domenica 17 dicembre 2017

Contro il neo-colonialismo e la barbarie razzista



 La coppia Minniti-Pinotti, rispettivamente ministri dell’Interno e della difesa del governo Gentiloni, hanno compiuto un altro decisivo passo nell’avventura neo-coloniale dell’Italia decidendo l’invio in Niger di un corpo di spedizione di 470 soldati che sostituirà la Legione straniera francese nel nobile compito di bloccare la fuga dei migranti che cercano di entrare in Libia per tentare l’ultimo tratto del loro “viaggio della speranza”.

Si chiude così la tenaglia che il governo stringe sui migranti per impedire, via terra e via mare, l’approdo di quei disperati sulle italiche coste.

Al finanziamento delle tribù libiche che intercettano le imbarcazioni cariche di profughi destinati agli immondi lager dove fuori da ogni controllo si praticano l’assassinio, la tortura e lo stupro, ora si aggiunge l’intervento militare diretto, questa volta in terra nigeriana, per fermare l’esodo sul nascere e fare proliferare anche in quel paese i campi di concentramento.

Ecco squadernata in tutto il suo vergognoso significato la politica verso l’immigrazione del governo italiano e del suo partito guida, il Pd, secondo il quale la partita si risolve in un solo modo, con la forza delle armi.
E’ così che li aiutiamo “a casa loro”, per usare l’ipocrisia di conio leghista: li aiutiamo a morire di stenti, di violenza, di sopraffazione.  

Così questi manigoldi assestano un altro potente colpo alla Costituzione: all’articolo 2, dove si legge che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (…) e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”; all’articolo 11, dove il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali viene sostituito “con l’impegno al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo, al fine della tutela degli interessi vitali o strategici del Paese”, come prevede il disegno di legge approvato nel febbraio scorso dal Consiglio dei ministri che consentirà al governo «la revisione del modello operativo delle Forze armate».

E quali sono gli interessi strategici del Paese?
Vendere armi, innanzitutto, poiché – come si legge nel Libro Bianco della ministra Pinotti – l’industria militare è “un pilastro del sistema paese” che “contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione”.

Detto in prosa: profitti, nient’altro che sporchi profitti, giacché l’Italia, in violazione della legge 185/90 che proibisce la vendita di armi a Paesi in guerra rifornisce di ordigni bellici di ogni genere la coalizione a guida saudita condannata dall’Onu per i bombardamenti aerei indiscriminati sullo Yemen che hanno causato la morte di migliaia di civili.
Un affare da 14 mld e mezzo nel 2016 intermediato da banche come Unicredit, come la bresciana Valsabbina, come la Popolare di Sondrio e come l’immancabile Banca Etruria.

Questi sono gli interessi serviti dal personale politico che ha sequestrato la sovranità popolare e sventrato la legge fondamentale dello Stato.
Liberarsi da questi usurpatori è diventato un imperativo a cui non ci si può sottarre.

lunedì 11 dicembre 2017

Potere al popolo: un seme destinato a germogliare



 “Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi povero; stipuliamo dunque un patto fra noi: permetterò che abbiate l’onore di servirmi a patto che mi diate il poco che vi resta in cambio del disturbo che mi prendo nel comandarvi”.

Si esprimeva così il grande Jean Jacques Rousseau, meritandosi una letterale citazione di Marx nel primo libro del Capitale, per avere descritto con corrosivo sarcasmo il patto “leonino” che codificava non già un presunto stato di natura, ma un vero e proprio stato di guerra attraverso il quale le classi dominanti, i ricchi, appunto, opprimevano e espropriavano le classi subalterne, i poveri.

Questo scriveva il grande filosofo ginevrino nella metà del XVIII secolo. E aggiungeva che nell’involucro di questi rapporti sociali “l’eguaglianza è solo apparente e illusoria”, perché “non serve che a mantenere il povero nella sua miseria e il ricco nella sua usurpazione”, per cui “le leggi sono sempre utili a chi possiede e nocive a chi non ha nulla”. Ecco perché “lo stato sociale giova agli uomini solo in quanto posseggano tutti qualcosa e nessuno di essi abbia qualcosa di troppo”.

