Nei commenti post-elettorali
continuano a godere di credibilità – spacciate dal mainstream - alcune
narrazioni “farlocche”, veri e propri luoghi comuni che rovesciano la realtà
delle cose.
Prima narrazione: “il M5S è un movimento antisistema”. La critica alla casta e
un sovrabbondante uso retorico della polemica contro l’establishment
rivelerebbero il tratto “eversivo” del M5S.
In realtà: non vi è nel M5S nulla
di più compatibile col sistema; Il M5S non è che una variabile “del” e “nel”
sistema.
Di fronte alla crisi del Pd
stiamo assistendo alla rapida riconversione delle classi dominanti, proteiformi
per definizione (mondo della finanza, Confindustria, Marchionne, componenti
della borghesia) si sono subito affrettati a chiarire che non temono per nulla
il movimento.
Direi che siamo in presenza
dell’ennesimo episodio di rivoluzione
passiva, in un quadro di crisi generale dell’egemonia delle classi
dominanti che non incontra una risposta credibile a sinistra.
Seconda narrazione: “non esiste un pericolo
fascista”; lo proverebbe lo scarso
seguito di CPI e FN (che comunque hanno ottenuto voti non trascurabili, ai
quali vanno sommati quelli di Fratelli d’Italia).
Questa tesi contiene una
frettolosa o, piuttosto, interessata omissione. Il fascismo, nella sua essenza,
è stato metabolizzato da tempo dal sistema politico, dalla rete istituzionale e
da parte consistente dell’arco parlamentare, ma non più costituzionale.
Oggi la Lega (non più Nord)
di Salvini è un partito reazionario di massa che ha incorporato uno dei tratti
identitari del fascismo: il razzismo, rivendicato,
teorizzato, praticato senza più scrupoli di dissimulazione;
Terza narrazione: “la Sinistra (identificata con il Pd, ndr) ha conosciuto la più grande
disfatta della sua storia repubblicana”.
Qui c’è ben altro che uno
slittamento semantico(!!!). C’è l’equivoco
drammatico che ignora la mutazione genetica intervenuta da molti anni nel Pd,
ormai approdato sulle sponde del liberismo e fautore di una politica di destra,
del tutto estranea ai princìpi e al progetto di società delineato nella
Costituzione repubblicana.
La sinistra era già morta da
tempo, ben prima che l’esito elettorale ne certificasse il decesso.
Lo stesso fallimento di LeU
manda a dire che la sua adiacenza al Pd è stata chiaramente individuata come
parte del problema e non della soluzione.
Provo personalmente un senso
di pena per quei compagni di base che non passa giorno senza che esternino nostalgia
per il vecchio Pci e che hanno finito per affidarsi proprio a coloro che il Pci
lo hanno sciolto; nel fallimento c’è la nitida percezione che quella di Leu è
un’operazione tutta interna al centrosinistra e alle sue logiche. La sconfitta
di quel disegno è un elemento di chiarezza che può aiutare a porre su basi non
equivoche la rinascita di un’alternativa di sistema e non la ricerca di
palliativi omeopatici.
In questo scenario, il tema che
si è posto era ed è: come costruire anche in Italia una coalizione di impronta
antiliberista e anticapitalista, una sinistra di classe cancellata nella realtà
dei rapporti sociali e nell’immaginario popolare.
In questo quadro si colloca
la neonata coalizione di Potere al popolo e la riflessione sul pur modestissimo
risultato elettorale conseguito.
Sento molta delusione in
giro, ma domando: si poteva ragionevolmente (non scambiando i propri desideri
per la realtà) pensare ad un esito diverso, per una coalizione nata alla
vigilia del voto che 75 giorni prima non esisteva?; di fronte ad un oscuramento
mediatico così scientificamente attuato che due terzi del corpo elettorale non è
neppure riuscito a captarne l’esistenza, mentre altri hanno immaginato di
trovarsi di fronte all’ennesima acrobazia elettoralistica di cui era difficile
fidarsi?
Tutto si è retto sulla pura
passione militante, senza il becco di un quattrino.
Bisogna guardarsi dagli
“entusiasti” di ieri e depressi di oggi, portatori insani di frustrazioni,
perché costoro si abbattono con la stessa velocità con cui si esaltano: pensano
che il pensiero “magico” possa sostituirsi alla fatica del lavoro sociale e
politico quotidiano, che basta una proposta innovativa per rimontare decenni di
egemonia delle classi dominanti e riscuotere una pioggia di consensi.
Quella che ci aspetta è una traversata
nel deserto, ma la direzione di marcia – con tutte le fragilità, le
contraddizioni, i primitivismi presenti – è quella giusta.
