(Intervento al Cpn di Rifondazione comunista del 2 e 3 dicembre 2017)
Vorrei innanzitutto dire che le dinamiche che hanno
portato alla chiusura del Brancaccio non rappresentano un incidente di
percorso, un equivoco che se superato con un poco di pazienza avrebbe
consentito di realizzare quell’ embrasson
nous, quell’unità della sinistra alla sinistra del Pd che secondo i suoi
sostenitori avrebbe rimescolato le carte in campo creando un quarto polo, nel
caleidoscopio politico italiano.
Al Brancaccio, è venuto in
chiaro ciò che era da subito percepibile ad occhio nudo e cioè la diversa e
persino opposta natura dei progetti politici, della visione di società, dei
riferimenti sociali, della stessa idea di democrazia dei soggetti lì convenuti.
Lì si è finalmente capito che
se c’è un modo per rendere incomprensibile il giusto obiettivo dell’unità della
sinistra, esso è quello di erigerla a bene in sé, a prescindere.
Lì è venuto in chiaro che
dobbiamo definitivamente liberarci della convinzione sempre latente che se non
sei nelle istituzioni non esisti e che dunque è meglio stare in compagnie
indecenti piuttosto che navigare in mare aperto dove ti devi fare strada a
colpi di remi.
Il documento programmatico
della troika Mdp, Si, Possibile è appunto lì a dimostrare che il perimetro
politico entro il quale essa si muove è quello di un centrosinistra forse – e
sottolineo forse - depurato dall’infezione renziana.
Ma il fatto è che non
costruisci un progetto di inveramento costituzionale, che è un progetto di
società – quello contro il quale J.P. Morgan ha scagliato la propria fatwa –
con una spruzzata di modesti provvedimenti elettoralistici innestati su un
impianto liberista. Perché questo è l’orizzonte culturale dei tre soggetti che
si apprestano a confezionare una lista e forse un partito, l’una e l’altro
saldamente nelle mani dei noti capi-bastone con l’aggiunta di un front-leader
di appeal da spendere nella campagna elettorale.
Ci abbiamo messo un po’,
correndo sul filo del rasoio, un po’ per convinzione e un po’ per un eccesso di
tatticismo, ma l’importante è che alla fine abbiamo tirato le somme ed è questo
che conta.
Liquidato il Brancaccio, è
venuta tempestivamente in soccorso l’iniziativa dei ragazzi e delle ragazze di Ie so
pazzo che è la vera novità di questi tempi bui, la promessa di un futuro
possibile.
Con una maturità forse
insospettabile perché finalmente scevra da pregiudizi e diffidenze anti-partito
che sono stati la cifra di tutti i precedenti fallimenti, hanno saputo avanzare
una proposta, una piattaforma dotata della necessaria radicalità,
potenzialmente capace di unificare sociale e politico, partiti, associazioni e
movimenti di varia estrazione.
Sono in gran parte giovani –
e dio sa quanto abbiamo bisogno di un rinnovamento, di un’ibridazione, anche
generazionale, di idee e di energie.
Per una volta, impegno e
conflitto sociale, lotta politica e rappresentanza istituzionale non sono vissuti
come luoghi incomunicanti, ma terreni contigui, da agire in una battaglia a tutto
tondo, dove tutto si tiene. Dove, per dirlo con una formula
classica, il sociale si politicizza e il politico si socializza.
Abbiamo letto la bozza di
programma redatta da Ie so pazzo.
Il testo definitivo dovrà certo
essere scritto meglio, ci sono alcune ingenuità, bisognerà legarne le parti con
una tessitura più organica e farlo dando vita ad una struttura di coordinamento
nazionale più strutturata.
Poi se ne dovrà redigere una
formulazione più snella ed incisiva, tale da rendere immediatamente
comprensibile il messaggio nei suoi tratti salienti, senza arzigogoli, perché
nella competizione elettorale devi essere concreto ed efficace, scoprendo –
come disse una volta Berlinguer – il coraggio della banalità.
Ma lì dentro io trovo che l’essenziale
c’è e contiene una proposta ed un linguaggio che chiama in causa e mette in
mora la struttura del sistema, le classi dominanti, tutto il brutale armamentario
liberista traslocato nelle politiche dei governi.
E parla con chiarezza a
quanti ne patiscono sfruttamento e soprusi.
Sarà anche indispensabile – e
bisognerà farlo subito, diciamo nelle prossime 72 ore – stabilire delle regole
democratiche certe, tali da configurare il processo che si apre come un vero
fatto democratico, dove non ci sono né primogeniture, né referenti, né garanti,
né guru, né sacerdoti nelle cui mani depositare poteri particolari o esclusivi.
Forse si sta aprendo
l’opportunità, anche in Italia, di costruire l’embrione di una sinistra
anti-liberista, di ispirazione europea ma fortemente ancorata nella questione
nazionale.
E comincia a farsi strada la
persuasione che non è vero che un progetto di profonda trasformazione della
realtà porti cucito addosso lo stigma dell’estremismo velleitario e sia
inesorabilmente consegnato alla marginalità.
