lunedì 30 gennaio 2017

La lite nel Pd ha una sola posta: il potere




Dopo la batosta incassata al referendum, nelle acque maleodoranti del Partito democratico si assiste ora ad uno scontro feroce, ma non serio, fra vecchia e nuova guardia, fra ex Pds e ex Margherita, in parte rimescolatisi in base a convenienze personali e a calcoli di bassa cucina dopo la cavalcata di Matteo Renzi alla conquista del partito.
Come dicono gli americani, che di cinismo politico se ne intendono, “non c’è cosa più di successo del successo”, perché permette a chi sale sul carro vincente di riscuotere prebende, più o meno generose. Finché il vento soffia in poppa, ovviamente.
Ma ora che la stagione felice del bullo di Rignano è solo un ricordo, la faida interna si scatena con particolare virulenza.
Ebbene, la cosa curiosa è che c’è in giro chi si illude che lo scontro, per dirla in termini classici, sia fra destra e sinistra. In altri termini, che nella contesa ci sia un apprezzabile tasso di nobiltà politica.
In realtà, da quelle parti, la posta che interessa i contendenti è soltanto una: il potere.
Vi pare che questa affermazione sia gratuita? Che sia frutto di un eccesso polemico?
Andiamo a vedere. Di cosa stanno discutendo?
Gli uni (Renzi e sodali) vogliono andare subito alle elezioni, vogliono evitare di scomparire troppo a lungo dalla scena principale, di cuocere a fuoco lento, dentro una crisi economica e sociale che sta mettendo a nudo i disastri della peggiore stagione politica della storia repubblicana. Gli altri, sentono che la voglia di rivincita di Renzi passa attraverso la liquidazione di qualsiasi refolo di dissenso interno e attraverso l’epurazione degli oppositori dalle prossime liste elettorali. E quindi minacciano scissioni, simil-scissioni, persino a suon di carte bollate.
Ma qualcuno ha capito quali siano le reali differenze di orientamento politico e sociale delle due fazioni in lite?
Forse la disoccupazione? O la precarietà lavorativa ed esistenziale inflitta dalle scelte di governo a generazioni di giovani? Forse l’adesione alle politiche di austerity che stanno aumentando a dismisura la povertà e le disuguaglianze? Forse lo stato di degrado del paese, l’assenza di uno straccio di programmazione economica, di politica industriale, di ruolo della mano pubblica, di investimenti nella ricerca, nella scuola, nei progetti di bonifica ambientale? O piuttosto non c’è, fra i due litiganti, una comune condivisione della società di mercato, della supremazia degli interessi del capitale finanziario, delle presunte virtù del privato? Non sono forse, queste scialbe controfigure della politica nostrana, espressione dei gruppi sociali dominanti? E non portano sulle proprie spalle, al pari della destra classica, la responsabilità di avere consentito la svendita dell’Italia, della sovranità popolare, del lascito programmatico più fecondo della Costituzione repubblicana? Ebbene, l’abbiamo capito, il loro conflitto non ci interessa, non parla di noi, di chi per vivere ha bisogno di lavorare, della grande maggioranza dei cittadini di questo paese. Rappresentarne gli interessi e organizzarne la voglia di riscatto è il tema impellente che è di fronte a noi.

lunedì 23 gennaio 2017

La Consulta ha seppellito il referendum sull’articolo 18. E ora?