Ci vorrà del tempo, ma su
quel chiodo bisogna continuare a battere.
Dobbiamo tuttavia porci
qualche seria domanda che riguarda Rifondazione.
Cosa ha conferito
(elettoralmente) a Pap? Quanto c’è di nostro in quell’1 virgola per cento?
Il fatto è che la forza
elettorale di R. non va molto oltre il suo corpo militante (da 1 a 10? A 20? a
30?);
Un corpo militante generoso,
anche coeso, ma solo per un riflesso ideologico, più che per una sua matura
identità politica, in realtà fragile nella formazione teorica media dei suoi
quadri, di cui gran parte del gruppo dirigente continua a fare disinvoltamente
a meno.
E sostanzialmente lontano da
quello che continua a rivendicare come il proprio naturale insediamento sociale:
i lavoratori.
Alla domanda: “Dove sono i
nostri?” dobbiamo onestamente rispondere: “Sono altrove”.
Gli operai, i pensionati, i
diseredati senza lavoro né reddito si sono divisi fra M5S e Lega.
Non deve neppure sorprendere
che una parte dei nostri compagni abbia votato direttamente per il M5S: alcuni illusi
che lì il coefficiente di sinistra sia elevato; altri persuasi che quello sia il
solo modo, o per lo meno il più rapido ed efficace, per fare saltare il banco e
muovere le acque stagnanti della politica italiana.
A urne chiuse, il conto di
una inadeguata elaborazione e di una fragile proposta politica ci presenta il
conto.
Dobbiamo prendere per le
corna temi politici di cruciale importanza strategica che il nostro congresso –imbastarditosi
nell’ennesima disfida sul posizionamento interno – non ha saputo affrontare.
Primo: l’analisi
della Formazione economico-sociale capitalistica europea e della natura della sua architettura monetarista, la concreta
strategia utile a metterne in mora i trattati e la necessità di venire a capo
della confusione che ha libero corso nelle nostre file, che fa coincidere
sovranità popolare con sovranismo, patriottismo costituzionale con nazionalismo,
o che usa sommariamente l’aggettivo “populista” per designare il popolo “quando
questo comincia a sfuggirle”.
Per usare le parole di Je so
pazzo, “ la scelta della parola ‘popolo’
non risponde solo ad esigenze comunicative, ma alla necessità di rappresentare
qualcos’altro rispetto al solo proletariato, dentro un’accelerazione dei
processi di ristrutturazione che comporta un rapido scivolamento verso il basso
di ampi pezzi di piccola borghesia. Questa alleanza non compone un quadro
statico, e quindi interclassista, bensì un quadro estremamente dinamico,
all’interno del quale è forte un sentimento di opposizione alle classi e al sistema
dominante, comunque ‘nominato’. (…). Marx non contrappone mai il proletariato
al popolo, bensì lo pone in un rapporto dialettico, nel quale il ‘popolo’ è
comunque un’alleanza tra classi
all’interno di una situazione di conflitto (…). E nella Storia i
comunisti sono sempre stati estremamente flessibili nella scelta del lessico e
dei simboli: popolo, operai, lavoratori, oppressi, esclusi, falce e martello,
stella, stelle, ruota dentata e machete” (…), dal momento che il compito dei
comunisti è quello di mettersi al servizio della classe e non a guardia delle
parole”.
In altri termini: il
feticismo simbolico non può surrogare i limiti della proposta politica, ma solo
scavare piccole nicchie identitarie.
Secondo: la
questione meridionale, stretta nella morsa sottosviluppo-disoccupazione-assenza
di reddito.
Ad essa il M5S offre una
risposta assistenziale. E a quell’esca avvelenata temo che anche noi rischiamo
di abboccare.
Perdonate la semplificazione,
ma torna qui la divaricazione fra due diverse e opposte strategie: quella che ammortizza la tensione
sociale affidando alla fiscalità generale il compito di racimolare qualche
risorsa per buttare un osso nel recinto dei diseredati e quella che mette a tema la piena occupazione e tutte le misure
necessarie per realizzarla: un grande piano per il lavoro sostenuto da un
poderoso intervento dello Stato per finanziare in deficit (dunque rompendo la
catena dei trattati europei e del vincolo di bilancio) gigantesco processo di
reinfrastrutturazione primaria del paese e una riduzione secca dell’orario di
lavoro a parità di salario.
Non è vero che le due
risposte sono complementari: esse sono due opzioni strategicamente diverse e
persino opposte: l’una interna ai rapporti sociali dati e persino utile al loro
mantenimento (come dimostra il relativo gradimento che essa riscuote anche a
destra), l’altra volta mutare in radice i rapporti fra capitale e lavoro.
