martedì 25 ottobre 2016

Articolo 11

Il presidente degli Stati uniti d’America, Barack Obama, ha voluto esprimere il suo sostegno alla proposta renziana di cambiare la costituzione italiana.
Solo i malati di inguaribile servilismo possono non trasalire di fronte all’ennesimo, gravissimo episodio di ingerenza della più grande potenza mondiale nelle questioni che chiamano in gioco la sovranità del popolo italiano, nientemeno che sulla legge fondamentale del Paese.
Rovesciamo parti e contesto: cosa accadrebbe se il presidente della Repubblica italiana, o il presidente del consiglio, o anche soltanto l’ambasciatore italiano a Washington dovessero permettersi di criticare la Costituzione americana?
Nemmeno immaginabile, vero? Del resto, è nella fisiologia stessa del rapporto fra il padrone e il suo servo che quest’ultimo obbedisca senza discutere.
La relazione fra i due è asimmetrica: l’uno comanda e l’altro obbedisce, senza discutere.
Fra Italia e Stati uniti è sempre stato così.
Sin dal 1947, quando Alcide De Gasperi volò negli Usa e riscosse un assegno di 100 milioni di dollari in cambio dell’estromissione dei comunisti dal governo.
Lo stesso è accaduto in tutte le vicende cruciali della storia politica patria, dalla strategia della tensione, allo stragismo, al piduismo. Sempre, di dritto o di rovescio, è intervenuto lo zampone americano, con la politica o attraverso la mano occulta dei suoi servizi segreti.
Oggi la commedia si ripete.
Obama plaude allo smantellamento della Costituzione preteso da Renzi e si augura che il suo governo resti comunque in sella.
E non fa nulla se il contenuto della riforma renziana è l’esatto opposto del modello americano.
Perché là vige il bicameralismo perfetto e perché l’elezione del presidente non trascina con sé –automaticamente, come avverrebbe in Italia con l’Italicum – la formazione monocolore del parlamento. Là, in America, c’è il bilanciamento dei poteri, qui tutto il potere sarebbe concentrato nelle mani di un partito solo, di un uomo solo.
E allora, perché questo appoggio senza se e senza ma?
Semplice: in cambio dell’invio di truppe italiane in tutti i teatri di guerra ove gli Usa chiamino, direttamente o per il tramite della Nato; in cambio della permanenza sul territorio italiano delle basi militari statunitensi e delle armi nucleari stoccate nelle basi di Ghedi e di Aviano; in cambio della soppressione di fatto dell’articolo 11 della Costituzione che mette fuori legge l’uso della guerra come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Ringraziano anche le potenti lobbies dei produttori di armi, protette e blandite dal nostro governo, pronto a promuovere affari con chiunque e di qualunque colore paghi con moneta sonante.
Renzi chiede al popolo italiano di autorizzarlo a gestire un potere assoluto. Abbiamo già visto per fare cosa. Dirgli di no è ancora possibile.

domenica 23 ottobre 2016

La posta in gioco è la democrazia



                                   


Dobbiamo avere chiara percezione che siamo ad uno snodo decisivo della storia della nostra democrazia.

Siamo cioè in prossimità di una soglia oltrepassata la quale si spalanca la strada di una profonda e probabilmente irreversibile degenerazione dell’architettura istituzionale inscritta nella Costituzione repubblicana.

Il coordinato disposto fra la legge elettorale (il cosiddetto “italicum”) e la riforma del Senato rappresentano infatti un “uno-due” micidiale che se non sventato provocherà una inaudita concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo, in dimensioni e caratteristiche non rintracciabili in nessuna democrazia occidentale.

Da una parte, La legge elettorale già approvata e che è in vigore dal 1° luglio di quest’anno, il sistema elettorale maggioritario a doppio turno, parente stretto del suo archetipo (il Porcellum) che nel caso in cui nessuno superi la soglia del 40%, soglia che consentirebbe di accaparrarsi il premio di maggioranza, prevede il ballottaggio fra le due liste che avranno ottenuto un numero maggiore di voti. Lì il quorum sparisce, per ragioni evidenti, essendo solo due le forze contendenti.

