Dobbiamo avere chiara
percezione che siamo ad uno snodo decisivo della storia della nostra
democrazia.
Siamo cioè in prossimità di
una soglia oltrepassata la quale si spalanca la strada di una profonda e
probabilmente irreversibile degenerazione dell’architettura istituzionale
inscritta nella Costituzione repubblicana.
Il coordinato disposto fra la legge elettorale (il
cosiddetto “italicum”) e la riforma del Senato rappresentano infatti un “uno-due”
micidiale che se non sventato provocherà una inaudita concentrazione del potere
nelle mani dell’esecutivo, in dimensioni e caratteristiche non rintracciabili
in nessuna democrazia occidentale.
Da una parte,
La legge elettorale già approvata e che è in vigore dal 1° luglio di
quest’anno, il sistema elettorale maggioritario a doppio turno, parente stretto
del suo archetipo (il Porcellum) che nel caso in cui nessuno superi la soglia
del 40%, soglia che consentirebbe di accaparrarsi il premio di maggioranza,
prevede il ballottaggio fra le due
liste che avranno ottenuto un numero maggiore di voti. Lì il quorum sparisce, per ragioni evidenti, essendo solo due le
forze contendenti.
Ciò comporta che la lista
(vale a dire il partito) che otterrà un solo voto in più dell’altra potrà
contare sulla maggioranza assoluta dei seggi e assumerà il controllo totale del parlamento, ridotto ad una funzione
ornamentale nei confronti del governo, vera sede della decisione politica.
Il fondamentale principio
della rappresentanza, in base al quale il voto dei cittadini ha un eguale peso,
viene totalmente stravolto.
Più precisamente, una
minoranza assoluta, diciamo una forza che, verosimilmente, guardando alla
consistenza delle forze politiche in campo, può contare su un 25%-30% dei voti
validi, con un’affluenza alle urne prossima al 60%, può intestarsi tutto il
potere: con un peso del 20% del
potenziale corpo elettorale ci si mangia il paese. Ovviamente, nel nome
della governabilità.
E come è composto quel
parlamento? In questo modo: ci sono 100 collegi elettorali; in ognuno di essi
ogni forza politica designa un capolista di liste corte. Costui sarà eletto in
ogni caso, anche se non prendesse neppure una preferenza. Il capolista può essere
proposto in altri 10 collegi. Poi, a schede scrutinate, opterà per uno dei
collegi in cui si è presentato, determinando l’elezione automatica del secondo
in lista. Il risultato è che una cospicua parte degli eletti, superiore alla
metà del totale, prescinderà dal voto degli elettori. Un altro capolavoro
democratico di questa geniale architettura!
La Corte costituzionale, come già per il “Porcellum”
di calderoliana memoria, dovrà pronunciarsi anche sulla legittimità
costituzionale dell’Italicum contro il
quale sono state sollevate ben 12 eccezioni di incostituzionalità. Anzi,
avrebbe dovuto già farlo, lo scorso 4 ottobre. Ma inopinatamente ha deciso di
rinviare il responso “per non influire – così si è detto – sulla contesa
referendaria imminente”, cosa piuttosto strana perché la Consulta dovrebbe
essere per definizione impermeabile a qualsiasi vicenda che si svolge nell’agone
politico.
Osservo, di passaggio, che all’origine Renzi pensava
che il premio di maggioranza dovesse essere riconosciuto alla coalizione. Poi
arrivarono le elezioni europee con lo
strabiliante 41% ottenuto dal Pd.
Questa performance ingolosisce Renzi e lo induce a trasferire il premio sulla lista, cioè
sul partito.
Con un disegno preciso: il premier, cioè lui stesso, si fa il
governo da solo, domina il parlamento attraverso il partito di cui lui stesso è
il segretario, anzi attraverso la maggioranza di quel partito, anzi attraverso
la ristretta corte che gli è avvinta. Un capolavoro!
Poi, però, il vento cambia, le tornate amministrative segnano una seria battuta
d’arresto del Pd e Renzi capisce che sta fortemente rischiando di scuotere la
pianta e che siano altri a raccoglierne i frutti. In sostanza, l’astuto premier
capisce che rischia di restare vittima delle proprie macchinazioni. E allora – nuova acrobazia – torna sui
suoi passi e comincia a spiegare che la legge elettorale, giudicata sino a quel
momento immodificabile, potrebbe cambiare.
