giovedì 25 maggio 2023

Intervento alla Direzione del Prc (24 maggio 2023)

 Sulle elezioni, al di là dell’esito altalenante, mi pare ci sia una indicazione prevalente. Nei territori dove nei mesi, o addirittura negli anni trascorsi, si è sviluppata un’iniziativa sociale reale, un conflitto partecipato e visibile, il risultato elettorale, quale che sia stata la composizione delle liste a cui abbiamo dato vita, il risultato elettorale è venuto. Due esempi: a Bussoleno, 6mila abitanti, la compagna Nicoletta Dosio, espressione di una lotta, quella della Val di Susa, che entrerà nei libri di storia, ha raggiunto nella lista di Up un risultato importante; a Campi Bisenzio, 46mila abitanti, epicentro della straordinaria lotta della GKN, la lista formata da Sinistra Italiana, Unione Popolare e M5S raccoglie un ottimo 20% e il 28 maggio andrà al ballottaggio contro il Pd. Conflitto sociale e lotta di classe, quando ne siamo protagonisti, pagano e distribuiscono “le carte” alla politica. Fuori da tutto ciò prevale il polititismo o, addirittura, il politicantismo e la consultazione elettorale diventa una contesa interna ai poteri forti e ad un personale politico ad essi prono, sia esso di centrodestra o di centrosinistra.

A Brescia, con tutta evidenza, non è andata bene. Malgrado il buon lavoro fatto da Up con M5S e Pci. La piattaforma era molto avanzata: l’alternatività radicale e l’opposizione ai governi di centrosinistra e di centrodestra, un progetto di profonda trasformazione della città e l’indicazione di un profilo culturale e ideale che comprendeva il secco “no” alla guerra, lo stop all’invio di armi all’Ucraina, la richiesta di smantellare l’armamento nucleare presente nella base militare di Ghedi, l’individuazione di un dignitosissimo candidato sindaco. Tutto ciò è però avvenuto nel vuoto di un’azione sindacale che impregnasse di sé la campagna elettorale, dominata dalla paura del possibile avvento al governo della città di un centro destra impregnato di fascismo, a partire dal candidato sindaco, con uomini dall’inequivoco passato (Ordine Nuovo e Terza posizione). Il cosiddetto voto utile ha calamitato anche voti ( pesino nostri) che mai sarebbero andati alla candidata sindaca del centrosinistra la quale ha invece potuto maramaldeggiare, inventando al proprio sostegno ben 8 liste civiche, almeno 5 delle quali fatte di conglomerati posticci, del tutto inventati, mai esistiti prima delle elezioni e immediatamente scioltisi a risultato conseguito: quello di ottenere, in forza di questa fetente legge elettorale di impronta presidenzialista, uno strapuntino in consiglio comunale, più o meno con gli stessi voti realizzati dalla nostra coalizione, rimasta invece a bocca asciutta. C’è però una questione che non può essere sottaciuta. Voi sapete che Potere al Popolo alla fine si oppose alla coalizione con i 5S. E nell’assemblea di Up si votò, ciascuno in base  alle proprie convinzioni, “una testa un voto”, appunto. L’esito fu, a larghissima maggioranza, di chiedere al nazionale il simbolo di Up che arrivò in meno di 24 ore. A quel punto il portavoce di Pap postò nella chat una chiarissima dichiarazione: “Questa non sarà la nostra campagna elettorale”. Da quel momento Pap è letteralmente sparita: dalla lista, dalla raccolta delle firme, dalla campagna elettorale che è stata portata avanti da Rifondazione con gli indipendenti, di formazione prevalentemente pacifista e ambientalista. La cosa non può non fare riflettere e ha generato fra le nostre file una ripulsa generalizzata e molto forte nei confronti di Pap. Non sarà per nulla semplice venirne a capo. Mercoledì prossimo è prevista l’assemblea di Up, attesa ad una prova decisiva.

Condivido le proposte avanzate sull’articolazione di temi sui quali ingaggiare la campagna referendaria.

Sottolineo però le due questioni prevalenti su cui il nostro impegno deve tenere botta: la questione antifascista (a Brescia c’è un proliferare di agguati: manifestazioni, tutte autorizzate da prefettura, questura e dal Comune di Bs di centrosinistra a guida Pd;  scritte naziste sui muri delle scuole e, per contro, divieto agli antifascisti di presidiare piazza della Loggia con l’invio della Digos ad eseguire il provvedimento che per altro nemmeno la polizia politica ha avuto il coraggio di applicare. Tutto ciò mentre accade che Chiara Colosimo (deputata di Flli d’Italia, intima amica di Luigi Ciavardini, l’ex estremista nero dei Nar condannato, fra le altre imprese delittuose, a 30 anni di carcere per la strage di Bologna) viene nominata presidente della Commisione Stragi; la questione della guerra, giunta ad un drammatico punto critico e a rischio evidente di degenerazione in guerra totale. Che Zelensky, vestito con un maglioncino effigiato con la spada nel tridente, simbolo del collaborazionismo fascista ukraino e del gruppo neofascista di Pravyj Sektor, venga a Roma a spiegare al Papa di stare al proprio posto che la guerra non si fa con il negoziato, ma con le armi, e che contemporaneamente Giorgia Meloni dichiari che l’Italia addestrerà i piloti ukraini che dovranno pilotare gli F16, pone a tutti noi l’urgenza di una mobilitazione di amplissime proporzioni, perché della gravità della situazione continua a non esservi un’adeguata percezione.

lunedì 24 aprile 2023

Il fascismo non è un’idea, è un crimine L’antifascismo è la cura

 



Sostiene La Russa, seconda carica dello Stato e fascista d’antan, che “nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’antifascismo”. E se ne capisce la ragione, perché La Russa – secondo il quale l’azione di guerra condotta dai partigiani in via Rasella “non colpì soldati nazisti, ma una banda musicale di semi-pensionati” - la Costituzione non l’ha mai letta. Altrimenti scoprirebbe che ogni parola, ogni articolo della Legge fondamentale della Repubblica nata dalla Resistenza trasuda antifascismo. E tale è il progetto di società che la innerva.

Il fascismo fu un regime dittatoriale impregnato di razzismo, antisemitismo, violenza e sopraffazione. L’antifascismo ne fu storicamente e ne è oggi l’esatto opposto.

Nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione sta scritto, in termini inequivocabili, che “E’ vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. E due specifiche leggi della Repubblica, la legge Scelba del 1952 e la legge Mancino del 1993 puniscono chiunque metta in atto gesti, azioni e slogan legati all'ideologia fascista o provino a riorganizzare quel partito e qualunque associazione, movimento, gruppo che ha fra i propri scopi l’incitamento all’odio e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi.

