lunedì 19 marzo 2018

Ecco perché Potere al Popolo proseguirà il suo cammino



Ora che dalle urne è uscito il verdetto elettorale, le frottole della propaganda inoculata nel corpo elettorale per intercettare illusioni e facili consensi si sciolgono come neve al sole e si squaderna la miseria truffaldina di tutte le forze politiche che hanno guadagnato l’ingresso nel Parlamento della Repubblica.

Sotto i nostri occhi c’è lo spettacolo vergognoso della più spregiudicata ricerca di alleanze per la formazione del governo del paese, una ricerca che non ha più niente a che vedere con i programmi politici esibiti dai partiti durante la campagna elettorale.

Su tutto fanno premio l’aritmetica, le acrobazie politiciste, sicché in questo mondo degenerato e incartapecorito tutto diventa possibile: un centrodestra con Salvini premier che con i soldi di Berlusconi acquista sul campo frotte di parlamentari in vendita; oppure uno spettacolare incontro M5S-Lega; ma anche un sostegno esterno del Pd a governi di centrodestra o a guida pentastellata; oppure, perché no, una “grande coalizione” che intruppa tutta la compagnia a sostegno di un governo “tecnico” sotto l’egida istituzionale del Presidente della Repubblica.

Questa possibile scomposizione e ricomposizione dell’universo partitico italiano come in un gioco caleidoscopico in cui i presunti opposti si dividono e si riconciliano senza fare una piega, racconta una cosa molto semplice e non meno drammatica della situazione del nostro Paese: tutte le forze in campo hanno in comune l’approdo alla cultura liberista e l'ossessione per il potere, perché questo è il vero collante che le tiene insieme.

Nessuna di esse ritiene, neppure lontanamente, che i rapporti sociali esistenti debbano essere messi radicalmente in discussione; nessuna di esse immagina che il rapporto di capitale abbia delle alternative; nessuna di esse pensa che non vi sia libertà senza vera uguaglianza e che l’iniziativa dell’impresa privata debba essere subordinata all’interesse sociale e non possa avere titolo di esistere se viola la sicurezza, la libertà, la dignità umana.

Poi, in quel caravanserraglio si trovano differenze, fra forze apertamente reazionarie ed altre più moderate, ma i loro confini si confondono, i loro programmi si stemperano e si intrecciano ma, soprattutto, l’ordine costituito non è mai messo in discussione.

Ciò che spiega la ragione per cui il gotha finanz-capitalistico europeo e nostrano digerisce disinvoltamente queste fibrillazioni della sovrastruttura politica: lor signori, i padroni, sanno perfettamente che da lì non può venire nulla che comprometta o soltanto incrini gli assetti di potere reali, la governance dei processi economici, i rapporti fra le classi, la modalità di produzione e distribuzione della ricchezza.

Lavorando controcorrente e fra grandi difficoltà, noi stiamo provando a mettere i primi mattoni di un’altra possibile storia.
Per questo Potere al Popolo non si farà intimidire e continuerà il suo cammino.

lunedì 12 marzo 2018

Cpn 10-11 marzo 2018-03-06 (intervento di Dino Greco)



 Nei commenti post-elettorali continuano a godere di credibilità – spacciate dal mainstream - alcune narrazioni “farlocche”, veri e propri luoghi comuni che rovesciano la realtà delle cose.

Prima narrazione:il M5S è un movimento antisistema”. La critica alla casta e un sovrabbondante uso retorico della polemica contro l’establishment rivelerebbero il tratto “eversivo” del M5S.

In realtà: non vi è nel M5S nulla di più compatibile col sistema; Il M5S non è che una variabile “del” e “nel” sistema.

Di fronte alla crisi del Pd stiamo assistendo alla rapida riconversione delle classi dominanti, proteiformi per definizione (mondo della finanza, Confindustria, Marchionne, componenti della borghesia) si sono subito affrettati a chiarire che non temono per nulla il movimento.
Direi che siamo in presenza dell’ennesimo episodio di rivoluzione passiva, in un quadro di crisi generale dell’egemonia delle classi dominanti che non incontra una risposta credibile a sinistra.