Ciò comporta che la lista (vale a dire il partito) che otterrà un solo voto in più dell’altra potrà contare sulla maggioranza assoluta dei seggi e assumerà il controllo totale del parlamento, ridotto ad una funzione ornamentale nei confronti del governo, vera sede della decisione politica.
Il fondamentale principio della rappresentanza, in base al quale il voto dei cittadini ha un eguale peso, viene totalmente stravolto.

Più precisamente, una minoranza assoluta, diciamo una forza che, verosimilmente, guardando alla consistenza delle forze politiche in campo, può contare su un 25%-30% dei voti validi, con un’affluenza alle urne prossima al 60%, può intestarsi tutto il potere: con un peso del 20% del potenziale corpo elettorale ci si mangia il paese. Ovviamente, nel nome della governabilità.
E come è composto quel parlamento? In questo modo: ci sono 100 collegi elettorali; in ognuno di essi ogni forza politica designa un capolista di liste corte. Costui sarà eletto in ogni caso, anche se non prendesse neppure una preferenza. Il capolista può essere proposto in altri 10 collegi. Poi, a schede scrutinate, opterà per uno dei collegi in cui si è presentato, determinando l’elezione automatica del secondo in lista. Il risultato è che una cospicua parte degli eletti, superiore alla metà del totale, prescinderà dal voto degli elettori. Un altro capolavoro democratico di questa geniale architettura!

La Corte costituzionale, come già per il “Porcellum” di calderoliana memoria, dovrà pronunciarsi anche sulla legittimità costituzionale dell’Italicum contro il quale sono state sollevate ben 12 eccezioni di incostituzionalità. Anzi, avrebbe dovuto già farlo, lo scorso 4 ottobre. Ma inopinatamente ha deciso di rinviare il responso “per non influire – così si è detto – sulla contesa referendaria imminente”, cosa piuttosto strana perché la Consulta dovrebbe essere per definizione impermeabile a qualsiasi vicenda che si svolge nell’agone politico.

Osservo, di passaggio, che all’origine Renzi pensava che il premio di maggioranza dovesse essere riconosciuto alla coalizione. Poi arrivarono le elezioni europee con lo strabiliante 41% ottenuto dal Pd.
Questa performance ingolosisce Renzi e lo induce a trasferire il premio sulla lista, cioè sul partito.
Con un disegno preciso: il premier, cioè lui stesso, si fa il governo da solo, domina il parlamento attraverso il partito di cui lui stesso è il segretario, anzi attraverso la maggioranza di quel partito, anzi attraverso la ristretta corte che gli è avvinta. Un capolavoro!
Poi, però, il vento cambia, le tornate amministrative segnano una seria battuta d’arresto del Pd e Renzi capisce che sta fortemente rischiando di scuotere la pianta e che siano altri a raccoglierne i frutti. In sostanza, l’astuto premier capisce che rischia di restare vittima delle proprie macchinazioni. E allora – nuova acrobazia – torna sui suoi passi e comincia a spiegare che la legge elettorale, giudicata sino a quel momento immodificabile, potrebbe cambiare.
“Che problema c’è”, dice. “Intanto approviamo la riforma costituzionale, poi vedremo”.
Se questo paese avesse sufficiente memoria di sé e della propria storia non ci sarebbe spazio per questi volgari imbrogli.
O forse basterebbe ricordare l’insegnamento di Collodi, che raccontava di come la volpe e il gatto turlupinarono Pinocchio convincendolo a seppellire le sue monete d’oro nel campo dei miracoli, dove di lì a poco sarebbe sorto un albero colmo di zecchini d’oro.
Si sa come finì.
La sinistra interna non abbocca, almeno al momento. Berlusconi invece capisce al volo, interessato com’è ad un premio di maggioranza attribuito alla coalizione, che è il solo modo di tenere insieme le maglie sfilacciate del centrodestra. Così partono sotto traccia le trattative e credo che di qui al voto ne vedremo delle belle.