Eppure ciò non avviene. Casa Pound, Blocco studentesco, Forza nuova, organizzazioni dichiaratamente fasciste e filonaziste, compiono quotidianamente e impunemente aggressioni, propaganda fascista.

Gli uomini stessi della compagine che governa questo paese hanno recentemente intestato, nella nostra città, un circolo di FdI a Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, antisemita e “mandante morale” della stage di Piazza della Loggia.

Lì stanno le radici dell’infezione che devono essere rimosse. E tocca anche a noi cittadini, come chiede la Costituzione, contrastare l’inerzia dei poteri costituiti e farne osservare i sacri principi.

Unione popolare: scommessa gravida di futuro o riedizione di un film già visto?

 


La sciagurata legge elettorale che nelle sue spericolate varianti condiziona da molti anni la vita politica nazionale è servita a inchiavardare il sistema politico in una ferrea logica bipolare, utile a mandare in soffitta, insieme alla proporzionalità della rappresentanza parlamentare, una reale dialettica democratica, coartandola nella camicia di forza del “voto utile”. Si vota, quando ancora si vota, per chi si suppone meno lontano, non per chi è più vicino al proprio sentire, perché le minoranze sono nei fatti espulse dall’ingranaggio stritolante di una competizione elettorale che si gioca con carte truccate. L’equivalenza sostanziale del profilo politico-culturale dei principali competitors ha ormai persuaso la metà dei cittadini ammessi al voto che le elezioni non servono a niente se non a gratificare le ambizioni e gli interessi di un personale politico totalmente autoreferenziale, dedito ad applicare i dogmi mercatisti del “pilota automatico” di conio draghiano. Da un simile colpo al plesso solare la democrazia rischia seriamente di implodere.

 

La costruzione di una coalizione politica non ha alternative

Ecco perché, nella situazione data, la necessità di costruire un’aggregazione di soggettività politiche capace di costituire una massa critica sufficiente diventa la conditio sine qua non per non ridurre la presenza di ciò che resta della sinistra di classe ad un esercizio di velleitaria testimonianza.

Per questo credo necessario compiere ogni sforzo affinché Unione popolare, pur nel suo traballante incedere, continui ad esistere. Purché duri e non si riduca soltanto ad uno degli episodi transeunti di questa nostra eterna transumanza da una coalizione all’altra, in cerca d’autore.

Va da sé che se al primo tornante riusciremo a distruggere anche Unione popolare infliggeremo al morale non troppo alto dei nostri militanti un colpo difficilmente riassorbibile.

 

Via dalle pulsioni leaderistiche

Tuttavia, perché la costruzione finalmente funzioni, dobbiamo imparare dagli errori compiuti. Per esempio, emancipandoci dalla tendenza a ritenere più di ogni altra cosa decisiva la rincorsa a reclutare qualche personaggio eccellente, qualche “papa straniero” che si suppone capace di conferire alla coalizione il “soffio della vita”. Ci abbiamo provato più volte e la cosa, con tutta evidenza, non ha funzionato.

Il rifugio salvifico nel (presunto) leader carismatico di turno nasconde una sostanziale sfiducia nella propria proposta politica e si è rivelato una scorciatoia praticata nella speranza, o meglio, nell’illusione, che questa sovraesposizione personale, questo cedimento ad una forma di populismo “sui generis”, potesse riscattare il nostro insufficiente radicamento sociale, l’assenza di un conflitto di classe che lo innervi, vera radice di una nostra perdurante marginalità politica.

 

Unione popolare non può crescere su se stessa

So bene, ovviamente, che le elezioni non sono tutto e, per un partito comunista, neppure il prevalente, ma oggi, come ieri e credo anche domani, sarà ineludibile la questione della partecipazione alle consultazioni elettorali, croce di tutta la storia del Prc, visto che intorno a quegli appuntamenti si sono consumate sanguinose rotture e, ancora oggi, feroci e irriducibili contrasti.

Ora, che Up debba cercare, con ogni determinazione e in quanto possibile, alleanze elettorali, tanto nelle consultazioni politiche generali quanto in quelle amministrative regionali e comunali, dovrebbe essere, come suggerisce il buon senso, sforzo condiviso e non motivo di laceranti contenziosi pseudo-ideologici. Certo, devono essere soddisfatte condizioni minime: un programma accettabile, l’alternatività al centrosinistra e poche altre cose essenziali. Chi pensa che Up possa crescere su se stessa, guardandosi l’ombelico e svilupparsi per “partenogenesi”, respingendo aprioristicamente qualsiasi convergenza, sbaglia di grosso e si condanna (ci condanna) ad uno sterile arroccamento identitario, figlio di un retaggio settario che finisce per precludersi qualsiasi concreto obiettivo di cambiamento della realtà esistente.

Questa è però solo una parte del ragionamento.

 

Alle elezioni ci si presenta. Sempre

L’altra ha anch’essa a che fare con il principio di realtà: cosa facciamo quando ogni tentativo di costruire un’alleanza elettorale, sinceramente e con convinzione perseguito, si rivela infruttuoso? Oppure quando la sola possibilità che ci si presenta è quella di essere cooptati in un ruolo gregario dentro uno schieramento che snatura il nostro programma e la stessa ragione della nostra esistenza, cioè l’essere alternativi al centrodestra e al centrosinistra? Cosa facciamo? Ci asteniamo dal presentarci e scaldiamo i muscoli in attesa che maturino tempi diversi e che qualcuno, prima o poi, ci offra un salvagente a cui aggrapparci? Rinunciamo cioè alla nostra autonomia e certifichiamo la nostra dipendenza da altri?

La “condanna” di ogni partito, o anche di una semplice coalizione, impone di partecipare alle elezioni. Se non lo fai risulti invisibile, perché vuol dire che non possiedi un’idea di paese, o di regione, o di comune da contrapporre a chi governa o amministra. Confermi, cioè, implicitamente, che c’è un recinto, gelosamente custodito dagli attuali protagonisti della scena politica, al di là del quale non esiste e non può esistere nulla.

Conosco l’obiezione: riscuotere un risultato scarso, o scarsissimo - l’incubo dello “zerovirgola”, per capirci - delude, mortifica, scoraggia: di sicuro non solleva il morale di nessuno. Ma nascondere in modo tartufesco la propria marginalità sotto il tappetto può tuttalpiù esorcizzare, ma non cambiare, la realtà delle cose. E neanche questa mi pare una buona soluzione.

I nostri veri maestri, i comunisti che si batterono nelle condizioni più disperate, non esitarono mai a presentarsi alle elezioni, almeno finché non fu loro impedito manu militari: forse merita ricordare che Gramsci entrò in parlamento con le elezioni del 1924, le ultime elezioni multi-partitiche a sovranità popolare svoltesi nell’Italia che stava per sprofondare nella dittatura fascista.  