Il fatto è che non il
reddito, ma il lavoro conferisce la cittadinanza, senza la qual cosa avvieremmo
a rottamazione gli articoli 1, 2, 3, 4 della Costituzione, oltre che l’intero
titolo III della Carta che disciplina i rapporti economico-sociali e che
subordina l’iniziativa privata all’interesse sociale.
Puoi sbizzarrirti a chiamarlo
in mille modi diversi (reddito di cittadinanza, di inclusione, di dignità, di
esistenza, di autodeterminazione, o reddito minimo garantito e in altro modo
ancora), ma la sostanza rimane la stessa: rinunci – senza ammetterlo
apertamente – alla possibilità che ognuno possa essere protagonista del proprio
destino.
Quella concezione è figlia
della convinzione diffusa, ma per noi letale, che la realtà non si può
trasformare nei suoi fondamenti e dunque non rimane che introdurre modesti
accorgimenti, che non modificano la realtà dello sfruttamento. Il padrone può
accettare e persino favorire che lo Stato inventi qualche congegno per fare
sopravvivere i poveri, lo sapeva anche la regina Vittoria. Ma una cosa il capitale non può fare:
stravolgere la propria missione, che è quella di produrre profitto, non lavoro.
Per dirla con le parole del
collettivo dell’ex Opg napoletano, straordinaria anche perché viene da un
centro sociale meridionale: “Noi siamo –
per usare l’espressione con cui ci criticano i nostri detrattori –rigorosamente
‘lavoristi’: riteniamo che nello sfruttamento capitalistico risiedano,
contemporaneamente e in forma contraddittoria, la chiave della permanenza e
quella della rovina dell’attuale sistema economico. Crediamo che la liberazione
della classe lavoratrice passi per la rottura delle catene dello sfruttamento,
rottura di esse, appunto, e non ‘fuga’ da esse. Finché esisterà, il capitalismo
avrà sempre bisogno di operai – non c’è automazione che tenga – e finché sarà
così non esiste ‘reddito’ che possa liberare la classe. A uguali condizioni
produttive, ogni forma di reddito è, nella migliore delle ipotesi, una forma
redistributiva del salario che non tocca i profitti; la riduzione dell’orario
di lavoro a parità di salario, invece, resta il solo strumento, per portare
quote di capitale dal conto del profitto al conto del salario. Ovviamente
abbiamo semplificato moltissimo, e ci perdoneranno i ‘redditisti’ per una
banalizzazione che fa torto a noi e a loro, ma la sostanza è questa. La forma
di compromesso trovata per il programma crediamo sia soddisfacente: il reddito
è inserito quale forma di welfare – avremmo qualcosa da dire anche su questo,
ma ci asteniamo – mentre l’asse del programma è tutto incentrato sul lavoro”.
Difficile dire meglio!
Terzo: la
questione sindacale, di cui dobbiamo per forza tornare ad occuparci,
recuperando un grave ritardo.
Con l’accordo
interconfederale appena siglato fra Confederazioni e Confindustria si sono
toccati livelli di “analfa-ebetizzazione” senza precedenti nella storia del
sindacato in epoca repubblicana.
Per rimontare la china si impone
una ricognizione della frammentazione/scomposizione di classe per ristrutturare
un discorso politico sul lavoro e sulla contrattazione, fuori dalle
infatuazioni negriane.
Questo è tanto più necessario
in quanto la forma dello sfruttamento (fino al lavoro gratuito) ha assunto la
caratteristica dell’estrazione di plusvalore assoluto, vale a dire che tutta la
ricchezza prodotta dal lavoro sociale viene incamerata dal padrone.
La borghesia italiana ha
perso – se mai ha avuto – qualsiasi connotazione liberale e ha resuscitato le
pulsioni più reazionarie che precipitano immediatamente nel gioco politico.
Per questo ogni ipotesi
riformista è destinata a naufragare, non prima di avere prodotto danni irreparabili
nel corpo sociale.
Mi pare che la coalizione
avviata con la costituzione di Pap ha conquistato lucidamente questa
consapevolezza.
Poi, molto va precisato,
approfondito, organizzato, democratizzato nella crescita del comune percorso, attraverso
un processo di reciproca “ibridazione”, non di annullamento, dei soggetti che
vi hanno preso parte. Dunque senza cedere alla tentazione di riprodurre vecchi
vizi gregari, o ipotesi di scioglimento che ogni tanto riaffiorano, come se
l’angoscia di morte ci prendesse fino a desiderare di collocare Rifondazione da
qualche parte per scansare il rischio di vedersela morire fra le braccia.