantire la riproduzione sociale. E se quest'ultima significa cura di sé stessi, degli altri e dell'ambiente, è esattamente intorno a questi nodi che va ripensato l'intero modello economico-sociale; non solo come riconoscimento tardivo del lavoro di cura, bensì come risignificazione del concetto stesso di attività economica e di lavoro; detto schematicamente, o il lavoro è cura di sé, degli altri e dell'ambiente, o non è”[2].

Appare vieppiù evidente come il lavoro, fondato sullo scambio ineguale fra individui soltanto formalmente liberi, stia nel rapporto di capitale alla base dello sfruttamento, dell’autosfruttamento e delle diseguaglianze, tanto nella produzione quanto nella riproduzione sociale.

Anche nella più spinta modernizzazione capitalistica la compravendita della forza lavoro viene regolata come scambio fra “cose”, e non fra esseri umani: il lavoro umano è una merce come le altre (sebbene comprata a prezzo politico) e il mercato del lavoro funziona al pari del mercato delle patate.

 

Dai “30 gloriosi” alla sconfitta del movimento operaio

In Italia, dalla fine degli anni Sessanta e per almeno un decennio, la presenza di una classe operaia capace di conquistare elevati livelli di soggettivazione politica aveva cambiato i rapporti di forza fra le classi e l’insieme dei rapporti sociali, esercitando un’influenza egemonica su tutte le manifestazioni politiche e culturali del paese.

Come la Costituzione italiana è stata il risultato della rivoluzione democratica e antifascista, di un movimento di popolo che aveva nel

suo imprinting un forte contenuto di classe, così lo Statuto dei lavoratori è stato il prodotto dell’entrata in scena di uno straordinario movimento operaio che ha conquistato sul campo inediti diritti individuali e collettivi, spianando la strada alla produzione di norme legislative che hanno in parte recepito e codificato quei risultati.

Esattamente al rovescio, nel lungo riflusso di questi decenni, nel ristagno della lotta di classe, quelle conquiste sono state progressivamente erose o cancellate.

Il secondo comma dell’art.41 della Carta (“La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”) è stato nella nostra costituzione materiale rovesciato nel suo opposto. Il lavoro è al servizio della riproduzione del capitale che decide se e cosa produrre in ragione esclusiva dell’attesa di remunerazione dell’investimento effettuato. L’interesse sociale, da “prius” politico e sociale, è retrocesso a variabile dipendente del profitto. Prevale la messa a mercato di tutto ciò che può assumere il carattere di merce. La sola domanda interessante è per l’impresa capitalistica la domanda solvibile, pagante.

 

Dal diritto del lavoro al “libero mercato delle braccia”

Le condizioni di lavoro sono ovunque peggiorate: dal salario alla sistematica distruzione del welfare, dal carattere sempre meno progressivo dell’imposta sul reddito allo smantellamento dei pilastri del giuslavorismo.

Il caleidoscopio del mercato del lavoro contemporaneo, ridotto a libero mercato delle braccia, unisce vecchie a nuove forme dello sfruttamento capitalistico (dalla legge 30 al Jobs act fino alle più sordide forme di lavoro schiavile). La precarizzazione lavorativa ed esistenziale è divenuta il modello canonico dei rapporti di lavoro nella modernità. False partite Iva, lavoro intermittente, lavoro a distanza, smart working, lavoro agile: in un sistema di relazioni industriali profondamente imbarbarito, si assiste alla sovrapposizione pressoché integrale del tempo di lavoro al tempo di vita, senza né limiti né confini e senza che sia possibile una seria regolamentazione contrattuale.

Con gli stivali delle sette leghe si procede verso l’individualizzazione del rapporto di lavoro che rende plausibile l’inverarsi del sogno di ogni capitalista: “libero padrone in libera impresa”.

Migliaia di giovani, reclutati per l’esposizione Expo 2015, hanno poi direttamente scoperto come nella nuova vulgata il lavoro possa non valere più niente e si sia costretti ad elargirlo anche a titolo gratuito, in cambio di un umoristico curriculum[3].