 

 

Settarismo e politicismo: due errori fatali

A me pare che molti di noi sottovalutino e, contemporaneamente, sopravvalutino l’appuntamento elettorale. Lo si sottovaluta perché si pensa che l’approdo istituzionale non serva in quanto conta solo il “sociale”, ed è un errore; lo si sopravvaluta perché, all’opposto, lo si vive come una sorta di “certificato di esistenza in vita”, sulla base di un presunto primato assoluto del “politico”, ed è un altro errore.

Allora, a me pare che contro il settarismo identitario e il politicismo c’è forse quella che è la via maestra: stare con continuità dentro i conflitti, cogliere ogni movimento reale della società e la ripercussione che quel movimento esercita sulla politica: rendersi capaci dell’analisi differenziata e metterla al servizio di una intelligente capacità di azione politica. Insomma, occorre capire che non ci si trova mai “nella notte dove tutte le vacche sono nere” e, nello stesso tempo, prepararsi ad una lunga marcia, perché non esistono scorciatoie che trasformino in un batter di ciglio i brutti anatroccoli in magnifici cigni.

Così si salda la tattica alla strategia e si evitano i due rischi capitali. Il primo: quello di fare della strategia l’unica tattica, che significa declinare, in ogni momento, se stessi, con ossessiva ripetitività, vietandosi ogni possibilità di manovra politica e consegnandosi ad una predicazione millenaristica; il secondo: quello di fare della tattica la sola strategia, perdendo di vista l’obiettivo, cedendo all’improvvisazione, all’elettoralismo fine a se stesso che fatalmente conduce all’opportunismo.

Se su questi nodi cruciali è bene venire in chiaro. Talvolta per fare un passo avanti è necessario dividersi, nella chiarezza.

 

Unione popolare e il Prc: una relazione da chiarire

L’ipotesi di trasformare UP in un partito non esiste, se non nella testa di qualche intellettuale orfano di una propria collocazione identitaria. Bisogna togliersi dalla testa che Up, attraverso un’acrobazia da prestigiatore, possa (o debba!) trasformarsi nel partito che non riusciamo ad essere. Questo equivoco può marciare solo ove non si comprenda quale differenza passi fra un movimento plurale ed un partito comunista, soggetti di natura diversa e con compiti diversi: da una parte, il partito comunista, che deve organizzare /promuovere/guidare la lotta di classe, sapere leggere le contraddizioni della formazione economico-sociale capitalistica e delineare un progetto di radicale trasformazione della società; dall’altra una coalizione ampia, “a bassa soglia d’ingresso”,  che deve avere come cornice politica e culturale la Costituzione antifascista, compito essenziale, in una situazione  nella quale quasi l’intero arco parlamentare è ad essa ostile (ai suoi principi, ai suoi valori, alla sua architettura istituzionale, al progetto di società che la innerva).

Se UP deve diventare (quale ancora oggi non è) un movimento largo e inclusivo, noi non dobbiamo chiedere a nessuno che voglia parteciparvi di professarsi comunista. Con l’avvertenza che nessuno può chiedere a noi di rinunciare ad esserlo e a rimanere organizzati nel partito con la falce e martello. Dunque, il movimento deve avere unicamente nel programma politico il comune punto di riferimento.

 

Il tema decisivo della sovranità: chi decide?

Ovvero: come si decide dentro Up. In questo caso non è a mio avviso possibile adottare il criterio canonico di ogni democrazia: “Una testa un voto”, dove “uno vale uno”. 

Questo lo si può fare dentro un partito o dentro un’aggregazione che ha ormai raggiunto un livello molto forte di omogeneità politica, al punto di poter essere considerato un soggetto unico dove, legittimamente, si decide a maggioranza. Non lo si può fare dentro un contenitore formato sia da soggetti politici organizzati, sia da singole persone.

La drammatica vicenda di 4 anni fa, dentro Potere al popolo, è lì dimostrarci che la rottura avvenne proprio su questo: la pretesa di Pap di votare a maggioranza semplice su tutto, mentre Pap lanciava l’Opa sul Prc. Se questa logica riprende il sopravvento, il cortocircuito è dietro l’angolo.

Esiste un solo modo, per quanto non esente da complicazioni, per procedere, ed è la decisione condivisa (a larghissima maggioranza). Questo implica tre conseguenze della massima importanza: che non può esservi alcuna cessione di sovranità da un partito costituito ad UP che diventerebbe automaticamente un soggetto politico sovraordinato; che tutto ciò che unisce deve essere agito, nello spazio pubblico, come UP; che tutto ciò che non è condiviso restituisce a ciascun soggetto il diritto-dovere di agire in proprio.

Naturalmente sui temi controversi si continua a discutere e le pratiche comuni non possono che aiutare ad ampliare l’area della condivisione.

Il rischio che questa prassi possa porre chi non fa parte di una forza organizzata nella scomoda posizione del vaso di coccio fra vasi di ferro esiste, ma l’impegno ad assumere decisioni solo se largamente condivise può aiutare anche in questo caso.

 

L’adesione ad Unione popolare è un optional?

Se il partito aderisce come tale ad Up, sulla base cioè di una decisione degli organismi dirigenti, questo vale per tutti e per tutte. Quindi ognuno/a è intraneo/a ad Up e non c’è bisogno di un doppio tesseramento per formalizzarlo. Si può essere d’accordo oppure no, ma questo non toglie nulla al valore della decisione. Ricordo che una volta, nel Pci, quando si accendeva una dialettica interna, chi aveva posizioni risultate in minoranza, doveva essere il primo a sostenere pubblicamente le posizioni della maggioranza. La cosa può apparire (e per certi versi era) un po’ perversa, ma aveva una sua logica: quella che la linea della maggioranza, sino a quando non cambia, è la linea di tutti, perché da questa coerenza e da questo rigore dipendono la forza e la credibilità del partito. Pretendere l’applicazione della linea adottata non è un atto di prevaricazione: è semplicemente la condizione di esistenza del partito stesso. Noi invece no. Il nostro partito è sicuramente libertario, ma solo per approssimazione comunista, al punto che è possibile sottrarsi all’impegno – che dovrebbe essere più che mai vincolante - di presentare alle elezioni la lista elettorale di cui facciamo parte. Sembra che da noi ognuno possa farsi il proprio Prc personale, quello che coincide con le proprie personali convinzioni.