Ebbene, cosa è cambiato, di sostanziale, da due secoli e mezzo a questa parte? Non è esattamente questa la condizione in cui versa quattro quinti dell’umanità, malgrado lo stupefacente sviluppo della scienza, della tecnica permetterebbe di risolvere, su scala planetaria, i problemi della fame, della sete, delle malattie endemiche, promuovendo il libero e multilaterale sviluppo di ogni essere umano?

Eppure accade l’esatto contrario. L’apice della modernizzazione tecnologica coincide con l’abbrutimento sino alla riduzione in schiavitù e alla negazione di futuro per masse sterminate di persone, ridotte a merci che producono altre merci al servizio dell’accumulazione capitalistica e dell’appropriazione privata di pochi.

Viene così in chiaro che piccole misure riformistiche non servono a nulla, perché hanno l’efficacia di impacchi caldi su una gamba di legno e assomigliano alle vecchie leggi sulla povertà di vittoriana memoria con cui un pugno di proprietari universali tiene in scacco popoli interi.

Questo è l’assetto del mondo contro cui vogliamo ribellarci. Anche in Italia, dove le forze maggiori che si contendono il potere politico non sono che varianti delle classi dominanti, che hanno fatto a gara nel distruggere i principi, i diritti sociali e civili sanciti dalla nostra costituzione antifascista.

Centrodestra e centrosinistra, M5S e la neonata ma già vecchia peudo-sinistra light di “Liberi ed eguali”, tutti costoro sguazzano nello stesso stagno, non avendo né l’intenzione né la capacità di trascendere l’ordine costituito, l’opprimente supremazia del mercato e delle leggi imposte per servirlo.
Nelle imminenti elezioni politiche proveremo, insieme a quanti e quante non si rassegnano, a mettere in campo una lista che guarda oltre quelle Colonne d’Ercole, una lista fatta da chi agisce il conflitto sociale, in cui si riconosca chi sta in basso e si oppone alla prepotenza vessatoria di chi sta in alto.
Non è che l’inizio, un seme destinato a germogliare.

lunedì 4 dicembre 2017

La Lista antiliberista è un investimento sul nostro futuro (e su quello del paese)


(Intervento al Cpn di Rifondazione comunista del 2 e 3 dicembre 2017)

Vorrei  innanzitutto dire che le dinamiche che hanno portato alla chiusura del Brancaccio non rappresentano un incidente di percorso, un equivoco che se superato con un poco di pazienza avrebbe consentito di realizzare quell’ embrasson nous, quell’unità della sinistra alla sinistra del Pd che secondo i suoi sostenitori avrebbe rimescolato le carte in campo creando un quarto polo, nel caleidoscopio politico italiano.

Al Brancaccio, è venuto in chiaro ciò che era da subito percepibile ad occhio nudo e cioè la diversa e persino opposta natura dei progetti politici, della visione di società, dei riferimenti sociali, della stessa idea di democrazia dei soggetti lì convenuti.

Lì si è finalmente capito che se c’è un modo per rendere incomprensibile il giusto obiettivo dell’unità della sinistra, esso è quello di erigerla a bene in sé, a prescindere.

Lì è venuto in chiaro che dobbiamo definitivamente liberarci della convinzione sempre latente che se non sei nelle istituzioni non esisti e che dunque è meglio stare in compagnie indecenti piuttosto che navigare in mare aperto dove ti devi fare strada a colpi di remi.

Il documento programmatico della troika Mdp, Si, Possibile è appunto lì a dimostrare che il perimetro politico entro il quale essa si muove è quello di un centrosinistra forse – e sottolineo forse - depurato dall’infezione renziana.