Seconda narrazione:non esiste un pericolo fascista”; lo proverebbe lo scarso seguito di CPI e FN (che comunque hanno ottenuto voti non trascurabili, ai quali vanno sommati quelli di Fratelli d’Italia).

Questa tesi contiene una frettolosa o, piuttosto, interessata omissione. Il fascismo, nella sua essenza, è stato metabolizzato da tempo dal sistema politico, dalla rete istituzionale e da parte consistente dell’arco parlamentare, ma non più costituzionale.

Oggi la Lega (non più Nord) di Salvini è un partito reazionario di massa che ha incorporato uno dei tratti identitari del fascismo: il razzismo,  rivendicato, teorizzato, praticato senza più scrupoli di dissimulazione;

Terza narrazione: “la Sinistra (identificata con il Pd, ndr) ha conosciuto la più grande disfatta della sua storia repubblicana”.
Qui c’è ben altro che uno slittamento semantico(!!!).  C’è l’equivoco drammatico che ignora la mutazione genetica intervenuta da molti anni nel Pd, ormai approdato sulle sponde del liberismo e fautore di una politica di destra, del tutto estranea ai princìpi e al progetto di società delineato nella Costituzione repubblicana.
La sinistra era già morta da tempo, ben prima che l’esito elettorale ne certificasse il decesso.

Lo stesso fallimento di LeU manda a dire che la sua adiacenza al Pd è stata chiaramente individuata come parte del problema e non della soluzione.
Provo personalmente un senso di pena per quei compagni di base che non passa giorno senza che esternino nostalgia per il vecchio Pci e che hanno finito per affidarsi proprio a coloro che il Pci lo hanno sciolto; nel fallimento c’è la nitida percezione che quella di Leu è un’operazione tutta interna al centrosinistra e alle sue logiche. La sconfitta di quel disegno è un elemento di chiarezza che può aiutare a porre su basi non equivoche la rinascita di un’alternativa di sistema e non la ricerca di palliativi omeopatici.

In questo scenario, il tema che si è posto era ed è: come costruire anche in Italia una coalizione di impronta antiliberista e anticapitalista, una sinistra di classe cancellata nella realtà dei rapporti sociali e nell’immaginario popolare.

In questo quadro si colloca la neonata coalizione di Potere al popolo e la riflessione sul pur modestissimo risultato elettorale conseguito.

Sento molta delusione in giro, ma domando: si poteva ragionevolmente (non scambiando i propri desideri per la realtà) pensare ad un esito diverso, per una coalizione nata alla vigilia del voto che 75 giorni prima non esisteva?; di fronte ad un oscuramento mediatico così scientificamente attuato che due terzi del corpo elettorale non è neppure riuscito a captarne l’esistenza, mentre altri hanno immaginato di trovarsi di fronte all’ennesima acrobazia elettoralistica di cui era difficile fidarsi?
Tutto si è retto sulla pura passione militante, senza il becco di un quattrino.
Bisogna guardarsi dagli “entusiasti” di ieri e depressi di oggi, portatori insani di frustrazioni, perché costoro si abbattono con la stessa velocità con cui si esaltano: pensano che il pensiero “magico” possa sostituirsi alla fatica del lavoro sociale e politico quotidiano, che basta una proposta innovativa per rimontare decenni di egemonia delle classi dominanti e riscuotere una pioggia di consensi.

Quella che ci aspetta è una traversata nel deserto, ma la direzione di marcia – con tutte le fragilità, le contraddizioni, i primitivismi presenti – è quella giusta.
Ci vorrà del tempo, ma su quel chiodo bisogna continuare a battere.

Dobbiamo tuttavia porci qualche seria domanda che riguarda Rifondazione.
Cosa ha conferito (elettoralmente) a Pap? Quanto c’è di nostro in quell’1 virgola per cento?
Il fatto è che la forza elettorale di R. non va molto oltre il suo corpo militante (da 1 a 10? A 20? a 30?);
Un corpo militante generoso, anche coeso, ma solo per un riflesso ideologico, più che per una sua matura identità politica, in realtà fragile nella formazione teorica media dei suoi quadri, di cui gran parte del gruppo dirigente continua a fare disinvoltamente a meno.
E sostanzialmente lontano da quello che continua a rivendicare come il proprio naturale insediamento sociale: i lavoratori.
Alla domanda: “Dove sono i nostri?” dobbiamo onestamente rispondere: “Sono altrove”.
Gli operai, i pensionati, i diseredati senza lavoro né reddito si sono divisi fra M5S e Lega.