Dunque, tutti noi facciamo parte di Up, finché non cambiamo linea. Chi non ha partito deve invece potere formalmente segnalare la propria adesione, con una dichiarazione on-line, e sottoscrivere una quota, non consistente, ma non risibile. Questo non deve competere agli iscritti/e, né al Prc che finanzia Up come nessun altro soggetto (denaro, sedi, materiali, e così via).

lunedì 25 aprile 2022

La devastante "ruzzola" bellicista del Pd



 

Credevamo che di tansumanza in transumanza il Pd avesse completato, come nei peggiori film horror, la propria metamorfosi politica. Credevamo che l’approdo nell’alveo della cultura liberista descrivesse compiutamente il nuovo profilo culturale e politico di quel partito. Credevamo che definire il Pd, con una formula sintetica, come la”sinistra del capitale” spiegasse ormai tutto. Ci sbagliavamo. Perché quando rompi gli argini, quando a trattenerti non c’è più alcun freno inibitorio, neppure di natura morale, allora la tua cultura originaria si dissolve e la tua deriva si trasforma in una precipitosa fuga nell’opposto. E’ così che l’ultima e fondamentale roccaforte, la Costituzione, è stata divelta dai suoi cardini, già tremolanti per incuria e disinnamoramento. Il progetto di società che vive in essa sbiadisce sino a corrompersi e i principi che lo innervano vengono recisi dalle radici. Accade così che persino il ripudio della guerra si trasformi nel suo rovescio e improvvisati esegeti della Resistenza scambino la partecipazione armata al conflitto in Ucraina a fianco del Battaglione Azov come un atto coerente con la lotta di Liberazione di cui in Italia furono protagonisti i partigiani.

Nel nome degli immarcescibili valori dell’Occidente il Pd aderisce come un guanto alla nobile missione della Nato, assurta a nuova frontiera della civiltà, in un mondo in cui buoni e cattivi sono inesorabilmente separati da una netta linea di demarcazione, senza dubbi e chiaroscuri.

Dove tra i cattivi, fra coloro che provano a ragionare e alzare lo sguardo sulle drammatiche contraddizioni del nostro tempo figurano, in ordine sparso, il Papa, monsignor Bettazzi, monsignor Ricchiuti, Raniero La Valle, Tomaso Montanari, Marco Travaglio, Lucio Caracciolo e tanti altri, non certo vittime di nostalgie zariste e tuttavia collocati d’ufficio nella reggia di Putin dal Pd e da tutta la cortigianeria mainstream. Ma un’attenzione particolare il Pd sta dedicando a Gianfranco Pagliarulo e all’Anpi responsabili di non avere scambiato la guerra per un lavacro purificatore. Pagliarulo, come tutta la compagnia pacifista, è un traditore, perché chiede che una seria trattativa, piuttosto che il protrarsi della carneficina, metta fine alla guerra e perché non si accoda ai mercanti di armi che sulla guerra stanno lucrando enormi profitti. C’è con tutta evidenza, in questa compulsiva offensiva scatenata contro l’Anpi, qualcosa di inquietante, che cova da tempo nelle acque stagnanti della politica italiana. Si tratta dell’intenzione di dichiarare estinta la funzione dell’associazione partigiana, considerato che, per ragioni anagrafiche, larghissima parte di coloro che salirono in montagna non sono più e che, dunque, l’Anpi attuale non rappresenterebbe più l’autorità morale di un tempo. In realtà, è tutta l’attività militante dell’Anpi per la difesa e l’attuazione della Costituzione che si vuole mettere in mora. Ed è l’antifascismo stesso che si pretende di archiviare in ragione della fola che il fascismo sarebbe finito il 25 aprile 1945. Dunque, basta con la retorica antifascista e “decomunistizzare” l’Anpi, se proprio non si vuole scioglierla, come pretenderebbe Arturo Parisi, ex ministro della difesa del secondo ministro Prodi. Via l’Anpi, mentre non si riesce (non si vuole) mettere fuori legge le organizzazioni neo-fasciste, provviste di solide protezioni, in barba alla Carta e alle leggi Scelba e Mancino che ne autorizzerebbero l’immediata messa al bando. Così si chiude il cerchio e giunge a compimento la lunga traiettoria di fuoriuscita dalla democrazia costituzionale, sostituita dall’ipocrisia guerrafondaia del neo-atlantismo, esportatore seriale di democrazia.

Bisogna rendersi conto di dove porta questa ruzzola, ammesso che non sia già troppo tardi.

 



martedì 15 marzo 2022

Un'altra guerra, quella definitiva, è alle porte

 

 


 La guerra – parafrasando la definizione che Peppino Impastato dava della mafia – è una montagna di merda, un’infamia, e infami coloro che la fanno.

Le immagini terribili che ci vengono proposte, spesso con sapienza selettiva, quando non apertamente manipolate sono però, nella sostanza, sempre le stesse, come in ogni guerra. Non sempre, tuttavia, ce le hanno mostrate.  In Vietnam, in Jugoslavia, in Iraq, in Afghanistan sono state pudicamente oscurate, malgrado il corredo di torture e bestialità disumane di ogni tipo di cui che lì sono state perpetrate.

 Quello che però sta accadendo – oltre alla guerra combattuta e descritta minutamente, cartine geografiche alla mano, nel suo evolversi militare – è una grande, colossale mistificazione che consiste nella decontestualizzazione della guerra. Si assiste, sì, al dramma avvinti dalle emozioni, suscitate e amplificate da un diluvio di immagini; una condizione che elude le domande di fondo in un presente senza storia.

Perché accade ciò che accade? Qui la nebbia si fa fitta: la Storia è infatti totalmente rimossa, basta la propaganda che con la verità ha poco a che fare. Come recita l’antico adagio: “in guerra, più balle che terra”.

Eppure fare Storia, andare alle radici del conflitto, vuol dire sforzarsi di capire come il disastro avrebbe potuto essere evitato. E magari trovare la strada per uscire dal vicolo cieco in cui ci si sta cacciando. Ma farlo ha un prezzo.

Ne sa qualcosa Barbara Spinelli che in un articolo apparso sul Fatto Quotidiano ha semplicemente spiegato come l’Occidente aveva i mezzi per capire in tempo che le promesse fatte dopo la riunificazione tedesca – nessun allargamento Nato a Est – erano vitali per Mosca.

I documenti desecretati nel 2017 (sito del National Security Archive) rivelano che da Bush padre a Kohl, da Mitterrand alla Thatcher a Manfred Wörner, segretario generale Nato, dichiararono a Gorbaciov (era il 1990) che la Nato non si sarebbe estesa a Est “nemmeno di un pollice”(assicurò il Segretario di Stato Baker).