Spesso si usa dire che siamo di fronte ad una deriva presidenzialista, per metterne in luce il carattere autoritario.
Ma si tratta in realtà di una definizione ancora riduttiva. Perché le repubbliche presidenziali alle quali si fa di solito riferimento (due fra tutte: quella statunitense e quella francese) prevedono pur sempre un bilanciamento dei poteri: il presidente non è onnipotente. Obama è il potente presidente Usa, ma ha di fronte una Camera e un Senato repubblicani.
Quanto alla Germania, dove si vota con il proporzionale, Angela Merkel sta governando i forza del 43% dei voti, ma non sono stati sufficienti perché, per governare, lì serve la maggioranza assoluta.

Il progetto costruito da Renzi prevede invece che al vincitore, benché lontanissimo dalla maggioranza assoluta, sia consegnato tutto: il governo, il parlamento, la possibilità di ipotecare l’elezione del presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura.
In un colpo solo, con l’Italicum, si elegge il premier e il parlamento, cosa che non esiste in nessuna democrazia del mondo.
La divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) contrassegno della democrazia ineludibile viene nei fatti dissolto.
Di più: un potere come quello che verrebbe ad instaurarsi consentirebbe di legittimare l’occupazione di tutti i gangli del potere da parte di un partito solo.
Si pensi alle nomine delle presidenze degli enti di Stato. Si pensi alla Tv e al ruolo fondamentale di manipolazione dell’opinione pubblica che attraverso di essa si può esercitare.
Il potere che attraverso queste riforme si instaura è un potere che tenta di creare le condizioni preventive per conservarsi e diventare tendenzialmente totalitario.

Come ha efficacemente spiegato Alessandro Pace, il modello è piuttosto quello di un principato.
Precisamente: “Un blocco di potere affaristico-finanziario con propaggini piduistiche che grazie ad una legislazione elettorale drogata potrebbe confiscare tutto il potere per anni con il favore di una minoranza di elettori”. Non si poteva dire meglio!

Non deve sorprendere il consenso che questo progetto riscuote nei cosiddetti poteri forti.

C’è una logica ferrea in tutto ciò. I sostenitori del “sì” hanno un profilo che non lascia spazio ad equivoci:
c’è la banche d’affari Goldman Sachs, famosa per avere frodato i propri risparmiatori con la vendita di titoli tossici subprime, c’è la Morgan Stanley, croce di tanti azionisti messi sul lastrico dal false informazioni sullo stato dell’azienda, è la più grande società finanziaria del mondo, la Citigroup, c’è quella Banca Morgan che raccomandava di liquidare le costituzioni antifasciste perché troppo intrise di socialismo. Troviamo sempre fra i sostenitori del “sì” George Soros, il re di tutti gli speculatori globali e il commissario europeo Pierre Moscovici, coprotagonista di tutte le politiche di austerità che stanno devastando la vita e il futuro di milioni di europei. Troviamo il settimanale iperliberista anglosassone Economist, né poteva mancare la nostra Confindustria. E per finire in gloria, John Phillips, l’ambasciatore americano in Italia, che ha posto il sigillo finale all’allegra brigata di lestofanti.
Ebbene lor signori – siatene certi – non sbagliano mai. Sono quelli che con una formula riassuntiva possiamo definire i “padroni universali”, con la testa costantemente immersa nella greppia. Loro sanno sempre da che parte stare e come mungere il gregge. La democrazia, la sovranità popolare, la giustizia sociale sono abiti troppo stretti per loro. Hanno solo bisogno di maggiordomi che reggano loro il gioco. Renzi è per loro l’uomo giusto al posto giusto.

Persino Obama si è buttato nella mischia e ha voluto offrire il suo “disinteressato” endorsement alla riforma renziana che, detto per inciso, prefigura un modello istituzionale che è l’opposto diametrale di quello americano. Un’invasione di campo – quella di Obama– che rinnova e conferma la storica sudditanza del nostro paese nei confronti del potente alleato.

