La guerra – parafrasando la
definizione che Peppino Impastato dava della mafia – è una montagna di merda, un’infamia,
e infami coloro che la fanno.
Le immagini terribili che ci vengono
proposte, spesso con sapienza selettiva, quando non apertamente manipolate sono
però, nella sostanza, sempre le stesse, come in ogni guerra. Non sempre,
tuttavia, ce le hanno mostrate. In
Vietnam, in Jugoslavia, in Iraq, in Afghanistan sono state pudicamente
oscurate, malgrado il corredo di torture e bestialità disumane di ogni tipo di
cui che lì sono state perpetrate.
Quello che però sta accadendo
– oltre alla guerra combattuta e descritta minutamente, cartine geografiche
alla mano, nel suo evolversi militare – è una grande, colossale mistificazione
che consiste nella decontestualizzazione della guerra. Si assiste, sì, al
dramma avvinti dalle emozioni, suscitate e amplificate da un diluvio di
immagini; una condizione che elude le domande di fondo in un presente senza
storia.
Perché accade ciò che accade?
Qui la nebbia si fa fitta: la Storia è infatti totalmente rimossa, basta la
propaganda che con la verità ha poco a che fare. Come recita l’antico adagio:
“in guerra, più balle che terra”.
Eppure fare Storia, andare
alle radici del conflitto, vuol dire sforzarsi di capire come il disastro
avrebbe potuto essere evitato. E magari trovare la strada per uscire dal vicolo
cieco in cui ci si sta cacciando. Ma farlo ha un prezzo.
Ne sa qualcosa Barbara
Spinelli che in un articolo apparso sul Fatto
Quotidiano ha semplicemente spiegato come l’Occidente aveva
i mezzi per capire in tempo che le promesse fatte dopo la riunificazione
tedesca – nessun allargamento Nato a Est – erano vitali per Mosca.
I documenti desecretati nel 2017 (sito del National Security
Archive) rivelano che da Bush padre a Kohl, da Mitterrand alla Thatcher a
Manfred Wörner, segretario generale Nato, dichiararono a Gorbaciov (era il
1990) che la Nato non si sarebbe estesa a Est “nemmeno di un pollice”(assicurò
il Segretario di Stato Baker).
Ma
le cose andarono diversamente perché Clinton e Obama avviarono gli
allargamenti. In pochi anni, tra il 2004 e il 2020, la Nato passò da 16 a 30
Paesi membri, schierando armamenti offensivi in Polonia, Romania e nei Paesi
Baltici ai confini con la Russia.
Per
questo Spinelli ha scritto: “Non
stupiamoci troppo se Putin, mescolando aggressività, risentimento e calcolo dei
rischi, parla di “impero della menzogna”. O se ricorda che le amministrazioni
Usa non hanno mai accettato missili di Paesi potenzialmente avversi nel proprio
vicinato (Cuba).”
Dopo
la guerra fredda, senza più l’Urss e il patto di Varsavia, non si è cercato di
creare un altro ordine mondiale.
Sempre
Spinelli fa notare: “La Storia era finita, il mondo era diventato
capitalista, l’ordine era unipolare e gli Usa l’egemone unico. La hybris
occidentale, la sua smoderatezza, è qui”.
Ancora:
nel 2014, l’Occidente sostenne e finanziò con una montagna di dollari il putsch
anti-russo e pro-Usa a Kiev, senza minimamente preoccuparsi della presenza di neonazisti nella rivoluzione arancione del 2014 (l’Ucraina
è l’unico Paese europeo a includere una formazione neonazista nel proprio
esercito regolare).
Il
collaborazionismo
Un passo indietro ancora.
Nella seconda guerra mondiale i nazisti reclutarono ovunque
adepti e sostenitori della loro guerra di aggressione. Il collaborazionismo
risparmiò pochi territori. in Francia (la
repubblica di Vichy), in Norvegia (Quisling), in Croazia (Ustascia), In
Ungheria, Slovacchia, Bulgaria, Ucraina: la polizia e l’esercito svolsero nella
seconda guerra mondiale un ruolo fondamentale nella realizzazione della
politica tedesca di deportazione verso i campi di sterminio per la realizzazione
della “Soluzione finale”.
Antisemitismo, nazionalismo,
odio razziale ed etnico, anticomunismo, opportunismo furono gli ingredienti
stabili del collaborazionismo.