Ma le cose andarono diversamente perché Clinton e Obama avviarono gli allargamenti. In pochi anni, tra il 2004 e il 2020, la Nato passò da 16 a 30 Paesi membri, schierando armamenti offensivi in Polonia, Romania e nei Paesi Baltici ai confini con la Russia.

Per questo Spinelli ha scritto: “Non stupiamoci troppo se Putin, mescolando aggressività, risentimento e calcolo dei rischi, parla di “impero della menzogna”. O se ricorda che le amministrazioni Usa non hanno mai accettato missili di Paesi potenzialmente avversi nel proprio vicinato (Cuba).”

Dopo la guerra fredda, senza più l’Urss e il patto di Varsavia, non si è cercato di creare un altro ordine mondiale.

Sempre Spinelli fa notare: “La Storia era finita, il mondo era diventato capitalista, l’ordine era unipolare e gli Usa l’egemone unico. La hybris occidentale, la sua smoderatezza, è qui”.

Ancora: nel 2014, l’Occidente sostenne e finanziò con una montagna di dollari il putsch anti-russo e pro-Usa a Kiev, senza minimamente preoccuparsi della presenza di neonazisti nella rivoluzione arancione del 2014 (l’Ucraina è l’unico Paese europeo a includere una formazione neonazista nel proprio esercito regolare).

 Il collaborazionismo

Un passo indietro ancora.

Nella seconda guerra mondiale i nazisti reclutarono ovunque adepti e sostenitori della loro guerra di aggressione. Il collaborazionismo risparmiò pochi territori. in Francia (la repubblica di Vichy), in Norvegia (Quisling), in Croazia (Ustascia), In Ungheria, Slovacchia, Bulgaria, Ucraina: la polizia e l’esercito svolsero nella seconda guerra mondiale un ruolo fondamentale nella realizzazione della politica tedesca di deportazione verso i campi di sterminio per la realizzazione della “Soluzione finale”.

Antisemitismo, nazionalismo, odio razziale ed etnico, anticomunismo, opportunismo furono gli ingredienti stabili del collaborazionismo.

Come nell’Ucraina di Stepan Bandera, nazionalista e fondatore dell’Esercito insurrezionale ucraino, aderente all’ideologia fascista, criminale di guerra e terrorista, creatore dello stato ucraino indipendente, sostenitore dei piani espansionistici nazisti, giurò fedeltà ad Adolf Hitler.

Al termine della guerra fredda Stepan Bandera venne insignito dell’onorificenza di Eroe dell’Ucraina;

Dopo il colpo di stato che cacciò Viktor Janukovyč ed il suo governo, il governo di Kiev decise di  avvalersi sempre più dell'utilizzo di gruppi paramilitari composti da combattenti provenienti da gruppi nazionalisti dell'estrema destra come l'Assemblea Social-Nazionale (A.S.N.) e i Patrioti d'Ucraina, che formarono i cosiddetti "Battaglioni di volontari civili". Nell'aprile del 2014, questi "battaglioni" vennero regolarmente autorizzati dal Ministro dell'Interno Arsen Avakov e  affiancati all'esercito regolare. Fra questi il famigerato “Battaglione Azov”, che insieme all'altrettanto celebre battaglione "Donbass" e al DUK (Corpo Volontari Ucraini) è stato uno dei reparti militari di Kiev più intensamente impegnati nel conflitto. Dal gennaio del 2015 il battaglione ricevette una compagnia carri (con T-64 e T-72) e, in aprile, dei pezzi d'artiglieria. I componenti sono ora militari ucraini regolari e dal maggio 2015 ricevono una paga mensile di 10.000 Gryvnie (400 Euro).

Il “Battaglione Azov” non è solo una formazione militare. Esso è legato al Corpo nazionale, un progetto politico creato dai membri del battaglione che partecipa anche alle elezioni, ha propri rappresentanti nel governo, ha rapporti internazionali con altri movimenti di destra europei e con gruppi suprematisti bianchi.

Quando oggi si parla di guerra sembra che questa sia iniziata poco più di due settimane fa, ma sono ben otto anni che guerra e terrorismo sono stati scatenati contro le repubbliche autodenominatesi del Donbass: una guerra già costata 13 mila morti, mentre è stato posto fuori legge il PC ucraino.

Questi alcuni scampoli di storia, passato remoto e passato prossimo.

 La Russia oggi

Considerata la voluta confusione che ha oggi libero corso, converrà chiarire che la Russia è una

formazione economico-sociale capitalista, con un reggimento politico autocratico, autoritario, fortemente repressivo di ogni forma di dissenso, con tratti mafiosi.

La guerra fra Russia e Ucraina non è dunque una guerra fra sistemi economico-sociali ideologicamente contrapposti: le classi sociali che tramite il proprio personale politico li governano appartengono, nell’uno e nell’altro caso, ai detentori del capitale; cambiano le forme della politica, non le caratteristiche economiche e sociali e la natura del potere. Sullo sfondo più grande, la contesa è il conflitto fra l’imperialismo Usa e atlantico e il sub-imperialismo russo.

 Francis Fukuiama

 E’ appena il caso di ricordare che Francis Fukuyama, nel suo saggio politico La fine della storia e l'ultimo uomo, pubblicato nel 1992,  sosteneva che la diffusione delle democrazie liberali, del capitalismo e lo stile di vita occidentale in tutto il mondo avrebbe sancito la conclusione dello sviluppo socioculturale dell'umanità per divenire la forma definitiva di governo nel mondo, la fine delle guerre. In altri termini, la fine della storia, nel senso che il mondo aveva finalmente raggiunto la sua maturità.

Dimenticava, Fukuyama , che entrambi i due conflitti mondiali non sono stati altro che conflitti intercapitalistici. E di guerre, sia pure con caratteristiche regionali, ve ne sono state molte. Altro che mondo pacificato. Sino al conflitto attuale, carico di spaventose incognite.

 Se la società umana ha compiuto l’ultima tappa del suo cammino, perché esiste e addirittura si allarga la Nato?

Le installazioni militari all’estero – almeno ottocento, forse molte più – sono l’impronta della postura imperiale. La scelta di impiantarsi nel mondo deriva dalla necessità di controllare il mondo, in primo luogo attraverso imponenti presidi militari.

In geopolitica, non esiste niente di più americano delle basi militari degli Stati Uniti all’estero;

Si legge nella rivista Limes: “Le basi militari compongono una rete immensa e innumerata, ai quattro angoli del pianeta, dal Giappone all’Honduras, dalle sabbie arabiche ai ghiacci groenlandesi, dai verdi colli di Baviera e Palatinato al ceruleo atollo di Wake. Sono indeterminate come indeterminato è il limite geografico del primato a stelle e strisce – coincidente con il mondo stesso, in attesa del cosmo. Ripropongono il mito della frontiera, catapultata in Eurasia dopo aver soggiogato Nordamerica e Oceano Pacifico” .