 

Dal capitalismo industriale finanziario al capitalismo digitale: nuove forme di dominio

Il passaggio d’epoca che riorganizza le forme dello sfruttamento è il passaggio dal capitalismo industriale finanziario a quello che è ormai universalmente chiamato capitalismo digitale. Un passaggio, vale la pena sottolinearlo, del tutto interno al modo di produzione e di consumo capitalistico. La nuova gerarchia industriale vede in plancia di comando colossi come Google, Amazon, Facebook che solo quindici anni fa non esistevano e che con poche migliaia di dipendenti capeggiano la classifica mondiale del fatturato e incassano profitti stellari.

I rapporti con i lavoratori sono regolati a distanza da dispositivi digitali legati al loro corpo. Non vi è più una gerarchia prossimale. Sarà un algoritmo a definire ritmi e tempi di lavoro, a scegliere chi è meritevole di restare al lavoro e chi dovrà andarsene: una sentenza inoppugnabile. Il meccanismo è asettico, impersonale, “pulito”.

Occorre prendere coscienza che questa modalità di governo e di dominio si estende dal lavoro tradizionale al livello mondo, perché ogniqualvolta noi utilizziamo lo smartphone produciamo una massa sterminata di informazioni di cui si impossessano gratuitamente le imprese proprietarie dei brevetti e degli strumenti che utilizziamo. Queste informazioni vengono preziosamente custodite e vagliate e serviranno per orientare produzione e consumo: miliardi di persone, quotidianamente, stanno inconsapevolmente producendo plusvalore per le aziende capitalistiche[4].

Ma c’è un’altra implicazione. Consegnando le nostre informazioni non stiamo solo producendo ricchezza per altri ma – sebbene non ve ne sia contezza nei più – stiamo consentendo un controllo su noi stessi.

Come scrive Paolo Ciofi, “oltre ad offrire pubblicità per gli inserzionisti, nei livelli più alti e sofisticati le maggiori piattaforme usano gli algoritmi e tutti i trucchi che il software consente per metterci sotto controllo, ed estrarre dal nostro corpo e dalla nostra mente tutto ciò che serve per pianificare la loro attività di manipolatori e venditori di servizi: il corpo umano come un pozzo di petrolio dal quale estrarre materia prima per il business (…). Il consumatore non sa di essere un lavoratore, mentre il lavoratore diventa un consumatore che non sa di lavorare”[5].

Difficile dire meglio.

 

Il salto tecnologico: opportunità o maledizione?

Torna la ricorrente domanda che si pone di fronte ad ogni salto tecnologico: l’applicazione delle scoperte scientifiche alla produzione è una opportunità o una maledizione? Progresso o nuova radicale sudditanza?

I lavoratori di ogni luogo e di ogni tempo hanno sperimentato come l’innovazione tecnologica porti con sé disoccupazione, in ragione dell’aumento della produttività del lavoro. E come l’obiettivo della piena occupazione, trasformato in diritto universale dall’articolo 4 della Costituzione, metta in luce un contrasto irriducibile fra capitale e lavoro. Per il capitale un tasso stabile di disoccupazione, l’avere a disposizione un esercito di riserva, è funzionale a tenere bassi i salari. Per i lavoratori è vero l’esatto opposto. Di qui l’opzione strategica di un grande piano per il lavoro imperniato sulla progettazione di una radicale riconversione ecologica dell’economia. Una riconversione che abbia per motore la “mano pubblica”: infrastrutturazione primaria (fuori dalla mitologia speculativa delle ‘grandi opere’), bonifica dell’assetto idrogeologico, messa in sicurezza delle aree a rischio sismico, progressivo abbandono delle fonti energetiche di origine fossile e massiccio investimento nelle fonti energetiche rinnovabili.