Come nell’Ucraina di Stepan
Bandera, nazionalista e fondatore dell’Esercito insurrezionale ucraino,
aderente all’ideologia fascista, criminale di guerra e terrorista, creatore dello
stato ucraino indipendente, sostenitore dei piani espansionistici nazisti,
giurò fedeltà ad Adolf Hitler.
Al termine della guerra fredda
Stepan Bandera venne insignito dell’onorificenza di Eroe dell’Ucraina;
Dopo il
colpo di stato che cacciò Viktor Janukovyč ed il suo governo, il governo di
Kiev decise di avvalersi sempre più
dell'utilizzo di gruppi paramilitari composti da combattenti provenienti da
gruppi nazionalisti dell'estrema destra come l'Assemblea Social-Nazionale
(A.S.N.) e i Patrioti d'Ucraina, che formarono i cosiddetti "Battaglioni di
volontari civili". Nell'aprile del 2014, questi "battaglioni" vennero
regolarmente autorizzati dal Ministro dell'Interno Arsen Avakov e affiancati all'esercito regolare. Fra questi
il famigerato “Battaglione Azov”, che insieme all'altrettanto celebre
battaglione "Donbass" e al DUK (Corpo Volontari Ucraini) è stato uno
dei reparti militari di Kiev più intensamente impegnati nel conflitto. Dal
gennaio del 2015 il battaglione ricevette una compagnia carri (con T-64 e T-72) e, in aprile, dei pezzi
d'artiglieria. I componenti sono ora militari ucraini regolari e dal maggio
2015 ricevono una paga mensile di 10.000 Gryvnie (400 Euro).
Il “Battaglione Azov” non è
solo una formazione militare. Esso è legato al Corpo nazionale, un progetto
politico creato dai membri del battaglione che partecipa anche alle elezioni,
ha propri rappresentanti nel governo, ha rapporti internazionali con altri
movimenti di destra europei e con gruppi suprematisti bianchi.
Quando
oggi si parla di guerra sembra che questa sia iniziata poco più di due
settimane fa, ma sono ben otto anni che
guerra e terrorismo sono stati scatenati contro le repubbliche autodenominatesi
del Donbass: una guerra già costata 13 mila morti, mentre è stato posto fuori
legge il PC ucraino.
Questi alcuni scampoli di
storia, passato remoto e passato prossimo.
La Russia oggi
Considerata la voluta
confusione che ha oggi libero corso, converrà chiarire che la Russia è una
formazione economico-sociale
capitalista, con un reggimento politico autocratico, autoritario, fortemente
repressivo di ogni forma di dissenso, con tratti mafiosi.
La guerra fra Russia e
Ucraina non è dunque una guerra fra sistemi economico-sociali ideologicamente
contrapposti: le classi sociali che tramite il proprio personale politico li
governano appartengono, nell’uno e nell’altro caso, ai detentori del capitale;
cambiano le forme della politica, non le caratteristiche economiche e sociali e
la natura del potere. Sullo sfondo più grande, la contesa è il conflitto fra
l’imperialismo Usa e atlantico e il sub-imperialismo russo.
Francis Fukuiama
E’ appena il caso di ricordare che Francis Fukuyama, nel suo saggio
politico La fine della storia e l'ultimo uomo, pubblicato
nel 1992, sosteneva che la diffusione delle democrazie liberali, del capitalismo e lo stile
di vita occidentale in tutto il mondo avrebbe sancito la
conclusione dello sviluppo socioculturale dell'umanità per divenire la forma definitiva
di governo nel mondo, la fine delle guerre. In altri termini, la fine della
storia, nel senso che il mondo aveva finalmente raggiunto la sua maturità.
Dimenticava, Fukuyama , che entrambi i due
conflitti mondiali non sono stati altro che conflitti intercapitalistici. E di
guerre, sia pure con caratteristiche regionali, ve ne sono state molte. Altro
che mondo pacificato. Sino al conflitto attuale, carico di spaventose
incognite.
Se la società umana ha compiuto l’ultima tappa del suo
cammino, perché esiste e addirittura si allarga la Nato?
Le
installazioni militari all’estero – almeno ottocento, forse molte più – sono
l’impronta della postura imperiale. La scelta di impiantarsi nel mondo deriva dalla
necessità di controllare il mondo, in primo luogo attraverso imponenti presidi
militari.