E in Italia? Nel 2013 (non ho trovato dati più aggiornati) erano presenti sul territorio italiano 59 basi ed installazioni militari con personale statunitense (comprese quelle NATO), con circa 13.000 militari. Almeno 2 basi Nato stoccano bombe atomiche (40 fra Ghedi e Aviano) pronte per l’uso, da montare su aerei anch’essi di nuova generazione (gli F35, che stanno per sostituire i Tornado usati per bombardare Jugoslavia e Iraq).

La fola dell’alleanza difensiva

La Nato, sotto la giurisdizione Usa, ha condotto guerre d’attacco a paesi sovrani, dalla Jugoslavia all’Afghanistan). Quando qualche paese dell’Alleanza si è sottratto all’ingaggio, gli Usa hanno fatto la guerra in proprio, come in Iraq, creando le cosiddette “coalizioni dei volenterosi” alle quali l’Italia non si è mai sottratta.

La fine della guerra fredda

Il mutuo impegno alla sicurezza reciproca e l’assicurazione che non vi sarebbe stata nessuna espansione della Nato ad est si è tradotto nel suo contrario. La guerra è continuata a “bassa intensità”, ma è continuata: la Nato recluta altri 15 paesi ad est.

“Fermare la guerra con la guerra”

Ovvero, la falsa coscienza di tutti i guerrafondai, i pacifisti con il pelo del lupo sotto il manto dell’agnello.

Coloro che vogliono inviare armi all’Ucraina nel nome del diritto alla resistenza hanno già messo a preventivo l’allargamento della guerra.

Coloro che vogliono aprire vaso di Pandora sono come gli apprendisti stregoni che evocano forze che non sono in grado di controllare.

In casa nostra, da Mario Draghi a Enrico Letta, da Flores d’Arcais a Furio Colombo.

Tutti sottaciono che l’allargamento del conflitto alla Nato porterebbe dritto alla terza guerra mondiale, una guerra senza esclusione di colpi, fra potenze che dispongono dell’arma nucleare.

Quando Zelensky chiede l’intervento della Nato e la creazione di una no-fly zone sui cieli croati mette in conto anche questo.

 La russofobia come preparazione alla guerra totale: il male assoluto

Quando all’università Bicocca si blocca una lezione su Dostoiewskij, quando alla Scala si annulla un concerto con musiche di Čajkovskij, quando ad una soprano russa viene impedito di esibirsi in un teatro marchigiano, quando alla fiera dell’editoria per l’infanzia di Bologna si esclude il padiglione russo, quando, agli atleti russi viene impedito di gareggiare nelle paralimpiadi, quando si trasformano tennisti russi in apolidi perché accanto al loro nome viene tolta la bandiera della loro nazione, quando, inoltrandosi a piè pari nel ridicolo, si escludono dalle mostre feline i gatti di origine russa, si compie in realtà un’operazione criminale: si crea una disposizione d’animo, una propensione a considerare che il mondo si divide in due parti: i buoni e i cattivi. Da una parte il Bene, dall’altra il Male assoluto. Che come tale deve essere distrutto. Questo nel tentativo sciagurato di inoculare nella testa delle persone l’idea che l’unica soluzione è la guerra totale. Il tambureggiamento è in costante crescendo. Gli Stranamore di entrambe le parti lavorano incessantemente.

A lato, due osservazioni

 La questione dell’autodeterminazione dei popoli

Vale a dire, il principio in base al quale i popoli hanno diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna) e di essere liberi da ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale (autodeterminazione esterna).

Come quasi tutto, nella politica di potenza, la geometria è variabile. Tutto dipende: se chi vuole autodeterminarsi è un amico, oppure un avversario. Per cui sacrosanta era, per l’Occidente, la liquidazione della Jugoslavia titoista: soffiare sui nazionalismi sloveni e Croati, sino ad alimentare la guerra fratricida serviva alla bisogna. L’autonomia del Donbas invece no, e dunque era necessario armare la mano di Kiev e istruire/foraggiare le formazioni neo-naziste che insieme all’esercito ucraino hanno per 8 anni fatto la guerra a quelle regioni. Neppure ai Curdi - circa 30 milioni, fra Turchia, Iran, Iraq, Siria e Russia, più coloro che vivono nella diaspora (solo in Germania la colonia curda ammonta a 400mila persone) – viene riconosciuto il diritto all’autodeterminazione. I curdi (che da soli hanno combattuto l’Isis, che conservano da sempre un tradizionale atteggiamento di tolleranza e che rappresentano un modello di democrazia partecipata unico nel medio-oriente) vivono in una condizione di violenta oppressione, in particolare da parte della Turchia, che sta applicando contro di loro una politica programmata di distruzione. Ma per l’Occidente il problema non esiste. Lo stesso vale, sull’altro fronte, per la Cecenia, la cui rivendicazione di indipendenza è sta pagata con  la distruzione quasi completa di Groznyj dopo aspri combattimenti per  riportare la Cecenia sotto il controllo della federazione Russa.  Per non parlare della Palestina, dove - malgrado la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 23 dicembre 2016, adottata con 14 voti a favore su 15, preveda che Israele debba porre fine alla sua politica di insediamenti nei territori palestinesi dal 1967, inclusa Gerusalemme Est - non accade assolutamente nulla. L’occupazione continua, senza che Israele sia colpito da sanzioni, impedite dal veto Usa e vassalli al seguito.

Lo pseudo-giornalismo “embedded”

Oggi stiamo assistendo ad un crescendo rossiniano di propaganda bellica che manipola/deforma la verità.

Siamo arrivati al punto - davvero inedito per le proporzioni della menzogna propinata – che il servizio pubblico della Rai ha inanellato una quantità industriale di fake news. Come il Tg2, che è arrivato a mettere in onda un filmato che avrebbe dovuto documentare i bombardamenti russi sulle città ucraine, ma si trattava di un video-gioco; oppure come il Tg1, che è riuscito a mostrare la scalinata di Odessa (quella nella quale si consumò la strage zarista immortalata dal film di Sergej Ėjzenštejn nel film La corazzata Potemkin) spacciandola per una manifestazione repressa dai Bolscevichi nel 1905. Poi Ma, più in generale, è scomparso il giornalismo, vale a dire il racconto, senza inferenze e partigianerie, di ciò che accade.

L’invito sempre più pressante di tutto l’establishment europeo ad indossare l’elmetto coinvolge pressoché tutta la stampa, arruolata nella guerra della disinformazione. Chi si sottrae a questo imperativo viene tacciato di “tradimento in faccia al nemico” e trattato come tale.