“Che problema c’è”, dice. “Intanto approviamo la riforma costituzionale, poi vedremo”.
Se questo paese avesse
sufficiente memoria di sé e della propria storia non ci sarebbe spazio per
questi volgari imbrogli.
O forse basterebbe ricordare
l’insegnamento di Collodi, che raccontava di come la volpe e il gatto
turlupinarono Pinocchio convincendolo a seppellire le sue monete d’oro nel
campo dei miracoli, dove di lì a poco sarebbe sorto un albero colmo di zecchini
d’oro.
Si sa come finì.
La sinistra interna non
abbocca, almeno al momento. Berlusconi invece capisce al volo, interessato
com’è ad un premio di maggioranza attribuito alla coalizione, che è il solo
modo di tenere insieme le maglie sfilacciate del centrodestra. Così partono
sotto traccia le trattative e credo che di qui al voto ne vedremo delle belle.
Spesso si usa dire che siamo di fronte ad una deriva
presidenzialista, per metterne in luce il carattere autoritario.
Ma si tratta in realtà di una definizione ancora
riduttiva. Perché le repubbliche presidenziali
alle quali si fa di solito riferimento (due fra tutte: quella statunitense e
quella francese) prevedono pur sempre un bilanciamento dei poteri: il
presidente non è onnipotente. Obama è il potente presidente Usa, ma ha di
fronte una Camera e un Senato repubblicani.
Quanto alla Germania, dove si
vota con il proporzionale, Angela Merkel sta governando i forza del 43% dei
voti, ma non sono stati sufficienti perché, per governare, lì serve la
maggioranza assoluta.
Il progetto costruito da Renzi prevede invece che al vincitore,
benché lontanissimo dalla maggioranza assoluta, sia consegnato tutto: il governo, il parlamento, la possibilità di
ipotecare l’elezione del presidente della Repubblica, la Corte costituzionale,
il Consiglio superiore della magistratura.
In un colpo solo, con l’Italicum, si elegge il premier
e il parlamento, cosa che non esiste
in nessuna democrazia del mondo.
La divisione dei poteri (legislativo,
esecutivo, giudiziario) contrassegno della democrazia ineludibile viene nei
fatti dissolto.
Di più: un potere come quello che verrebbe ad
instaurarsi consentirebbe di legittimare l’occupazione di tutti i gangli del
potere da parte di un partito solo.
Si pensi alle nomine delle
presidenze degli enti di Stato. Si pensi alla Tv e al ruolo fondamentale di
manipolazione dell’opinione pubblica che attraverso di essa si può esercitare.
Il potere che attraverso
queste riforme si instaura è un potere che tenta di creare le condizioni
preventive per conservarsi e diventare tendenzialmente totalitario.
Come ha efficacemente
spiegato Alessandro Pace, il modello è piuttosto quello di un principato.
Precisamente: “Un blocco di
potere affaristico-finanziario con propaggini piduistiche che grazie ad una
legislazione elettorale drogata potrebbe confiscare tutto il potere per anni
con il favore di una minoranza di elettori”. Non si poteva dire meglio!
Non deve sorprendere il consenso
che questo progetto riscuote nei cosiddetti poteri forti.
C’è una logica ferrea in tutto ciò. I sostenitori del
“sì” hanno un profilo che non lascia spazio ad equivoci:
c’è la banche d’affari
Goldman Sachs, famosa per avere frodato i propri risparmiatori con la vendita
di titoli tossici subprime, c’è la Morgan Stanley, croce di tanti azionisti
messi sul lastrico dal false informazioni sullo stato dell’azienda, è la più
grande società finanziaria del mondo, la Citigroup, c’è quella Banca Morgan che
raccomandava di liquidare le costituzioni antifasciste perché troppo intrise di
socialismo. Troviamo sempre fra i sostenitori del “sì” George Soros, il re di
tutti gli speculatori globali e il commissario europeo Pierre Moscovici,
coprotagonista di tutte le politiche di austerità che stanno devastando la vita
e il futuro di milioni di europei. Troviamo il settimanale iperliberista
anglosassone Economist, né poteva mancare la nostra Confindustria. E per finire
in gloria, John Phillips, l’ambasciatore americano in Italia, che ha posto il
sigillo finale all’allegra brigata di lestofanti.