In geopolitica,
non esiste niente di più americano delle basi
militari degli Stati Uniti all’estero;
Si legge
nella rivista Limes: “Le basi militari compongono una rete immensa
e innumerata, ai quattro angoli del pianeta,
dal Giappone all’Honduras, dalle sabbie arabiche ai ghiacci groenlandesi, dai
verdi colli di Baviera e Palatinato al ceruleo atollo di Wake. Sono
indeterminate come indeterminato
è il limite geografico del primato a stelle e strisce – coincidente con
il mondo stesso, in
attesa del cosmo. Ripropongono il mito della frontiera, catapultata in
Eurasia dopo aver soggiogato Nordamerica e Oceano Pacifico” .
E in Italia? Nel 2013 (non ho
trovato dati più aggiornati) erano presenti sul territorio italiano 59 basi ed installazioni militari con
personale statunitense (comprese quelle NATO), con circa
13.000 militari. Almeno 2 basi Nato stoccano bombe atomiche (40 fra Ghedi e
Aviano) pronte per l’uso, da montare su aerei anch’essi di nuova generazione (gli
F35, che stanno per sostituire i Tornado usati per bombardare Jugoslavia e
Iraq).
La
fola dell’alleanza difensiva
La Nato, sotto la giurisdizione Usa,
ha condotto guerre d’attacco a paesi sovrani, dalla Jugoslavia
all’Afghanistan). Quando qualche paese dell’Alleanza si è sottratto
all’ingaggio, gli Usa hanno fatto la guerra in proprio, come in Iraq, creando
le cosiddette “coalizioni dei volenterosi” alle quali l’Italia non si è mai sottratta.
La fine della guerra fredda
Il
mutuo impegno alla sicurezza reciproca e l’assicurazione che non vi sarebbe
stata nessuna espansione della Nato ad est si è tradotto nel suo contrario. La
guerra è continuata a “bassa intensità”, ma è continuata: la Nato recluta altri 15 paesi ad est.
“Fermare la guerra con la guerra”
Ovvero, la falsa coscienza di
tutti i guerrafondai, i pacifisti con il pelo del lupo sotto il manto
dell’agnello.
Coloro che vogliono inviare
armi all’Ucraina nel nome del diritto alla resistenza hanno già messo a
preventivo l’allargamento della guerra.
Coloro che vogliono aprire vaso
di Pandora sono come gli apprendisti stregoni che evocano forze che non sono in
grado di controllare.
In casa nostra, da Mario Draghi
a Enrico Letta, da Flores d’Arcais a Furio Colombo.
Tutti sottaciono che l’allargamento
del conflitto alla Nato porterebbe dritto alla terza guerra mondiale, una
guerra senza esclusione di colpi, fra potenze che dispongono dell’arma
nucleare.
Quando Zelensky chiede
l’intervento della Nato e la creazione
di una no-fly zone sui cieli croati mette in conto anche questo.
La russofobia come preparazione alla guerra totale: il
male assoluto
Quando all’università Bicocca
si blocca una lezione su Dostoiewskij, quando alla Scala si annulla un concerto
con musiche di Čajkovskij, quando ad una soprano russa viene impedito di esibirsi in un teatro
marchigiano, quando alla fiera dell’editoria per l’infanzia di Bologna si
esclude il padiglione russo, quando, agli atleti russi viene impedito di
gareggiare nelle paralimpiadi, quando si trasformano tennisti russi in apolidi
perché accanto al loro nome viene tolta la bandiera della loro nazione, quando,
inoltrandosi a piè pari nel ridicolo, si escludono dalle mostre feline i gatti
di origine russa, si compie in realtà un’operazione criminale: si crea una
disposizione d’animo, una propensione a considerare che il mondo si divide in
due parti: i buoni e i cattivi. Da una parte il Bene, dall’altra il Male
assoluto. Che come tale deve essere distrutto. Questo nel tentativo sciagurato
di inoculare nella testa delle persone l’idea che l’unica soluzione è la guerra
totale. Il tambureggiamento è in costante crescendo. Gli Stranamore di entrambe
le parti lavorano incessantemente.
A lato, due osservazioni
La questione dell’autodeterminazione dei popoli
Vale a dire, il
principio in base al quale i popoli
hanno diritto di scegliere
liberamente il proprio sistema di
governo (autodeterminazione
interna) e di essere liberi da
ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale (autodeterminazione esterna).