Mario Sechi, direttore responsabile dell'Agenzia Giornalistica Italia, non certo di simpatie verso la sinistra, ha svolto, per l’emittente televisiva Rai-news 24, un’autentica lezione di giornalismo, cominciando dal denunciare la pessima inclinazione di tanti sedicenti giornalisti a non verificare le notizie che vengono passate come verità. Sechi ha spiegato che la disposizione da lui tassativamente imposta ai propri giornalisti è quella di pubblicare solo ed unicamente le notizie di cui si abbia certa e documentata sicurezza: “Ove permane un dubbio – continua Sechi – non si pubblica”. Il direttore dell’Agi ha fatto un esempio molto preciso. Ad un certo punto è stata diffusa la notizia che le truppe Russe avevano bombardato per ore la centrale nucleare di Chernobyl. Zelenskij aveva aggiunto “per ore”. Nelle 24 ore successive tutti i media occidentali hanno parlato di rischio di ecatombe nucleare provocata dai Russi. Ma un’indagine più seria, condotta da Sechi medesimo, evidenziava che nel perimetro della base era avvenuto solo uno scambio a fuoco con armi leggere senza alcuna conseguenza. A rassicurare il mondo ci ha poi pensato l'Agenzia per la sicurezza nucleare.

Sechi continuava criticando severamente la decisione del governo italiano di ritirare tutti i giornalisti presenti in Russia: “Chi racconterà cosa lì sta succedendo? Lo si farà attraverso le veline o con pseudo-informazioni di terza mano? (…) il vero giornalismo si fa stando sul campo, non fuggendo via (…) Poi ci sarà sempre spazio per un’informazione adulterata, ma dal Vietnam in avanti giornalisti che hanno fatto con scrupolo il proprio mestiere ci hanno consentito di conoscere le verità che le parti in causa avevano interesse a nascondere”.

Tutto il contrario di quanto, ad esempio, successe nelle guerra in Iraq nel 2003 quando Monica Maggioni, oggi direttrice della Rai, fu l’unica giornalista italiana “embedded” in Iraq, cioè aggregata all’esercito statunitense durante la seconda Guerra del Golfo. Per tre mesi Maggioni ha vissuto con i militari americani durante l’avanzata di terra dal Kuwait verso la capitale irachena. Da lì faceva le sue corrispondenze: un luminoso esempio di giornalismo-propaganda.

Se è stato possibile conoscere le violazioni dei diritti umani commesse contro detenuti nella prigione di Abu Ghraib in Iraq da parte di personale dell'Esercito degli Stati Uniti e della Central Intelligence Agency durante gli eventi della guerra in Iraq del marzo 2003, ciò è stato possibile grazie all’investigazione promossa da fonti indipendenti. Le “violazioni” scoperte  inclusero abusi fisici e sessuali, torture, stupri, sodomizzazioni e omicidi. Gli abusi giunsero all'attenzione generale con la pubblicazione di fotografie delle violenze su CBS News nell'aprile del 2004. Gli episodi ricevettero una condanna generale sia negli USA che all'estero, benché i soldati ricevessero sostegno da alcuni media conservatori negli USA. L'amministrazione George W. Bush cercò di dipingere gli abusi come incidenti isolati, non indicativi di una politica generale degli USA. Ciò venne però contraddetto da organizzazioni umanitarie come Croce Rossa, Amnesty International e Human Rights Watch. Dopo diverse investigazioni, queste organizzazioni stabilirono che gli abusi di Abu Ghraib non furono affatto incidenti isolati ma parte di un vasto piano di torture e trattamenti brutalizzanti presso centri di detenzione americani all'estero, compresi quelli in Iraq, Afghanistan e Guantanamo. E furono trovate prove che l'autorizzazione alle torture veniva da molto in alto nelle gerarchie militari e addirittura alcune deposizioni sostennero che alcune erano state autorizzate dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld.

O come a My Lai, nel Vietnam del Sud, il 16 marzo 1968. Per la Compagnia Charlie dell'esercito USA avrebbe dovuto essere una normale operazione militare, ma quattro ore dopo diventò una carneficina di civili inermi. Lungo le strade del piccolo villaggio, centinaia di corpi di uomini, donne e bambini giacevano senza vita. Furono trucidati dagli uomini del capitano Ernest Medina. Incredibilmente, nonostante i rapporti di alcuni testimoni oculari, la strage venne occultata dai vertici dell'esercito. Ci volle più di un anno prima che un reduce riuscisse a far ascoltare la propria voce e, con l'aiuto dell'autore, a denunciare un crimine di guerra che porterà davanti alla Corte Marziale il capitano e alcuni degli uomini che parteciparono alla carneficina.

Ora, le immagini reiterate dei bombardamenti in Ucraina suscitano, giustamente, il nostro orrore, come quelle dei civili e dei bambini morti. Quanti sono? Si intenda bene: anche uno solo è di troppo. Ma vorremmo ugualmente avere contezza dei dati reali del disastro. E le parole che si usano devono avere un senso preciso.

Quando si parla disinvoltamente di genocidio, o di bombardamenti “a tappeto”, bisogna ricordare Guernica, Dresda, dove le città sono state rase al suolo e la popolazione sterminata. Altrimenti, ancora una volta, si perde il senso delle proporzioni. E della realtà.



lunedì 7 marzo 2022

La russofobia, il male assoluto e la guerra "totale


 


Dopo gli interventi che mi hanno preceduto vorrei affrontare il tema, apparentemente minore, degli effetti, collaterali della guerra. O, per meglio dire, della guerra condotta con altri mezzi non meno letali.

Diamo un’occhiata a quello che sta accadendo.

 

La rettora dell’università Bicocca sospende il corso di Paolo Nori su Fëdor Dostoevskij, patrimonio della letteratura universale, in quanto russo, per poi riammetterlo a condizione che si parli anche di autori ucraini; a Londra, alla London Book Fair 2022, non ci sarà un padiglione russo; lo stesso alla Buchmesse, la fiera di Francoforte. Così tutte le grandi fiere annunciano il bando degli autori russi.

 

Lo stesso accade al festival dell’editoria per bambini di Bologna, la manifestazione più importante nel mondo per la letteratura dell’infanzia, da cui è stato escluso il padiglione di Mosca.

 

“Boicottaggio totale dei libri russi nel mondo!” si intitola un appello lanciato dallo Ukrainian Book Institute, dal Lviv International Book Forum, in cui si legge fra l’altro che la propaganda russa “è intessuta in molti libri e anzi li trasforma in armi e pretesti per la guerra”.