Non deve neppure sorprendere che una parte dei nostri compagni abbia votato direttamente per il M5S: alcuni illusi che lì il coefficiente di sinistra sia elevato; altri persuasi che quello sia il solo modo, o per lo meno il più rapido ed efficace, per fare saltare il banco e muovere le acque stagnanti della politica italiana.

A urne chiuse, il conto di una inadeguata elaborazione e di una fragile proposta politica ci presenta il conto.

Dobbiamo prendere per le corna temi politici di cruciale importanza strategica che il nostro congresso –imbastarditosi nell’ennesima disfida sul posizionamento interno – non ha saputo affrontare.

Primo: l’analisi della Formazione economico-sociale capitalistica europea e della natura della sua architettura monetarista, la concreta strategia utile a metterne in mora i trattati e la necessità di venire a capo della confusione che ha libero corso nelle nostre file, che fa coincidere sovranità popolare con sovranismo, patriottismo costituzionale con nazionalismo, o che usa sommariamente l’aggettivo “populista” per designare il popolo “quando questo comincia a sfuggirle”.

Per usare le parole di Je so pazzo, “ la scelta della parola ‘popolo’ non risponde solo ad esigenze comunicative, ma alla necessità di rappresentare qualcos’altro rispetto al solo proletariato, dentro un’accelerazione dei processi di ristrutturazione che comporta un rapido scivolamento verso il basso di ampi pezzi di piccola borghesia. Questa alleanza non compone un quadro statico, e quindi interclassista, bensì un quadro estremamente dinamico, all’interno del quale è forte un sentimento di opposizione alle classi e al sistema dominante, comunque ‘nominato’. (…). Marx non contrappone mai il proletariato al popolo, bensì lo pone in un rapporto dialettico, nel quale il ‘popolo’ è comunque un’alleanza tra classi  all’interno di una situazione di conflitto (…). E nella Storia i comunisti sono sempre stati estremamente flessibili nella scelta del lessico e dei simboli: popolo, operai, lavoratori, oppressi, esclusi, falce e martello, stella, stelle, ruota dentata e machete” (…), dal momento che il compito dei comunisti è quello di mettersi al servizio della classe e non a guardia delle parole”.

In altri termini: il feticismo simbolico non può surrogare i limiti della proposta politica, ma solo scavare piccole nicchie identitarie.

Secondo: la questione meridionale, stretta nella morsa sottosviluppo-disoccupazione-assenza di reddito.
Ad essa il M5S offre una risposta assistenziale. E a quell’esca avvelenata temo che anche noi rischiamo di abboccare.

Perdonate la semplificazione, ma torna qui la divaricazione fra due diverse e opposte strategie: quella che ammortizza la tensione sociale affidando alla fiscalità generale il compito di racimolare qualche risorsa per buttare un osso nel recinto dei diseredati e quella che mette a tema la piena occupazione e tutte le misure necessarie per realizzarla: un grande piano per il lavoro sostenuto da un poderoso intervento dello Stato per finanziare in deficit (dunque rompendo la catena dei trattati europei e del vincolo di bilancio) gigantesco processo di reinfrastrutturazione primaria del paese e una riduzione secca dell’orario di lavoro a parità di salario.

Non è vero che le due risposte sono complementari: esse sono due opzioni strategicamente diverse e persino opposte: l’una interna ai rapporti sociali dati e persino utile al loro mantenimento (come dimostra il relativo gradimento che essa riscuote anche a destra), l’altra volta mutare in radice i rapporti fra capitale e lavoro.

Il fatto è che non il reddito, ma il lavoro conferisce la cittadinanza, senza la qual cosa avvieremmo a rottamazione gli articoli 1, 2, 3, 4 della Costituzione, oltre che l’intero titolo III della Carta che disciplina i rapporti economico-sociali e che subordina l’iniziativa privata all’interesse sociale.