Oggi Renzi spaccia la moneta falsa secondo cui lo scontro sarebbe fra modernità e conservazione, fra innovazione e nostalgia per le liturgie paralizzanti e consociative della prima repubblica.
Ma sentite cosa scriveva il Pd nella sua Carta dei valori del 2008, anch’essa rottamata dal caudillo di Rignano:
La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale. La Costituzione può e deve essere aggiornata, nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise, coerenti con i princìpi e i valori della Carta del 1948, confermati a larga maggioranza dal referendum del 2006”.

Poi c’è la legge costituzionale, che completa e rende organico il disegno politico con la trasformazione della funzione del Senato.

·     E’ vero che viene superato il bicameralismo perfetto? No, perché sopravvivono almeno una mezza dozzina di materie dove la procedura bicamerale rimane.
·      Ma è poi vero che il bicameralismo fa perdere tempo e nuoce alla “governabilità”? No! Due Camere rendono più solido e accurato l’esito legislativo; due camere lavorano in parallelo ed esaminano nel medesimo tempo pdl diverse evitando l’ingolfamento.
·     E’ vero che si procede come nelle principali democrazie? No! Si citano a sproposito la Germania e gli Usa. Ma nella Germania (che è uno Stato federale) esiste una vera camera dei Lander, i quali hanno consistenti e chiare sfere di autonomia: il Bundesrat, nel quale i governi regionali nominano da 3 a 6 rappresentanti con vincolo di mandato. E quando il procedimento legislativo coinvolge gli interessi dei lander questo è perfettamente bicamerale. Al contrario, nella riforma costituzionale, il quarto comma del nuovo articolo 117 contiene invece la cosiddetta “Clausola di supremazia”, la quale comporta che anche su materie di interesse regionale sulle quali il nuovo Senato si fosse espresso a maggioranza, la Camera può avocare a sé il responso finale e bocciarle con un voto di maggioranza determinando un fortissimo accentramento decisionale. Dunque il nuovo Senato, definito Camera delle autonomie locali, la cui funzione sarebbe appunto quella di dare voce alle istanze regionali in realtà non conta nulla.
·     Quanto agli Usa, altra confederazione di Stati, è noto che lì il procedimento legislativo è perfettamente bicamerale. Di più: nel Senato, composto di 100 senatori (2 per Stato) per approvare una legge non basta la maggioranza assoluta, occorre la maggioranza qualificata di 60. Se questa non c’è si continua a discutere.
·     E’ vero che in Italia c’è un grave ritardo nella produzione legislativa e che occorre una semplificazione del processo decisionale per cui il governo non riuscirebbe a governare? In realtà, già oggi c’è un contingentamento dei tempi di discussione ma, soprattutto, l’approvazione delle leggi promosse per iniziativa dell’esecutivo sono state dell’80% con Berlusconi, del 68% con Monti, dell’89% con Letta, dell’82% con Renzi che nei primi 21 mesi ha fatto approvare 102 leggi. I tempi medi sono stati 109 giorni.
·     E’ vero che si riducono i costi della politica? No! A parte l’incredibile idiozia (o totale assenza di cultura politica) di trattare la democrazia, la Costituzione come se fosse un centro di costo, resta il fatto che neppure i presunti risparmi sono reali (i già risibili 540 milioni sbandierati dal governo). La ragioneria dello Stato ha corretto i conti fasulli del governo e ha chiarito che il risparmio dopo la riforma ammonterà a meno di 50 milioni, 0,80 centesimi l’hanno per cittadino.
·     E cosa dire del meccanismo di formazione del Senato se non che è un esempio di rara follia: esso sarà formato da 21 sindaci, 74 consiglieri regionali e 5 senatori a vita nominati dal presidente della Repubblica. La nuova norma stabilisce che questi siano scelti dalle Regioni in conformità con il voto degli elettori, palese contraddizione in termini. Quello che è già chiaro è che essi saranno individuati dai partiti e poiché è stata loro riconosciuta l’immunità parlamentare è facile intuire quale non troppo nobile mercanteggiamento si verificherà per accaparrarsi quel ruolo.
·     Si tratterà di dopolavoristi, che svolgeranno a giorni alterni le loro duplici funzioni: quando fanno i senatori non potranno farei consiglieri regionali e viceversa. O forse non faranno nessuna delle due cose. Lo stesso vale per i sindaci. E poiché è previsto che essi decadano da senatori quando non fossero più consiglieri regionali (o sindaci), ciò che accade molto spesso a seguito di scioglimento dei consigli comunali o regionali, essi saranno sostituiti dai nuovi arrivati in un sistema di sliding doors istituzionale. Ci vuole una mente perversa per immaginare un guazzabuglio di simili proporzioni.