 

In un colpo solo, si spazza via la convinzione che “un libro non deve conoscere confini, che non è un’arma di distruzione, ma uno strumento per la conoscenza”.

 

Dice Leonardo Fredduzzi, vicedirettore dell’Istituto di lingua e letteratura russa, che ha sede a Roma: “Ci sono arrivati messaggi d’odio, ci hanno scritto che la lingua russa è morta, che tutta la cultura russa esprime sopraffazione, anche i grandi classici”.

Così, il maestro Valery Gergiev viene licenziato dalla Filarmonica di Monaco e anche La Scala sospende la rappresentazione della 'La dama di picche' di Pëtr Il'ič Čajkovskij.

Un effetto domino inarrestabile colpisce anche la  soprano russa Anna Netrebko, che non calcherà il palco del Piermarini di Matelica, nelle Marche;

La stessa cosa accade nello sport, un altro luogo dell’universalismo e della fratellanza fra i popoli

C’è la vergognosa esclusione degli atleti russi e bielorussi dalle Paralimpiadi, dopo la pusillanime retromarcia di Andrew Parsons, Presidente del Comitato Paralimpico Internazionale che prima aveva detto: “Gli atleti che sono nati in quella nazione, non sono gli aggressori. Penso che dobbiamo trattarli con lo stesso rispetto degli atleti di qualsiasi altra nazione che si sono guadagnati la qualificazione”.

Sono colpiti tennisti russi, improvvisamente fatti diventare apolidi, perché la bandiera russa non deve comparire accanto al loro nome;

Qualche atleta decide di non scendere in campo, sul ring o in pista, con un atleta russo o russa solo perché russo o russa – magari anche anti-putiniani o anti-putiniana.

Una strategia quasi bellica, perché in guerra, appunto, tutto diventa lecito.

Ascoltate la riflessione di un noto giornalista sportivo, Mario Sconcerti, che dice “Mi piacerebbe essere contro l’invasione dell’Ucraina pensando sempre e soltanto con i miei consueti canoni di giudizio, senza portare la mente all’ammasso. Se ho un amico russo, che faccio? Non devo vederlo più? E perché, perché è russo? Questa è discriminazione, non lotta democratica. Cerchiamo di distinguere tra le persone e le cose, anche adesso che il mondo ci sta sfuggendo di mano”.

La Russofobia viene metodicamente coltivata

Si ribella persino un giornalista de Il Mattino e de Il Messaggero come Marco Ciriello che afferma: “Ho sempre detestato Putin, fin dall’inizio, l’invasione russa mi ripugna, eppure sono stanco di doverlo specificare per avere il diritto di sviluppare un ragionamento. Ragionamento che riguarda persino la specificità dello sport, “in questo clima maccartista”, in cui “appena provi ad articolare un pensiero sulla Russia diventi filo-putiniano”: bisogna aderire, stare con l’Ucraina, scrivere le poesie sull’Ucraina, mettere cuori e bandiere. Io sono sciasciano, come sono tolstojano e salgariano e molte altre cose, e mi viene difficile aderire pure ai club, come all’imperialismo – sia della Nato che della Russia».

Ciriello prosegue sui provvedimenti presi dalle Federazioni sportive, tesi a cancellare l’altro, a farlo scomparire in una sorta di ostracismo misto a damnatio memoriae. E pone anche il tema del ruolo dello sport che - dice - “dovrebbe rimanere uno spazio “altro” dove si continua a provare il dialogo, dove il verbo è giocare, anche in luogo del più acceso lottare. Dove gli atleti sono come gli ambasciatori e le squadre e le federazioni sportive sono ambasciate. E che il paese che è andato a giocare e vincere una Davis in Cile non trovi voci a levarsi in difesa del mondo dello sport russo, è vigliacco prima che stupido”.

Invece, mentre le bombe cadono, i patiboli si moltiplicano. E non sappiamo se nella carneficina qualcuno si salverà. Perché quando tu costruisci un paradigma infame per cui tu sei il bene e l’altro il male assoluto vuol dire che ti stai già preparando psicologicamente ad assumere un abito mentale propenso a giustificare la guerra totale, la guerra di annientamento. E vale la pena di ricordarlo qui, davanti ad una base militare che ospita ordigni nucleari pronti all’uso sui quali noi, il popolo italiano, non abbiamo alcuna giurisdizione, perché altri hanno il dito sul grilletto.

Bisogna sapere o meglio, riscoprire, che quando si scoperchia il vaso di pandora diventa impossibile ricacciarvi dentro i mostri che ne sono usciti. E allora, finché c’è tempo, bisogna fare l’esatto contrario: riaprire le menti e riguadagnare la fondamentale verità che questa guerra, sporca come ogni altra, non può essere vinta da nessuno, ma la si può solo perdere.

“L’Italia ripudia la guerra” sta scritto nella Costituzione antibellicista sorta sulle macerie della fino ad ora più grande guerra di sterminio che l’umanità abbia conosciuto. Ma nel momento in cui si decide di inviare armi a un paese belligerante è ovvio che si entra a far parte dei paesi in guerra. Allora è tempo di insorgere contro tutto il ciarpame ipocrita e sostanzialmente guerrafondaio nel quale siamo immersi.

Voglio concludere con le parole con le quali Tonio Dall’Olio, direttore della rivista Mosaico di pace risponde a quanti oggi trepidano perché ci si metta l’elmetto in testa per andare alla guerra:

“Sì, diserto. Dalla scelta governativa di dire che la guerra è sbagliata e, per questo si combatte la guerra con la guerra. Diserto dall’accoglienza selettiva di persone che scappano dalla fame della guerra e dalla guerra della fame quasi a indicare che il luogo di provenienza faccia la differenza. Sì, da questo razzismo non dichiarato ma praticato – eccome! – diserto. Diserto dall’annegamento nelle informazioni di un solo conflitto mentre si condannano al silenzio le guerre dei poveri. Diserto la dislessia che pare affliggere alcuni cristiani di fronte alle pagine del Vangelo che parlano di amore dei nemici, di spade da rimettere nel fodero e di “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. Diserto la retorica di certe manifestazioni che scelgono di non disturbare il manovratore, di dire e non dire, di applaudire il Papa scegliendo di fare esattamente il contrario e di essere buoni per tutte le stagioni. Diserto dall’arruolamento obbligatorio nel partito del realismo presunto che condanna ogni azzardo fuori dal perimetro del perbenismo. Diserto la logica dell’applauso prima di tutto, del consenso a tutti i costi, del comandamento di non compromettere la carriera. Diserto, e per questo so di essere condannato con i senzapotere all’infamia delle pecore nere o delle mosche bianche mentre sono gli altri a rinnegare i colori dell’arcobaleno”.