Ma vi è una risposta ed una sola che possa venire razionalmente a capo di quella che sotto la giurisdizione del capitale si risolve in una contraddizione insanabile ed è la riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione.

Già Keynes, nell’intento di salvare il capitalismo, aveva intuito che quella fosse la strada obbligata da percorrere. Con un intento ben altrimenti radicale, gli autori del Manifesto dei comunisti avevano indicato questo fondamentale obiettivo nel loro indirizzo ai proletari di tutto il mondo.

Karl Marx, in particolare, ha dedicato a questo argomento pagine memorabili, nelle quali il tema è affrontato sotto un’angolatura speciale: quella della liberazione dal lavoro vincolato, socialmente necessario, dell’affrancamento dall’alienazione, per riconquistare le proprie energie fisiche e mentali ed approdare ad una forma superiore di lavoro, di libera attività creativa: la produzione fine a se stessa, la capacità di creare “secondo le leggi della bellezza”, propria di liberi esseri umani[6].

Lo sviluppo tecnologico consentirebbe oggi ai produttori associati, riuniti in libere e democratiche istituzioni, di risolvere tutti i problemi che si presentano all’umanità, di riappropriarsi del tempo oggi sequestrato dal padrone e di affrancarsi da forze estranee per ritornare protagonisti del proprio destino.

 E’ parallelamente aperto un dibattito, piuttosto acceso, sulla necessità di prevedere forme di reddito garantito, scollegato dal lavoro (reddito di base, di cittadinanza, di inclusione, di dignità, di garanzia e continuità, di autodeterminazione, di reinserimento, di autonomia, ecc.). Si tratta di proposte elaborate da diversi soggetti collettivi, o da intellettuali, taluni dei quali di solida formazione comunista. Si tratta di proposte fra loro molto diverse per costrutto teorico, ampiezza di visione e portata strategica.

Ma, come osserva Giovanna Vertova, ciò che in qualche modo accomuna queste proposte è che non vanno ad intaccare le cause della disuguaglianza di reddito e ricchezza, della precarietà del lavoro, della povertà e delle condizioni di vita insostenibili”. Più precisamente: Il RdB Può rendere più sopportabile precarietà e disoccupazione nel breve periodo, ma non le elimina. Semmai le cristallizza e le congela, soprattutto quando pensate isolatamente, come la panacea di tutti i mali, al di fuori di un pacchetto di proposte più onnicomprensivo, teso ad intaccare non solo gli effetti ma anche le cause di precarietà e disoccupazione. Presentato singolarmente, sganciato da altre rivendicazioni, il Rdb si trasforma in un riformismo dal volto umano: si accetta il capitalismo così come è, generatore di disoccupazione, precarietà, condizioni materiali di vita insostenibili, cercando di lenirne gli effetti. Ecco perché questo tipo di proposta può trovare sostenitori appartenenti a diversi schieramenti politici”[7].

 

Epilogo (provvisorio) di una sconfitta storica

Come è noto, al crollo dell’Unione Sovietica, contrariamente alle profezie dispensate dal riformismo europeo, è corrisposta la crisi irreversibile delle socialdemocrazie, definitivamente rinculate, l’una dopo l’altra, dentro il dogma liberista, lungo un’inarrestabile fuga nell’opposto. La società di mercato è divenuta l’orizzonte entro cui obbligatoriamente muoversi. Ci si persuase che oltre quelle Colonne d’Ercole c’era solo l’ignoto.