Ma il fatto è che non costruisci un progetto di inveramento costituzionale, che è un progetto di società – quello contro il quale J.P. Morgan ha scagliato la propria fatwa – con una spruzzata di modesti provvedimenti elettoralistici innestati su un impianto liberista. Perché questo è l’orizzonte culturale dei tre soggetti che si apprestano a confezionare una lista e forse un partito, l’una e l’altro saldamente nelle mani dei noti capi-bastone con l’aggiunta di un front-leader di appeal da spendere nella campagna elettorale.

Ci abbiamo messo un po’, correndo sul filo del rasoio, un po’ per convinzione e un po’ per un eccesso di tatticismo, ma l’importante è che alla fine abbiamo tirato le somme ed è questo che conta.

Liquidato il Brancaccio, è venuta tempestivamente in soccorso l’iniziativa dei ragazzi e delle ragazze di  Ie so pazzo che è la vera novità di questi tempi bui, la promessa di un futuro possibile.

Con una maturità forse insospettabile perché finalmente scevra da pregiudizi e diffidenze anti-partito che sono stati la cifra di tutti i precedenti fallimenti, hanno saputo avanzare una proposta, una piattaforma dotata della necessaria radicalità, potenzialmente capace di unificare sociale e politico, partiti, associazioni e movimenti di varia estrazione.

Sono in gran parte giovani – e dio sa quanto abbiamo bisogno di un rinnovamento, di un’ibridazione, anche generazionale, di idee e di energie.

Per una volta, impegno e conflitto sociale, lotta politica e rappresentanza istituzionale non sono vissuti come luoghi incomunicanti, ma terreni contigui, da agire in una battaglia a tutto tondo, dove tutto si tiene. Dove, per dirlo con una formula classica, il sociale si politicizza e il politico si socializza.

Abbiamo letto la bozza di programma redatta da Ie so pazzo.

Il testo definitivo dovrà certo essere scritto meglio, ci sono alcune ingenuità, bisognerà legarne le parti con una tessitura più organica e farlo dando vita ad una struttura di coordinamento nazionale più strutturata.

Poi se ne dovrà redigere una formulazione più snella ed incisiva, tale da rendere immediatamente comprensibile il messaggio nei suoi tratti salienti, senza arzigogoli, perché nella competizione elettorale devi essere concreto ed efficace, scoprendo – come disse una volta Berlinguer – il coraggio della banalità.
Ma lì dentro io trovo che l’essenziale c’è e contiene una proposta ed un linguaggio che chiama in causa e mette in mora la struttura del sistema, le classi dominanti, tutto il brutale armamentario liberista traslocato nelle politiche dei governi.
E parla con chiarezza a quanti ne patiscono sfruttamento e soprusi.
Sarà anche indispensabile – e bisognerà farlo subito, diciamo nelle prossime 72 ore – stabilire delle regole democratiche certe, tali da configurare il processo che si apre come un vero fatto democratico, dove non ci sono né primogeniture, né referenti, né garanti, né guru, né sacerdoti nelle cui mani depositare poteri particolari o esclusivi.

Forse si sta aprendo l’opportunità, anche in Italia, di costruire l’embrione di una sinistra anti-liberista, di ispirazione europea ma fortemente ancorata nella questione nazionale.

E comincia a farsi strada la persuasione che non è vero che un progetto di profonda trasformazione della realtà porti cucito addosso lo stigma dell’estremismo velleitario e sia inesorabilmente consegnato alla marginalità.

Insomma, è importante conquistare la convinzione che realismo non si declina con moderatismo. Del resto, lì il campo è già affollato.

Per ora si tratta di una possibilità, molto c’è da scavare e le insidie certo non mancano.
A partire dal fatto che il processo avviato non ha un retroterra sperimentato di lavoro politico, ma nasce dall’emergenza di un appuntamento elettorale, dalla necessità di lanciare nello spazio pubblico un segnale in netta controtendenza.