Tutta questa poderosa macchinazione – non lo si dimentichi – ad opera di senatori e deputati eletti (in realtà nominati) grazie ad una legge elettorale che la Consulta ha dichiarato incostituzionale:
in definitiva, la liquidazione della Costituzione per mano di un potere illegittimo.
Ognuno può capire – anche in ragione dell’esperienza che si è già consumata – a quali scopi serva questa curvatura autoritaria, questo imbavagliamento della democrazia rappresentativa.

Ebbene, serve a completare la svolta reazionaria che ha già fatto franare masse di detriti sui precetti e sui contenuti socialmente più avanzati della Costituzione: diritto al lavoro, alla salute, alla previdenza, all’istruzione, trasformati da diritti che lo Stato deve garantire a merci che si acquistano sul mercato.

L’espropriazione dei beni comuni, la privatizzazione dei servizi sociali, la progressiva spoliazione del welfare – in perfetta armonia con i dogmi liberisti che l’Italia ha condiviso con l’Ue, con la Bce e col Fmi – non sono altro che il progetto politico che le classi dominanti vogliono imporre a tappe forzate.

La liquidazione della Costituzione è il passaggio obbligato per raggiungere questo obiettivo.
E il governo Renzi ne è l’esecutore testamentario.

A sostegno di questa poderosa manomissione si invoca il concetto di “governabilità”, un vero mantra nelle argomentazioni dei nostri presunti modernizzatori.

Un concetto tuttavia del tutto estraneo al costituzionalismo occidentale, ma che tanto favore riscuote in un’opinione pubblica disinformata, obnubilata e addomesticata da un martellante bombardamento mediatico.

La tesi che si vuole fare passare è che la democrazia è un ingombro che paralizza la decisione e condanna all’immobilismo.

Quante volte abbiamo sentito dire: “lasciamoli governare; poi, fra tot anni, quando si tornerà a votare, li si potrà punire o premiare per ciò che hanno o non hanno fatto”.

Come se la democrazia (e, a ben vedere, il compito stesso dei cittadini e dei corpi sociali intermedi) si potesse ridurre a porre una volta tanto la scheda in un’urna per poi consegnare tutto nelle mani del vincitore, fino al turno elettorale successivo.

A pensarci bene e a seguire la vulgata, il massimo della governabilità consisterebbe nella dittatura che spazza via qualsiasi intralcio e affida tutto all’uomo della provvidenza.

Vent’anni di spoliticizzazione di massa, coltivata con tenacia dal potere costituito, hanno prodotto questo: anomia, individualismo, passivizzazione.

Parafrasando la battuta di un famoso film di fantascienza: “E’ così che muore la democrazia: fra scroscianti applausi”.

Poi Renzi ha provato ad inquinare i pozzi.

Ha detto: “Se perdo mi ritiro dalla politica”.
Un gesto presentato come un atto di umiltà.
E in realtà un gesto di estrema arroganza e superbia.

Un gesto che provava a togliere di mezzo l’oggetto reale del confronto, il merito della questione sottoposta al giudizio degli italiani, con l’obiettivo di trasformare la consultazione in un plebiscito.