La vittoriosa offensiva ideologica thatcheriana degli anni Ottanta del secolo scorso (“la società non esiste, esistono soltanto gli individui”) è stata la più netta rivendicazione del tramonto della lotta di classe, l’affermazione apodittica del primato assoluto del mercato, dell’individualismo proprietario, dell’idea che non esiste riscatto collettivo, ma si progredisce esclusivamente in forza delle proprie individuali capacità, anche mettendo spietatamente i piedi gli uni sulla testa degli altri: un mix di calvinismo sociale (per cui ricchezza e povertà sono, rispettivamente, meriti o colpa di ciascuno) e di hobbesismo (“ogni uomo è lupo per l’altro uomo”). Il trionfo di questa ideologia, conseguito – è utile ricordarlo - attraverso la liquidazione sul campo del più combattivo sindacato britannico, ha forgiato un nuovo paradigma, fondativo di un salto d’epoca, di un nuovo modo di pensare che ha plasmato le relazioni sociali e le formazioni politiche in tutto il continente, condizionando potentemente l’involuzione culturale di quella che fu la sinistra di classe. Fu proprio la “Lady di ferro” che alla domanda di un giornalista che le chiese quale fosse stata la sua più importante vittoria rispose “la trasformazione culturale del Labour”.

Si possono cogliere sino in fondo i tratti (e gli effetti) di questa metamorfosi nella genesi e nell’architettura della costruzione europea, consacrata al liberismo e al libero-mercatismo con la benedizione delle forze di ispirazione socialista.

 

La questione sindacale

Questa debacle politica e culturale ha investito come un ciclone anche le organizzazioni sindacali. In tutto il continente, ma con una particolare accentuazione in Italia, il conflitto è stato derubricato da fisiologico confronto fra interessi contrapposti a patologia delle relazioni sociali. Il dogma della flessibilità, spacciato per naturale evoluzione dell’impresa moderna, ha via via corroso l’intera impalcatura dei diritti; la contrattazione si è trasformata in una negoziazione “a perdere”; la scelta della moderazione salariale, nell’illusione che questa favorisse gli investimenti e l’occupazione, si è impadronita, con poche significative eccezioni, dei gruppi dirigenti sindacali. Mentre si rottamavano le scuole di formazione sindacale, considerate retaggi di un sindacato intriso di ideologia, venivano forgiate schiere di sindacalisti educati alla pseudo-scienza di una contrattazione che legava gli emolumenti salariali a indici di bilancio imperscrutabili. L’autonomia della rivendicazione salariale spariva e veniva soppiantata da formule astruse in cui la retribuzione diventava una variabile dipendente, ora dell’inflazione, ora del margine operativo lordo dell’impresa e da mille diavolerie che la rendevano incerta e variabile. Ci fu contrasto, alla base, una resistenza difensiva che qui e là ancora riaffiora, ma i fortilizi di resistenza furono progressivamente espugnati.

Il decentramento della produzione, la disarticolazione artificiosa del ciclo produttivo in cento segmenti rigorosamente controllati dal padrone, sebbene formalmente autonomi, hanno minato alla radice l’unità di classe, hanno ridotto la consistenza e la forza della classe operaia “centrale”, hanno desindacalizzato una grande fetta del lavoro industriale e dei servizi.

La contrattazione collettiva nazionale è ormai congelata da tempo o ridotta a un simulacro, mentre quella aziendale, anche nel settore manifatturiero dove vantava la sua più antica e consolidata tradizione, si è strada facendo trasformata in un aziendalismo intrinsecamente segnato dalla subalternità. La proliferazione degli enti bilaterali e le forme esplicite o surrettizie di finanziamento del sindacato ad esso connesse ne hanno compromesso l’autonomia e l’indipendenza.

Il peso dei servizi a prestazione individuale (uffici vertenze, patronati, assistenza fiscale) ha assunto un rilievo sempre più rilevante rispetto alla contrattazione collettiva e sta mutando radicalmente il rapporto stesso fra il sindacato e gli iscritti. Si attenua sino a smarrirsi del tutto il significato del sindacato come strumento di riscatto collettivo: il riferimento non è più la classe, ma le persone che avendo un lavoro cercano nel sindacato, ciascuna per sé, una qualche forma di assistenza e di protezione individuale. Così, la più elementare coscienza di classe si stempera sino ad evaporare.