Insomma, è importante
conquistare la convinzione che realismo non si declina con moderatismo. Del
resto, lì il campo è già affollato.
Per ora si tratta di una
possibilità, molto c’è da scavare e le insidie certo non mancano.
A partire dal fatto che il
processo avviato non ha un retroterra sperimentato di lavoro politico, ma nasce
dall’emergenza di un appuntamento elettorale, dalla necessità di lanciare nello
spazio pubblico un segnale in netta controtendenza.
Fare questo in un tempo così
breve non sarà facile, perché siamo in grave ritardo e l’appuntamento
elettorale è fra soli tre mesi; perché l’oscuramento sarà totale, perché i
nostri mezzi di comunicazione sono rudimentali e perché nel circo mediatico la
moneta falsa che viene spacciata è quella che identifica in D’Alema e soci la “vera”
sinistra che si riorganizza.
E tuttavia, per dirla con le
parole della favola di Esopo: hic rhodus
hic salta! Infatti è qui ed ora che dobbiamo misurare la nostra vitalità, la
nostra utilità e la nostra ragion d’essere.
E allora il ruolo di
Rifondazione non può ridursi al pur decisivo e come sempre generoso contributo
nella raccolta delle firme.
C’è un’iniziativa diretta, un
compito di tessitura politica, di agglutinamento, da svolgere nei confronti del
micro-universo delle organizzazioni della sinistra anticapitalista.
C’è un lavoro di
interlocuzione e di inclusione nel quale Rifondazione deve spendersi in ogni
territorio, annodando o riannodando fili che non hanno mai saputo organizzarsi
un una trama unitaria.
Sono mondi che spesso hanno
in comune una discreta vocazione autistica, che racconta delle cento sfumature
in cui ciascuno di essi si articola e spesso si arrocca, difetto, del resto,
dal quale neppure noi siamo immuni.
La frantumazione della
sinistra di ispirazione anticapitalista ha una quantità di ragioni, fra le
quali c’è la presunzione autoreferenziale, che a sua volta è il prodotto
dell’assenza di un progetto forte e di una soggettività matura che lo sappia
fare vivere.
Occorre però chiarire bene
fra di noi, con i nostri iscritti e anche con i nostri interlocutori, che il
successo o l’insuccesso di questa battaglia non si misureranno con il
raggiungimento o meno del quorum nella prossima consultazione elettorale.
Certo, meglio se riusciremo a
mandarla in buca, e per questo dovremo lavorare senza sosta, ma ciò che più
conta è la nostra scelta di campo, fuori da ogni ambiguità, da ogni contiguità
politicista, da ogni rischio di risucchio nella palude: la scelta di un nuovo
campo da arare, la scoperta che il mondo non finisce con le colonne d’Ercole
che hanno al proprio limite estremo Sinistra italiana.
Bisogna credere che il mondo
dei subalterni può essere organizzato e darsi una rappresentanza, nelle lotte
innanzitutto, ma per andare oltre il ribellismo estemporaneo e sussultorio che
alla fine rifluisce nelle miserie del presente.
Liberiamoci dal pessimismo
crepuscolare che è il sedimento inerziale di tante sconfitte. Ricominciamo,
senza paura, a nuotare nell’elemento in cui i comunisti dovrebbero sentirsi più
a loro agio.
E persuadiamoci che nessuna
situazione è senza sbocco.
Lo diventa solo se abdichiamo
al nostro compito.
In questi mesi siamo stati
impegnati in cento iniziative di celebrazione del centesimo anniversario della
rivoluzione d’Ottobre e del ruolo straordinario che in essa ebbe Lenin.
Tanta storia ci separa da
quell’evento, ma ci sono fatti, comportamenti che trascendono il contesto in
cui si verificarono e che nelle organizzazioni del movimento operaio tendono a
riprodursi, nel presente, con stupefacente similitudine.
Come quando, nei primissimi
anni del Novecento, proprio Lenin ingaggiava una battaglia durissima contro il riformismo
bernsteiniano che rinunciava ad una radicale trasformazione della società,
rinnegava la lotta di classe e invitava il movimento operaio ad abbandonare le
utopie rivoluzionarie per ripiegare su un tiepidissimo riformismo.
Lenin, nel suo celebre Che fare, replicava così a coloro che
giustamente definiva come avversari:
“Piccolo gruppo
compatto, noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza
per mano.
Siamo da ogni parte
circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco.
Ci siamo uniti, in
virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri
nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal primo
momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito
la via della lotta alla via della conciliazione.
Ed ecco che taluni
dei nostri si mettono a gridare: "Andiamo nel pantano!".
E, se si incomincia a
confonderli, ribattono: "Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di
negarci la libertà d’invitarvi a seguire una via migliore?".
Oh, sí, signori, voi
siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete,
anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano
e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati.
Ma lasciate la nostra
mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la nostra grande parola della
libertà, perché anche noi siamo "liberi" di andare dove vogliamo,
liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si
incamminano verso di esso. "