E’ come se Renzi avesse esteso l’istituto della fiducia (largamente abusato nel parlamento) all’intero corpo elettorale: “O con me o contro di me; o a me tutto il potere – senza se e senza ma, come si usa dire oggi – oppure me ne vado”.
Poi, vista la mala parata e l’incertezza circa l’esito, l’uomo ha fatto una delle sue frequenti capriole e ha spiegato che quale che sia il responso delle urne lui resterà comunque in sella.


Negli ultimi giorni abbiamo visto circolare in rete il facsimile del quesito referendario... ma era talmente paradossale da sembrare una bufala. Poi, quando Renzi lo ha mostrato nella trasmissione serale di Lilly Gruber abbiamo scoperto che il quesito è davvero quello.
Sentite cosa dice: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?"

Per la prima volta nella storia della Repubblica il quesito non si limita a citare l'articolo di legge ed il relativo titolo, da approvare o respingere, ma, cosa inaudita, ne propone un riassuntino tematico in forma di spot, uno spot che durerà sino alla fine e che entrerà fin dentro le cabine elettorali. L’elenco evidenzia infatti solo alcuni aspetti apparentemente positivi, scelti come motivazioni di vendita accattivanti, non segnalando niente che possa risultare negativo.
Non spiega, per esempio, che il Senato rimane con importantissime funzioni, ma non potremo più votare i senatori; si spinge poi ad invocare il “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni” come se la riforma deliberasse una generica e diffusa riduzione della spesa per tutte le istituzioni.
Come nei regimi totalitari, il quesito assume dunque la forma di una domanda retorica, che induce a pensare che non possa esservi altra risposta che quella positiva.
Come qualche giorno fa ricordava Dal Lungo: “Sarebbe un po’come chiedere ai cittadini se vogliono o meno sopprimere una quota delle stazioni ferroviarie che servono il paese proponendo nel quesito: “Volete superare la frammentazione degli arrivi e delle partenze, orari complicati, troppe coincidenze ed il contenimento dei costi per l’esercizio delle ferrovie?”.
Oppure, guardando al referendum che 3 milioni di cittadini hanno ottenuto si svolga sul famigerato Jobs act, sarebbe come se il titolo del quesito fosse concepito più o meno così: “Vuoi che sia abrogata la legge che permette contratti di lavoro a tutele crescenti, assunzioni a tempo indeterminato, combatte la precarietà e difende i diritti dei lavoratori?”.

Ecco, questi sono i mezzi poco puliti che un presidente del consiglio privo del più elementare scrupolo democratico sta usando per manipolare l’opinione pubblica e fare passare un disegno che spinge il paese verso il dispotismo plebiscitario.

Ci sentiamo continuamente raccontare che questa riforma è ciò che “gli italiani ci chiedono” (qualche illustre idiota dice, addirittura, da 70 anni, cioè prima ancora che la Costituzione fosse promulgata…). Ora, bisognerebbe smetterla di parlare a nome degli italiani: parlino per sé e per quelli che sono d’accordo con loro.

Dicono anche – e questa è un’altra falsificazione bella e buona – che l’impasse politico del Paese dipende dalla farraginosità delle sue norme.
Ebbene, l’impasse politica di questo Paese dipende dal fatto che la Costituzione, in tanta sua parte, non la si è voluta applicare e oggi la si vorrebbe anche formalmente archiviare.
Noi, al contrario, diciamo che la Costituzione non si cambia. E’ invece ora di applicarla. Proprio per cambiare l’Italia. Per questo ci battiamo e ci batteremo.