 

Riunificare tutto il lavoro eterodiretto

Ora, è evidente che una svolta non può che passare attraverso la ricostruzione del sindacato, per rimettere in piedi e rifondare un

modello contrattuale inclusivo, capace di riunificare i segmenti in cui tutto il mondo del lavoro eterodiretto è stato scomposto, disaggregato, per ricostruire quella trama solidale la cui disintegrazione sta alla base della guerra tra poveri su cui i padroni hanno in questi anni costruito la propria fortuna economica e politica.

Per farlo efficacemente, l’ultima cosa che serve è avventurarsi in bizzarre fumisterie.

Si può leggere nel documento che la Cgil ha portato alla discussione del suo 18°congresso che “nel nuovo modello di relazioni industriali innovative, in funzione delle nuove caratteristiche della prestazione del lavoro digitale, la nuova frontiera è contrattare l’algoritmo”.

Inutilmente cerchereste nel testo un approfondimento circa le caratteristiche di questo “innovativo” modello negoziale. Mentre non è difficile immaginare la reazione umoristica che questa formula ha generato fra gli operai, i quali forse preferirebbero un sindacato che tornasse ad occuparsi di salario, di orario e condizioni di lavoro, considerato che il salario continua a diminuire, l’orario ad aumentare e le condizioni di lavoro a peggiorare. Ma per farlo – ecco il punto – non bisogna disporsi a “contrattare l’algoritmo” quanto, piuttosto, a liberarsene. L’homo sapiens, dopo tutto, può e sa fare di meglio che lasciarsi guidare da un algoritmo. Ciò che comporta il recupero di una smarrita propensione al conflitto, alla vituperata lotta di classe, troppo

spesso trattata come un’ubbìa passatista, di fronte alle velleità concertative di questo trentennio.

 

La rivoluzione non è un destino scritto nel Dna del proletariato

Abbiamo da gran tempo imparato che la rivoluzione comunista non è un destino scritto nel codice genetico del proletariato al quale

spetterebbe solo di scoprire ciò che è occultato dall’ideologia delle classi dominanti. Alimentare questo equivoco consolatorio, per giunta nelle modeste condizioni in cui siamo, servirebbe solo a produrre un involontario quanto poco raccomandabile effetto comico.

E’ invece indispensabile riprendere con umiltà il trascuratissimo lavoro di inchiesta e di analisi della composizione di classe nel tempo

presente, delle condizioni oggettive e soggettive di ogni segmento del lavoro subordinato o eterodiretto. Quasi nessun sindacato sente più il bisogno di apprendere direttamente dai lavoratori, dalla materialità della loro condizione. Il sapere è già presupposto, si forma e si deforma nei labirinti autistici delle relazioni industriali, anch’esse sempre più asfittiche e inconcludenti.

 

Tornare all’inchiesta

Tornare all’inchiesta significa indagare innanzitutto le differenze, cioè le specifiche modalità attraverso le quali si materializza il rapporto di capitale nel tempo presente, come esso cambia la concreta condizione di lavoro e forma le idee, la coscienza di sé, le aspettative

di quanti entrano nel processo di produzione e riproduzione.

Fra i pochissimi che stanno investendo nel lavoro di inchiesta e di analisi per sostenere, connettere e organizzare le lotte che a macchia di leopardo sono in atto in Italia, c’è il collettivo Clash City Workers[8].

La composizione tecnica di classe è allora il primo punto da cui partire: comprendere come ogni segmento si colloca nella complessità dell’organizzazione della produzione sociale, come ogni tessera del mosaico contribuisce alla generazione della catena del valore. Non per ridurre tutto, meccanicamente, ad omogeneità ma, esattamente al contrario, per cogliere gli aspetti differenziali, quelli attraverso i quali il capitale divide e contrappone il lavoro subordinato, quello formale e quello informale, quello materiale e quello intellettuale, quello cognitivo in ogni sua sfaccettatura e quello in cui la fatica fisica è ancora l’elemento prevalente.

Insomma, l’omogeneità della classe, oltre la dimensione seriale, non è un dato di partenza, prodotto necessario di una sorta di “ontologia” proletaria, ma l’obiettivo per cui lottare.