Come quasi tutto, nella politica di potenza, la geometria è variabile. Tutto dipende: se chi vuole
autodeterminarsi è un amico, oppure un avversario. Per cui sacrosanta era, per
l’Occidente, la liquidazione della Jugoslavia titoista: soffiare sui
nazionalismi sloveni e Croati, sino ad alimentare la guerra fratricida serviva
alla bisogna. L’autonomia del Donbas invece no, e dunque era necessario armare
la mano di Kiev e istruire/foraggiare le formazioni neo-naziste che insieme
all’esercito ucraino hanno per 8 anni fatto la guerra a quelle regioni. Neppure ai Curdi
- circa 30 milioni, fra Turchia, Iran, Iraq, Siria e Russia, più coloro che
vivono nella diaspora (solo in Germania la colonia curda ammonta a 400mila
persone) – viene riconosciuto il diritto all’autodeterminazione. I curdi (che
da soli hanno combattuto l’Isis, che conservano da sempre un tradizionale
atteggiamento di tolleranza e che rappresentano un modello di democrazia
partecipata unico nel medio-oriente) vivono in una condizione di violenta
oppressione, in particolare da parte della Turchia, che sta applicando contro di
loro una politica programmata di distruzione. Ma per l’Occidente il problema
non esiste. Lo stesso vale, sull’altro fronte, per la Cecenia, la cui
rivendicazione di indipendenza è sta pagata con la distruzione quasi completa di Groznyj dopo aspri
combattimenti per riportare la Cecenia sotto il controllo della
federazione Russa. Per non parlare della Palestina,
dove - malgrado la risoluzione 2334
del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 23 dicembre 2016, adottata
con 14 voti a favore su 15, preveda che Israele debba porre
fine alla sua politica di insediamenti nei territori palestinesi dal 1967,
inclusa Gerusalemme Est - non accade assolutamente nulla.
L’occupazione continua, senza che Israele sia colpito da sanzioni, impedite dal
veto Usa e vassalli al seguito.
Lo pseudo-giornalismo “embedded”
Oggi stiamo assistendo ad un
crescendo rossiniano di propaganda bellica che manipola/deforma la verità.
Siamo arrivati al punto -
davvero inedito per le proporzioni della menzogna propinata – che il servizio
pubblico della Rai ha inanellato una quantità industriale di fake news. Come il
Tg2, che è arrivato a mettere in onda un filmato che avrebbe dovuto documentare
i bombardamenti russi sulle città ucraine, ma si trattava di un video-gioco;
oppure come il Tg1, che è riuscito a mostrare la scalinata di Odessa (quella nella
quale si consumò la strage zarista immortalata dal film di Sergej Ėjzenštejn nel film La corazzata Potemkin) spacciandola per
una manifestazione repressa dai Bolscevichi nel 1905. Poi Ma, più in generale,
è scomparso il giornalismo, vale a dire il racconto, senza inferenze e
partigianerie, di ciò che accade.
L’invito sempre più pressante
di tutto l’establishment europeo ad indossare l’elmetto coinvolge pressoché
tutta la stampa, arruolata nella guerra della disinformazione. Chi si sottrae a
questo imperativo viene tacciato di “tradimento in faccia al nemico” e trattato
come tale.
Mario Sechi, direttore responsabile
dell'Agenzia Giornalistica Italia, non certo di simpatie verso la sinistra, ha
svolto, per l’emittente televisiva Rai-news 24, un’autentica lezione di
giornalismo, cominciando dal denunciare la pessima inclinazione di tanti sedicenti
giornalisti a non verificare le notizie che vengono passate come verità. Sechi
ha spiegato che la disposizione da lui tassativamente imposta ai propri
giornalisti è quella di pubblicare solo ed unicamente le notizie di cui si
abbia certa e documentata sicurezza: “Ove permane un dubbio – continua Sechi –
non si pubblica”. Il direttore dell’Agi ha fatto un esempio molto preciso. Ad
un certo punto è stata diffusa la notizia che le truppe Russe avevano
bombardato per ore la centrale nucleare di Chernobyl. Zelenskij aveva aggiunto
“per ore”. Nelle 24 ore successive tutti i media occidentali hanno parlato di
rischio di ecatombe nucleare provocata dai Russi. Ma un’indagine più seria,
condotta da Sechi medesimo, evidenziava che nel perimetro della base era
avvenuto solo uno scambio a fuoco con armi leggere senza alcuna conseguenza. A
rassicurare il mondo ci ha poi pensato l'Agenzia per la sicurezza nucleare.