martedì 18 ottobre 2016

Renzi, la volpe e il gatto

Il segretario del Partito democratico, nonché presidente del consiglio dei ministri, nonché promotore della riforma anti-costituzionale, nonché munifico dispensatore di prebende, a dritta e a manca, sta dando fondo alle più acrobatiche manovre al supremo scopo di raccattare voti al prossimo referendum.
Poco importa che le coperture finanziare non vi siano. Poco importa se l’Unione europea, rigida custode dei propri dogmi monetari, negherà qualsiasi splafonamento del deficit.
Quello che conta è promettere promettere promettere. Dare l’impressione, cioè sembrare, non essere.  
In questo gioco spericolato Renzi è maestro: fiutare l’aria che tira, muoversi con la scaltrezza dell’illusionista, negare la realtà e inventarne un’altra, inesistente, ma fatta di parole suadenti, condite col piglio e l’ostentata sicurezza dell’imbonitore, del piazzista, certo di potere vendere a buon prezzo il proprio prodotto scadente e riscuoterne il dividendo politico.
Dal ponte sullo stretto all’abolizione di Equitalia, dalle pensioni ai contratti pubblici, dai bonus alle forze armate e di polizia, Renzi cerca di strappare un consenso che sente scivolargli via. Soprattutto egli intuisce che gli argomenti a sostegno della manomissione costituzionale sono labili; fiuta che tanti cittadini, dati per addomesticati, questa volta non stanno abboccando.
E allora si gioca tutto, sapendo che il suo futuro politico è davvero in discussione in una mano sola. Con l’azzardo e la spregiudicatezza del giocatore di poker prova a raccontare la favola che da una sua caduta tanti, dagli industriali ai pensionati, dai finanzieri ai dipendenti pubblici, dai ricchi ai poveri avrebbero solo da perdere e il paese che lui sarebbe impegnato a salvare sprofonderebbe nelle sabbie mobili.
Datemi tutto il potere, dal governo al parlamento, consegnatemi la facoltà di fare e disfare le leggi da solo, toglietemi l’intralcio di dovere fare i conti con una ingombrante magistratura indipendente. Basta favoleggiare di pluralismo e di democrazia, quando il problema è quello di decidere alla svelta e io solo posso essere il depositario di una simile prerogativa, per amministrare il bene di tutti.
Se questo paese avesse sufficiente memoria di sé e della propria storia non ci sarebbe partita. O forse basterebbe ricordare l’insegnamento di Collodi, che raccontava di come la volpe e il gatto turlupinarono Pinocchio convincendolo a seppellire le sue monete d’oro nel campo dei miracoli, dove di lì a poco sarebbe sorto un albero colmo di zecchini d’oro.
Si sa come finì.

Ebbene, dimostriamo a Renzi che noi non siamo burattini di legno.

lunedì 10 ottobre 2016

Attenti al baro





 Ora che il giorno del referendum si avvicina Renzi sente le campane suonare a martello. E ne è preoccupato, perché il gioco d’azzardo in cui ha puntato tutte le sue carte potrebbe rivoltarglisi contro. Insomma, l’erede legittimo di Berlusconi rischia di diventare vittima delle sue stesse macchinazioni perché alla lunga tutti i misfatti vengono a galla. La prospettiva di un tonfo clamoroso spiega l’overdose delle sue sempre più aggressive e sgangherate esibizioni che tutti gli spazi televisivi esistenti ci somministrano quotidianamente per lo più senza lo straccio di un contraddittorio.
L’uomo le sta tentando tutte: dalle profezie di sventura paventate in caso di vittoria del “no”, alla falsificazione del significato della riforma ammazza-costituzione, fino alla più sfacciata proposta di mance elettorali con cui spera di riscuotere credito (e voti) a dritta e a manca.
Ora Renzi ha riesumato persino il ponte sullo stretto. I sondaggi dicono che il Sud gli sta voltando le spalle e con questo inopinato rilancio che è una turlupinatura per il Mezzogiorno e una catastrofe economica per tutto il paese lui parla direttamente alla mafia, sperando di trarne l’aiuto decisivo, come a suo tempo seppe fare il caudillo di Arcore. Che importa se poi non se ne farà nulla. Una volta rottamata la Costituzione, una volta trasformato il parlamento in un “bivacco di manipoli”, una volta piegati all’obbedienza gli organi di garanzia, una volta trasformata l’informazione nel proprio megafono, una volta fatto tutto questo, dall’alto di quel potere totalitario Renzi potrà farsi beffe di ogni promessa e consolidare il blocco di interessi che lo sostiene.
C’è una logica ferrea in tutto ciò. I sostenitori del “sì” hanno un profilo che non lascia spazio ad equivoci: sono la banche d’affari Goldman Sachs, famosa per avere frodato i propri risparmiatori con la vendita di titoli tossici subprime, è la Morgan Stanley, croce di tanti azionisti messi sul lastrico dal false informazioni sullo stato dell’azienda, è la più grande società finanziaria del mondo, la Citigroup, è quella Banca Morgan che raccomandava di liquidare le costituzioni antifasciste perché troppo intrise di socialismo. Troviamo sempre fra i sostenitori del “sì” George Soros, il re di tutti gli speculatori globali e il commissario europeo Pierre Moscovici, coprotagonista di tutte le politiche di austerità che stanno devastando la vita e il futuro di milioni di europei. Troviamo il settimanale iperliberista anglosassone Economist, né poteva mancare la nostra Confindustria. E per finire in gloria, John Phillips, l’ambasciatore americano in Italia, che ha posto il sigillo finale all’allegra brigata di lestofanti.
Ebbene lor signori – siatene certi – non sbagliano mai. Sono i padroni universali che tengono immersa la testa nella greppia. Sanno sempre da che parte stare e come mungere il gregge. La democrazia, la sovranità popolare, la giustizia sociale sono abiti troppo stretti per loro. Hanno solo bisogno di maggiordomi che reggano loro il gioco. Renzi è per loro l’uomo giusto al posto giusto. Ricordiamocene il 4 dicembre!