Ebbene lor signori – siatene
certi – non sbagliano mai. Sono quelli che con una formula riassuntiva possiamo
definire i “padroni universali”, con la testa costantemente immersa nella
greppia. Loro sanno sempre da che parte stare e come mungere il gregge. La
democrazia, la sovranità popolare, la giustizia sociale sono abiti troppo
stretti per loro. Hanno solo bisogno di maggiordomi che reggano loro il gioco.
Renzi è per loro l’uomo giusto al posto giusto.
Persino Obama si è buttato
nella mischia e ha voluto offrire il suo “disinteressato” endorsement alla riforma renziana che, detto per inciso, prefigura
un modello istituzionale che è l’opposto diametrale di quello americano.
Un’invasione di campo – quella di Obama– che rinnova e conferma la storica
sudditanza del nostro paese nei confronti del potente alleato.
Oggi Renzi spaccia la moneta
falsa secondo cui lo scontro sarebbe fra modernità e conservazione, fra
innovazione e nostalgia per le liturgie paralizzanti e consociative della prima
repubblica.
Ma sentite
cosa scriveva il Pd nella sua Carta dei valori del 2008, anch’essa rottamata
dal caudillo di Rignano:
“La
sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della
Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del
momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri.
Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della
Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle
riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le
necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale. La
Costituzione può e deve essere aggiornata, nel solco dell’esperienza delle
grandi democrazie europee, con riforme condivise, coerenti con i princìpi e i
valori della Carta del 1948, confermati a larga maggioranza dal referendum del
2006”.
Poi c’è la legge costituzionale, che completa e rende organico il disegno politico con
la trasformazione della funzione del Senato.
· E’ vero che
viene superato il bicameralismo perfetto? No, perché sopravvivono almeno una mezza dozzina di materie dove la
procedura bicamerale rimane.
· Ma è poi vero che il bicameralismo fa perdere
tempo e nuoce alla “governabilità”? No!
Due Camere rendono più solido e accurato l’esito legislativo; due camere
lavorano in parallelo ed esaminano nel medesimo tempo pdl diverse evitando
l’ingolfamento.
· E’ vero che
si procede come nelle principali democrazie? No! Si citano a sproposito la Germania e gli Usa. Ma nella Germania
(che è uno Stato federale) esiste una vera camera dei Lander, i quali hanno
consistenti e chiare sfere di autonomia: il Bundesrat, nel quale i governi
regionali nominano da 3 a 6 rappresentanti con vincolo di mandato. E quando il
procedimento legislativo coinvolge gli interessi dei lander questo è
perfettamente bicamerale. Al contrario,
nella riforma costituzionale, il quarto comma del nuovo articolo 117 contiene
invece la cosiddetta “Clausola di supremazia”, la quale comporta che anche
su materie di interesse regionale sulle quali il nuovo Senato si fosse espresso
a maggioranza, la Camera può avocare a sé il responso finale e bocciarle con un
voto di maggioranza determinando un fortissimo accentramento decisionale.
Dunque il nuovo Senato, definito Camera delle autonomie locali, la cui funzione
sarebbe appunto quella di dare voce alle istanze regionali in realtà non conta
nulla.
· Quanto agli
Usa, altra confederazione di Stati, è noto che lì il procedimento legislativo è
perfettamente bicamerale. Di più: nel
Senato, composto di 100 senatori (2 per Stato) per approvare una legge non
basta la maggioranza assoluta, occorre la maggioranza qualificata di 60. Se
questa non c’è si continua a discutere.
· E’ vero che
in Italia c’è un grave ritardo nella produzione legislativa e che occorre una
semplificazione del processo decisionale per cui il governo non riuscirebbe a
governare? In realtà, già oggi c’è un
contingentamento dei tempi di discussione ma, soprattutto, l’approvazione delle
leggi promosse per iniziativa dell’esecutivo sono state dell’80% con
Berlusconi, del 68% con Monti, dell’89% con Letta, dell’82% con Renzi che nei
primi 21 mesi ha fatto approvare 102 leggi. I tempi medi sono stati 109 giorni.
· E’ vero che
si riducono i costi della politica? No!