Sechi
continuava criticando severamente la decisione del governo italiano di ritirare
tutti i giornalisti presenti in Russia: “Chi
racconterà cosa lì sta succedendo? Lo si farà attraverso le veline o con
pseudo-informazioni di terza mano? (…) il vero giornalismo si fa stando sul
campo, non fuggendo via (…) Poi ci sarà sempre spazio per un’informazione adulterata,
ma dal Vietnam in avanti giornalisti che hanno fatto con scrupolo il proprio
mestiere ci hanno consentito di conoscere le verità che le parti in causa
avevano interesse a nascondere”.
Tutto
il contrario di quanto, ad esempio, successe nelle guerra in Iraq nel 2003
quando Monica Maggioni, oggi direttrice della Rai, fu l’unica giornalista
italiana “embedded” in Iraq, cioè aggregata all’esercito statunitense durante la
seconda Guerra del Golfo.
Per tre mesi Maggioni ha vissuto con i militari americani durante l’avanzata di
terra dal Kuwait verso la capitale irachena. Da lì faceva le sue corrispondenze:
un luminoso esempio di giornalismo-propaganda.
Se
è stato possibile conoscere le violazioni
dei diritti umani commesse contro detenuti nella prigione di Abu Ghraib in Iraq da parte di
personale dell'Esercito degli Stati Uniti e della Central Intelligence Agency durante gli
eventi della guerra in Iraq del marzo 2003, ciò è stato
possibile grazie all’investigazione promossa da fonti indipendenti. Le “violazioni”
scoperte inclusero abusi fisici e sessuali, torture, stupri, sodomizzazioni e omicidi. Gli abusi giunsero all'attenzione generale con la
pubblicazione di fotografie delle violenze su CBS News nell'aprile del 2004.
Gli episodi ricevettero una condanna generale sia negli USA che all'estero,
benché i soldati ricevessero sostegno da alcuni media conservatori negli USA.
L'amministrazione
George W. Bush cercò di dipingere gli
abusi come incidenti isolati, non indicativi di una politica generale degli
USA. Ciò venne però contraddetto da organizzazioni umanitarie come Croce
Rossa, Amnesty
International e Human Rights Watch. Dopo diverse investigazioni, queste organizzazioni
stabilirono che gli abusi di Abu Ghraib non furono affatto incidenti isolati ma
parte di un vasto piano di torture e trattamenti brutalizzanti presso centri di
detenzione americani all'estero, compresi quelli in Iraq, Afghanistan
e Guantanamo. E furono trovate prove che l'autorizzazione alle
torture veniva da molto in alto nelle gerarchie militari e addirittura alcune
deposizioni sostennero che alcune erano state autorizzate dal segretario alla
Difesa Donald Rumsfeld.
O
come a My Lai, nel Vietnam del Sud, il 16 marzo 1968. Per la Compagnia Charlie
dell'esercito USA avrebbe dovuto essere una normale operazione militare, ma
quattro ore dopo diventò una carneficina di civili inermi. Lungo le strade del
piccolo villaggio, centinaia di corpi di uomini, donne e bambini giacevano
senza vita. Furono trucidati dagli uomini del capitano Ernest Medina.
Incredibilmente, nonostante i rapporti di alcuni testimoni oculari, la strage venne
occultata dai vertici dell'esercito. Ci volle più di un anno prima che un
reduce riuscisse a far ascoltare la propria voce e, con l'aiuto dell'autore, a
denunciare un crimine di guerra che porterà davanti alla Corte Marziale il
capitano e alcuni degli uomini che parteciparono alla carneficina.
Ora, le immagini reiterate
dei bombardamenti in Ucraina suscitano, giustamente, il nostro orrore, come
quelle dei civili e dei bambini morti. Quanti sono? Si intenda bene: anche uno
solo è di troppo. Ma vorremmo ugualmente avere contezza dei dati reali del
disastro. E le parole che si usano devono avere un senso preciso.
Quando si parla disinvoltamente
di genocidio, o di bombardamenti “a tappeto”, bisogna ricordare Guernica,
Dresda, dove le città sono state rase al suolo e la popolazione sterminata. Altrimenti,
ancora una volta, si perde il senso delle proporzioni. E della realtà.