lunedì 3 ottobre 2016

Il governo Renzi attacca l’ultimo baluardo del welfare: la sanità

Nei giorni scorsi il governo ha approvato il tetto del debito pubblico, vale a dire il limite invalicabile entro il quale va contenuta la spesa pubblica in obbedienza alle regole imposte dall’Ue e dal vincolo del pareggio di bilancio sciaguratamente inserito nella Costituzione della Repubblica. Da lì si ricava che lo stanziamento per la tutela della salute continuerà a diminuire. L’esito di questa politica è l’abbandono sociale di chi per curarsi deve pagare sempre di più le prestazioni sanitarie ambulatoriali e le medicine. Chi può pagare passa al privato, che fa profitti e ingrassa sulle macerie del servizio pubblico. Chi non se lo può permettere soccombe: aumentano le malattie e cresce la mortalità fra le fasce deboli della popolazione. Per la prima volta nella storia della repubblica l’attesa di vita diminuisce. Quello attuale è quindi il governo più pericoloso di quanti ne abbiamo avuti negli ultimi 50 anni. E’ questo che fa di Renzi il più fedele interprete del liberismo moderno: i bisogni, anche quelli essenziali, inscritti nella tavola dei diritti sociali di cittadinanza, che la Costituzione definisce come irrinunciabili, sono derubricati a merci che si acquistano sul mercato. La sola domanda che viene soddisfatta è la domanda solvibile, cioè pagante. Per risolvere il divario fra risorse economiche e popolazione Malthus proponeva di tagliare le nascite; per risolvere lo stesso problema Renzi taglia il diritto primario alla salute. Renzi e quelli come lui non capiscono che distruggendo il più importante fattore di ricchezza di un paese, vale a dire la salute individuale e collettiva dei suoi cittadini, si ottiene un paese impoverito perché malato. Quello che Renzi e la cultura di cui è espressione non possono capire è che il welfare non è un costo, ma un investimento, che la prevenzione produce anche risparmi di spesa perché curare costa molto di più che prevenire. I sistemi che curano e basta e che impongono costose assicurazioni sono condannati nel tempo a vedere crescere la spesa, hanno una natura incrementale e fatalmente si scontrano con i problemi di sostenibilità. Come dimostra la situazione negli Usa, dove 50 milioni di persone sono senza assistenza sanitaria, mentre la spesa aumenta. La Strada da percorrere è opposta: produrre salute come ricchezza individuale e sociale. Ma questo governo non sa e non vuole farlo.