A parte l’incredibile idiozia (o totale assenza di cultura politica) di
trattare la democrazia, la Costituzione come se fosse un centro di costo, resta
il fatto che neppure i presunti risparmi sono reali (i già risibili 540 milioni
sbandierati dal governo). La ragioneria dello Stato ha corretto i conti fasulli
del governo e ha chiarito che il risparmio dopo la riforma ammonterà a meno di
50 milioni, 0,80 centesimi l’hanno per cittadino.
· E cosa dire
del meccanismo di formazione del Senato se non che è un esempio di rara follia: esso sarà formato da 21 sindaci, 74 consiglieri
regionali e 5 senatori a vita nominati dal presidente della Repubblica. La
nuova norma stabilisce che questi siano scelti dalle Regioni in conformità con
il voto degli elettori, palese contraddizione in termini. Quello che è già
chiaro è che essi saranno individuati dai partiti e poiché è stata loro
riconosciuta l’immunità parlamentare
è facile intuire quale non troppo nobile mercanteggiamento si verificherà per
accaparrarsi quel ruolo.
· Si tratterà di dopolavoristi, che svolgeranno a giorni
alterni le loro duplici funzioni: quando
fanno i senatori non potranno farei consiglieri regionali e viceversa. O
forse non faranno nessuna delle due cose. Lo stesso vale per i sindaci. E
poiché è previsto che essi decadano da senatori quando non fossero più
consiglieri regionali (o sindaci), ciò che accade molto spesso a seguito di
scioglimento dei consigli comunali o regionali, essi saranno sostituiti dai
nuovi arrivati in un sistema di sliding doors istituzionale. Ci
vuole una mente perversa per immaginare un guazzabuglio di simili proporzioni.
Tutta questa poderosa
macchinazione – non lo si dimentichi – ad opera di senatori e deputati eletti
(in realtà nominati) grazie ad una legge
elettorale che la Consulta ha dichiarato incostituzionale:
in definitiva, la
liquidazione della Costituzione per mano di un potere illegittimo.
Ognuno può capire – anche in
ragione dell’esperienza che si è già consumata – a quali scopi serva questa
curvatura autoritaria, questo imbavagliamento della democrazia rappresentativa.
Ebbene, serve a completare la svolta reazionaria che
ha già fatto franare masse di detriti sui precetti e sui contenuti socialmente
più avanzati della Costituzione:
diritto al lavoro, alla salute, alla previdenza, all’istruzione, trasformati da
diritti che lo Stato deve garantire a merci che si acquistano sul mercato.
L’espropriazione dei beni
comuni, la privatizzazione dei servizi sociali, la progressiva spoliazione del
welfare – in perfetta armonia con i dogmi liberisti che l’Italia ha condiviso
con l’Ue, con la Bce e col Fmi – non sono altro che il progetto politico che le
classi dominanti vogliono imporre a tappe forzate.
La liquidazione della
Costituzione è il passaggio obbligato per raggiungere questo obiettivo.
E il governo Renzi ne è
l’esecutore testamentario.
A sostegno di questa poderosa
manomissione si invoca il concetto di “governabilità”, un vero mantra nelle
argomentazioni dei nostri presunti modernizzatori.
Un concetto tuttavia del
tutto estraneo al costituzionalismo occidentale, ma che tanto favore riscuote
in un’opinione pubblica disinformata, obnubilata e addomesticata da un
martellante bombardamento mediatico.
La tesi che si vuole fare
passare è che la democrazia è un ingombro che paralizza la decisione e condanna
all’immobilismo.
Quante volte abbiamo sentito
dire: “lasciamoli governare; poi, fra tot anni, quando si tornerà a votare, li
si potrà punire o premiare per ciò che hanno o non hanno fatto”.
Come se la democrazia (e, a
ben vedere, il compito stesso dei cittadini e dei corpi sociali intermedi) si potesse
ridurre a porre una volta tanto la scheda in un’urna per poi consegnare tutto
nelle mani del vincitore, fino al turno elettorale successivo.
A pensarci bene e a seguire
la vulgata, il massimo della governabilità consisterebbe nella dittatura che
spazza via qualsiasi intralcio e affida tutto all’uomo della provvidenza.
Vent’anni di
spoliticizzazione di massa, coltivata con tenacia dal potere costituito, hanno
prodotto questo: anomia, individualismo, passivizzazione.