Fare questo in un tempo così breve non sarà facile, perché siamo in grave ritardo e l’appuntamento elettorale è fra soli tre mesi; perché l’oscuramento sarà totale, perché i nostri mezzi di comunicazione sono rudimentali e perché nel circo mediatico la moneta falsa che viene spacciata è quella che identifica in D’Alema e soci la “vera” sinistra che si riorganizza.

E tuttavia, per dirla con le parole della favola di Esopo: hic rhodus hic salta! Infatti è qui ed ora che dobbiamo misurare la nostra vitalità, la nostra utilità e la nostra ragion d’essere.

E allora il ruolo di Rifondazione non può ridursi al pur decisivo e come sempre generoso contributo nella raccolta delle firme.

C’è un’iniziativa diretta, un compito di tessitura politica, di agglutinamento, da svolgere nei confronti del micro-universo delle organizzazioni della sinistra anticapitalista.

C’è un lavoro di interlocuzione e di inclusione nel quale Rifondazione deve spendersi in ogni territorio, annodando o riannodando fili che non hanno mai saputo organizzarsi un una trama unitaria.

Sono mondi che spesso hanno in comune una discreta vocazione autistica, che racconta delle cento sfumature in cui ciascuno di essi si articola e spesso si arrocca, difetto, del resto, dal quale neppure noi siamo immuni.

La frantumazione della sinistra di ispirazione anticapitalista ha una quantità di ragioni, fra le quali c’è la presunzione autoreferenziale, che a sua volta è il prodotto dell’assenza di un progetto forte e di una soggettività matura che lo sappia fare vivere.

Occorre però chiarire bene fra di noi, con i nostri iscritti e anche con i nostri interlocutori, che il successo o l’insuccesso di questa battaglia non si misureranno con il raggiungimento o meno del quorum nella prossima consultazione elettorale.

Certo, meglio se riusciremo a mandarla in buca, e per questo dovremo lavorare senza sosta, ma ciò che più conta è la nostra scelta di campo, fuori da ogni ambiguità, da ogni contiguità politicista, da ogni rischio di risucchio nella palude: la scelta di un nuovo campo da arare, la scoperta che il mondo non finisce con le colonne d’Ercole che hanno al proprio limite estremo Sinistra italiana.

Bisogna credere che il mondo dei subalterni può essere organizzato e darsi una rappresentanza, nelle lotte innanzitutto, ma per andare oltre il ribellismo estemporaneo e sussultorio che alla fine rifluisce nelle miserie del presente.

Liberiamoci dal pessimismo crepuscolare che è il sedimento inerziale di tante sconfitte. Ricominciamo, senza paura, a nuotare nell’elemento in cui i comunisti dovrebbero sentirsi più a loro agio.
E persuadiamoci che nessuna situazione è senza sbocco.
Lo diventa solo se abdichiamo al nostro compito.

In questi mesi siamo stati impegnati in cento iniziative di celebrazione del centesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre e del ruolo straordinario che in essa ebbe Lenin.

Tanta storia ci separa da quell’evento, ma ci sono fatti, comportamenti che trascendono il contesto in cui si verificarono e che nelle organizzazioni del movimento operaio tendono a riprodursi, nel presente, con stupefacente similitudine.

Come quando, nei primissimi anni del Novecento, proprio Lenin ingaggiava una battaglia durissima contro il riformismo bernsteiniano che rinunciava ad una radicale trasformazione della società, rinnegava la lotta di classe e invitava il movimento operaio ad abbandonare le utopie rivoluzionarie per ripiegare su un tiepidissimo riformismo.

Lenin, nel suo celebre Che fare, replicava così a coloro che giustamente definiva come avversari:

“Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza per mano.
Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco.
Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito la via della lotta alla via della conciliazione.
Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: "Andiamo nel pantano!".
E, se si incomincia a confonderli, ribattono: "Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà d’invitarvi a seguire una via migliore?".
Oh, sí, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati.
Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la nostra grande parola della libertà, perché anche noi siamo "liberi" di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso. "