Puoi sbizzarrirti a chiamarlo in mille modi diversi (reddito di cittadinanza, di inclusione, di dignità, di esistenza, di autodeterminazione, o reddito minimo garantito e in altro modo ancora), ma la sostanza rimane la stessa: rinunci – senza ammetterlo apertamente – alla possibilità che ognuno possa essere protagonista del proprio destino.

Quella concezione è figlia della convinzione diffusa, ma per noi letale, che la realtà non si può trasformare nei suoi fondamenti e dunque non rimane che introdurre modesti accorgimenti, che non modificano la realtà dello sfruttamento. Il padrone può accettare e persino favorire che lo Stato inventi qualche congegno per fare sopravvivere i poveri, lo sapeva anche la regina Vittoria.  Ma una cosa il capitale non può fare: stravolgere la propria missione, che è quella di produrre profitto, non lavoro.
Per dirla con le parole del collettivo dell’ex Opg napoletano, straordinaria anche perché viene da un centro sociale meridionale: “Noi siamo – per usare l’espressione con cui ci criticano i nostri detrattori –rigorosamente ‘lavoristi’: riteniamo che nello sfruttamento capitalistico risiedano, contemporaneamente e in forma contraddittoria, la chiave della permanenza e quella della rovina dell’attuale sistema economico. Crediamo che la liberazione della classe lavoratrice passi per la rottura delle catene dello sfruttamento, rottura di esse, appunto, e non ‘fuga’ da esse. Finché esisterà, il capitalismo avrà sempre bisogno di operai – non c’è automazione che tenga – e finché sarà così non esiste ‘reddito’ che possa liberare la classe. A uguali condizioni produttive, ogni forma di reddito è, nella migliore delle ipotesi, una forma redistributiva del salario che non tocca i profitti; la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, invece, resta il solo strumento, per portare quote di capitale dal conto del profitto al conto del salario. Ovviamente abbiamo semplificato moltissimo, e ci perdoneranno i ‘redditisti’ per una banalizzazione che fa torto a noi e a loro, ma la sostanza è questa. La forma di compromesso trovata per il programma crediamo sia soddisfacente: il reddito è inserito quale forma di welfare – avremmo qualcosa da dire anche su questo, ma ci asteniamo – mentre l’asse del programma è tutto incentrato sul lavoro”.
Difficile dire meglio!

Terzo: la questione sindacale, di cui dobbiamo per forza tornare ad occuparci, recuperando un grave ritardo.
Con l’accordo interconfederale appena siglato fra Confederazioni e Confindustria si sono toccati livelli di “analfa-ebetizzazione” senza precedenti nella storia del sindacato in epoca repubblicana.

Per rimontare la china si impone una ricognizione della frammentazione/scomposizione di classe per ristrutturare un discorso politico sul lavoro e sulla contrattazione, fuori dalle infatuazioni negriane.

Questo è tanto più necessario in quanto la forma dello sfruttamento (fino al lavoro gratuito) ha assunto la caratteristica dell’estrazione di plusvalore assoluto, vale a dire che tutta la ricchezza prodotta dal lavoro sociale viene incamerata dal padrone.

La borghesia italiana ha perso – se mai ha avuto – qualsiasi connotazione liberale e ha resuscitato le pulsioni più reazionarie che precipitano immediatamente nel gioco politico.
Per questo ogni ipotesi riformista è destinata a naufragare, non prima di avere prodotto danni irreparabili nel corpo sociale.

Mi pare che la coalizione avviata con la costituzione di Pap ha conquistato lucidamente questa consapevolezza.

Poi, molto va precisato, approfondito, organizzato, democratizzato nella crescita del comune percorso, attraverso un processo di reciproca “ibridazione”, non di annullamento, dei soggetti che vi hanno preso parte. Dunque senza cedere alla tentazione di riprodurre vecchi vizi gregari, o ipotesi di scioglimento che ogni tanto riaffiorano, come se l’angoscia di morte ci prendesse fino a desiderare di collocare Rifondazione da qualche parte per scansare il rischio di vedersela morire fra le braccia.