Parafrasando la battuta di un famoso film di
fantascienza: “E’ così che muore la democrazia: fra scroscianti applausi”.
Poi Renzi ha provato ad
inquinare i pozzi.
Ha detto: “Se perdo mi ritiro dalla politica”.
Un gesto presentato come un
atto di umiltà.
E in realtà un gesto di
estrema arroganza e superbia.
Un gesto che provava a
togliere di mezzo l’oggetto reale del confronto, il merito della questione
sottoposta al giudizio degli italiani, con l’obiettivo di trasformare la
consultazione in un plebiscito.
E’ come se Renzi avesse
esteso l’istituto della fiducia (largamente abusato nel parlamento) all’intero
corpo elettorale: “O con me o contro di me; o a me tutto il potere – senza se e
senza ma, come si usa dire oggi – oppure me ne vado”.
Poi, vista la mala parata e
l’incertezza circa l’esito, l’uomo ha fatto una delle sue frequenti capriole e
ha spiegato che quale che sia il responso delle urne lui resterà comunque in
sella.
Negli ultimi giorni abbiamo visto
circolare in rete il facsimile del quesito referendario... ma era talmente
paradossale da sembrare una bufala. Poi, quando Renzi lo ha mostrato nella
trasmissione serale di Lilly Gruber abbiamo scoperto che il quesito è davvero
quello.
Sentite cosa dice: “Approvate il testo della legge
costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo
paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi
di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del
Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e
pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?"
Per la prima volta
nella storia della Repubblica il quesito non si limita a citare l'articolo di
legge ed il relativo titolo, da approvare o respingere, ma, cosa inaudita, ne
propone un riassuntino tematico in forma
di spot, uno spot che durerà sino alla fine e che entrerà fin dentro le cabine
elettorali. L’elenco evidenzia infatti solo alcuni aspetti apparentemente
positivi, scelti come motivazioni di vendita accattivanti, non segnalando
niente che possa risultare negativo.
Non spiega, per
esempio, che il Senato rimane con importantissime funzioni, ma non potremo
più votare i senatori; si spinge poi ad invocare il “contenimento dei costi di
funzionamento delle istituzioni” come se la riforma deliberasse una generica e
diffusa riduzione della spesa per tutte le istituzioni.
Come nei regimi
totalitari, il quesito assume dunque la forma di una domanda retorica, che
induce a pensare che non possa esservi altra risposta che quella positiva.
Come qualche giorno
fa ricordava Dal Lungo: “Sarebbe un po’come chiedere ai cittadini se vogliono o
meno sopprimere una quota delle stazioni ferroviarie che servono il paese proponendo
nel quesito: “Volete superare la frammentazione degli arrivi e delle partenze,
orari complicati, troppe coincidenze ed il contenimento dei costi per
l’esercizio delle ferrovie?”.
Oppure, guardando al
referendum che 3 milioni di cittadini hanno ottenuto si svolga sul famigerato
Jobs act, sarebbe come se il titolo del quesito fosse concepito più o meno
così: “Vuoi che sia abrogata la legge che permette contratti di lavoro a tutele
crescenti, assunzioni a tempo indeterminato, combatte la precarietà e difende i
diritti dei lavoratori?”.
Ecco, questi sono i
mezzi poco puliti che un presidente del consiglio privo del più elementare
scrupolo democratico sta usando per manipolare l’opinione pubblica e fare
passare un disegno che spinge il paese verso il dispotismo plebiscitario.
Ci sentiamo
continuamente raccontare che questa
riforma è ciò che “gli italiani ci chiedono” (qualche illustre idiota dice,
addirittura, da 70 anni, cioè prima ancora che la Costituzione fosse promulgata…).
Ora, bisognerebbe smetterla di parlare a nome degli italiani: parlino per sé e
per quelli che sono d’accordo con loro.
Dicono anche – e
questa è un’altra falsificazione bella e buona – che l’impasse politico del
Paese dipende dalla farraginosità delle sue norme.
Ebbene, l’impasse politica di questo
Paese dipende dal fatto che la Costituzione, in tanta sua parte, non la si è
voluta applicare e oggi la si vorrebbe anche formalmente archiviare.
Noi, al contrario,
diciamo che la Costituzione non si cambia. E’ invece ora di applicarla. Proprio
per cambiare l’Italia. Per questo ci battiamo e ci batteremo.