L’indagine deve anche saper decifrare la struttura soggettiva dei bisogni, senza la quale il concetto di composizione tecnica rimane ancorato ad una descrizione sociologica.

Solo dentro questo complesso processo è possibile tentare di conquistare una ricomposizione politica di classe e definire nel concreto (non astrattamente, non “in vitro”) una politica capace di riaggregare ciò che l’organizzazione capitalistica del lavoro ha diviso, trasformando il mondo del lavoro in un caleidoscopio, fratturandone la coesione solidale, separandone gli interessi, ponendoli in reciproca concorrenza.

Con questo schema teorico e nella temperie del conflitto si può individuare il piano comune, concreto e insieme politico e simbolico su cui far leva per ridare vita ad un punto di vista di classe oggi profondamente indebolito.

 

Hic et nunc

Ci sono due punti chiave su cui re-incardinare l’iniziativa politica e sindacale.

1.   Riproporre l’urgenza assoluta della questione salariale e organizzare la lotta per mettere fine ai salari da fame, ponendo l’obiettivo che nessun lavoro (da quello dei raccoglitori di agrumi nelle campagne meridionali a quello dei riders) possa valere meno di 10 euro l’ora. Dieci euro come minimo tabellare, fissato dalla legge, a cui aggiungere i ratei di tredicesima, ferie e trattamento per malattia, infortunio e maternità. Questa semplice e lineare indicazione, immediatamente comprensibile da parte di tutti i proletari e da tutte le proletarie di questo paese, coerente con quanto stabilito dall’articolo 36 della Costituzione, costringerebbe le stesse organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a rivedere la scala parametrale dei contratti di non poche categorie dove coloro che sono inquadrati al livello più basso dell’inquadramento percepiscono molto meno di quell’importo minimo capace di assicurare qualcosa che assomigli a “un’esistenza libera e dignitosa”.

2.   Riesumare il tema sciaguratamente rimosso della riduzione dell’orario di lavoro, che ha rappresentato un caposaldo della migliore storia sindacale passata: dal lavoro che si protraeva “da sole a sole” (per usare un’espressione di Giuseppe Di Vittorio) alle 48 e poi alle 40 ore settimanali, per arrivare alle 36 in vigore nel settore pubblico. Il traguardo delle 32 ore, come nuovo orario legale, senza perdita della retribuzione, costituisce un passaggio obbligato, a maggior ragione di fronte all’impatto delle nuove tecnologie digitali che abbandonate nelle mani dei padroni determinerebbero fatalmente un’ondata crescente di disoccupati.

 

Riabilitare e praticare il conflitto

Risalire il piano inclinato comporta la fatica di un’immersione nelle lotte e nelle rivolte, ancora difensive, sussultorie ed episodiche, che attraversano il paese, tentandone l’unificazione e la produzione di senso; e – contemporaneamente –l’ingaggio per una ridefinizione teorica capace di alimentare una nuova narrazione anticapitalistica di senso comune. Ci sono molte buone ragioni che rendono impervio questo percorso. Ma non vi sono scorciatoie. E l’illusione di avventure politiciste che restituiscano respiro al di fuori della riorganizzazione del conflitto ha già dimostrato tutta la propria inconsistenza.



[1] Un film di fantascienza di grande successo di alcuni anni fa, “Matrix”, dei fratelli Wachowski, propone una grande metafora del mondo di oggi, come vive nel racconto di uno dei suoi protagonisti che così sentenzia: “Io disprezzo voi umani perché non siete dei veri mammiferi… I mammiferi instaurano un equilibrio fra sé e il mondo circostante. Voi no. Voi colonizzate un territorio, lo depredate, poi passate ad un altro. E così via. C’è un solo organismo vivente che si comporta come voi: il virus”.

 

[2] Marco Bersani, Fuori dal virus del del capitalismo, per una società della cura, Su la testa, 1° luglio 2020

 

[3] Scrive Marta Fana: “Il precariato è la risposta feroce contro la classe lavoratrice, il tentativo più riuscito di distruzione di una comunità che aveva in sé un connotato, quello di classe, che si caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli interessi di chi ogni mattina si sveglia e coltiva il culto dell’insaziabilità, dell’avidità che si fa potere. Il potere di sfruttare, di dileggiare tutti quelli che contribuiscono a creare le fortune dei pochi che se le accaparrano (…). Loro hanno vinto nel momento in cui sono rimasti uniti perseverando nel disaggregare i lavoratori in quanto corpo sociale. Per farlo hanno avuto bisogno di molta creatività, di imporre, con una buona dose di maquillage, un nuovo volto al lavoro: eliminando dall’immaginario i bassifondi, gli operai; escludendo dal racconto quotidiano la fatica dello sfruttamento; mascherando l’impoverimento dietro l’obbligo di un dress code”.

(Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Temi nuovi, Prologo)

[4] Osserva Renato Curcio che “solo gli schiavi, nella storia, producevano plusvalore assoluto. Il padrone dava loro solo ciò che serviva per rimanere in vita. Ora stiamo attraversando una fase storica in cui il capitalismo digitale recupera il rapporto di schiavitù e lo ripropone – mutatis mutandis – sotto forma di un lavoro volontario, disseminato e persino suadente. Il capitale riesce cioè in un miracolo egemonico, in senso gramsciano: riproduce il rapporto capitalistico di produzione non solo attraverso la coercizione, il dominio, ma, contemporaneamente, attraverso il consenso”

(Renato Curcio, Capitalismo digitale. Controllo, mappe culturali e sapere procedurale: progresso?, in Paginauno n.50)

 

[5] Paolo Ciofi, La rivoluzione del nostro tempo, Manifesto per un nuovo socialismo, pp.22-23, Editori Riuniti

[6] “ In che cosa consiste ora l’espropriazione del lavoro? Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro (…). Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è dunque la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso. La sua estraneità risulta nel fatto che appena cessa di esistere una costrizione fisica o d’altro genere, il lavoro è fuggito come una peste”(…).

(Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Primo manoscritto, “Il lavoro alienato”).

 

 

 

 

 

 

 

[7] Giovanna Vertova, Potenzialità e limiti del reddito di base, in Eica&Politica, pp.143-160, 2017

[8]  Così si esprime il collettivo nell’incipit di un libro che riassume i risultati di una ricerca e di un’inchiesta condotti “sul campo”:

Purtroppo a Sinistra, in quella parte politica che una volta era interessata a studiare com’era fatta la società per trasformarla, abbiamo trovato ben poco. Sono decenni che si è rinunciato alla capacità di analizzare seriamente la struttura del corpo sociale e ci si è persi invece dietro a tatticismi politici, a suggestivi ‘immaginari’, a nuove ‘narrazioni’(…). Nel frattempo, proprio chi ci governa ci studiava attentamente, produceva ricerche, indagini, sondaggi, pieni di dati e ragionamenti. Perché? Perché chi ci governa ha molta più consapevolezza di noi. Chi ci governa – che per comodità chiameremo la borghesia, i padroni, quelli che detengono i mezzi di produzione (fabbriche, campi, aziende, proprietà, capitali, rendite…) – si percepisce come un insieme definito da certe caratteristiche, come una classe sociale con degli interessi precisi, contrapposti ad un’altra classe sociale che esprime ‘naturalmente’ altri interessi, anche quando non ne è cosciente. Per questo motivo la borghesia ha bisogno di sapere come siamo fatti (…). Anche noi (…) abbiamo bisogno di sapere precisamente come siamo fatti e come sono fatti i nostri nemici (…). Che lo si voglia o no, è la realtà il terreno dello scontro: anche perché a combattere con le allucinazioni si perde sempre”.

Clash City Workers, Dove sono i nostri, lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, pp.10,11,12, La casa Usher