Come è noto, con un voto fortemente contrastato, la Corte Costituzionale ha stabilito che il referendum sull’articolo 18 proposto dalla Cgil non è ammissibile.
La motivazione del rigetto sta nel fatto che la maggioranza della Consulta ha ravvisato nel quesito proposto un difetto che avrebbe trasformato il referendum da abrogativo a propositivo, ciò che la legge non consentirebbe.
Esso avrebbe cioè non soltanto reintegrato nella norma il divieto di licenziamento senza giusta causa e il diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel posto di lavoro definitivamente soppresso dal Jobs act, ma avrebbe esteso tale diritto anche ai dipendenti di aziende e unità produttive al di sopra dei 5 e non più soltanto al di sopra dei 15 dipendenti.
Vale la pena di notare che la Corte si espresse in termini totalmente diversi quando Rifondazione comunista, nel 2003, promosse un analogo e per certi versi ancor più netto referendum sull’articolo 18 della legge 300/’70, con l’obiettivo di abbattere quella soglia dei 15 dipendenti che spaccava in due il mondo del lavoro, lasciandone una parte cospicua senza tutela dal sopruso padronale.
In quell’occasione la Corte non sollevò alcuna obiezione, il referendum si svolse regolarmente ma non raggiunse il risultato sperato perché il quorum non fu raggiunto.
Si recò alle urne “solo” il 25,5% del corpo elettorale, più di 12 milioni di cittadini, 10.572.000 dei quali (l’86%) si espresse favorevolmente all’estensione del diritto, malgrado l’opposta indicazione di voto di tutto il Centrosinistra e dei suoi capintesta.
La circostanza la dice lunga sui tempi che viviamo e su quanto spazio la crociata contro il lavoro abbia scavato trincee anche nella testa dei giudici costituzionali.
Ora i referendum rimasti in campo sono soltanto due: quello per l’abolizione dei voucher e quello che chiede di cambiare la normativa sugli appalti, affermando la responsabilità in solido fra appaltante e appaltatore.
Ora vedrete che il governo proverà a mettere una pecetta sulla normativa dei voucher per sottrarre anche questo tema alla consultazione popolare.
A quel punto la frittata sarà fatta, perché in campo resterà soltanto la pur importante partita sugli appalti, probabilmente non sufficiente a scaldare i cuori sino a portare alle urne la metà degli elettori.
Questo stato delle cose apre una riflessione che non può essere rinviata e che chiama in causa proprio la Cgil, colpevolmente inerte e persino complice quando la manomissione delle leggi sul lavoro fu prodotta.
Il ricorso al referendum, in “articulo mortis”, è stato il tentativo di rimontare con un colpo d’ala il terreno perduto. Ma un compito così arduo non lo si può svolgere cercando scorciatoie elettorali.
Il sindacato deve innanzitutto tornare a fare il sindacato, organizzando e guidando i lavoratori nella battaglia sociale per la riconquista della dignità perduta.

giovedì 12 gennaio 2017

Così la Cassazione rimuove l’articolo 1 della Costituzione



Il 7 dicembre scorso la Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla società Riva del sole Spa contro la decisione della Corte di Appello di Firenze, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato nei confronti di un dipendente della società in quanto “motivato soltanto dalla riduzione dei costi”. Ribaltando la pronuncia di secondo grado, la Suprema Corte afferma che costituisce “giustificato motivo oggettivo” non soltanto il licenziamento motivato da una congiuntura economica sfavorevole, ma anche quello effettuato nell’intento di perseguire un incremento della redditività dell’impresa, detto in prosa, proteso alla ricerca di un più alto profitto.
Per capire bene fino a quale punto di perversione delle fonti del diritto sia giunta la Corte, occorre sapere che, a sostegno della propria tesi, la Corte cita proprio l’articolo 41 della Costituzione, quello che stabilisce che “l’iniziativa economica privata è libera” ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Incredibile? State a sentire. Mentre la Corte censura la seconda parte del periodo citato, afferma che il preminente interesse sociale è proprio il profitto dell’impresa, sicché il diritto alla conservazione del posto di lavoro è degradato a mero interesse sacrificabile in vista di una maggiore efficienza economica.
Pareva impossibile che si riuscisse ad peggiorare la legge Fornero e il renziano Jobs act. E invece sì. A farlo questa volta non è un governo ma un organo istituzionale che in un solo colpo liquida due fondamentali principi costituzionali: l’articolo 1, che definisce l’Italia come una Repubblica fondata sul lavoro, piuttosto che sul profitto del privato imprenditore, e l’articolo 4, che afferma come prioritario il diritto al lavoro e impone agli organi della Repubblica il compito di promuovere le condizioni “che rendano effettivo questo diritto”.
Infatti nella Costituzione il lavoro non è soltanto il corrispettivo di una remunerazione, ma è molto di più.
Il lavoro è, precisamente, un elemento costitutivo della personalità umana, un bene che non può essere posto alla mercé di qualunque altro interesse e tanto meno può essere avvilito e abolito dall’iniziativa privata alla quale invece, con questa ignobile sentenza, non si riconosce più alcun limite.
Su questa traccia, anche lo sfruttamento nelle forme più intollerabili trova qui una formale legittimazione.
La Corte Suprema ha così trasformato le fondamenta del diritto, stabilendo che l’Italia è una Repubblica fondata sull’impresa e sul suo potere arbitrario di disporre a proprio piacimento della vita dei lavoratori.
Più di ogni altra considerazione, il giudizio della Cassazione è emblematico delle drammatiche trasformazioni che stanno colpendo le fondamenta dello Stato sociale e la costituzione materiale del paese.

Questa sentenza manda a dire quello che abbiamo sostenuto con forza durante tutta la campagna referendaria per il “No” alla manomissione della Carta. Sapevamo che la posta in gioco non aveva nulla a che fare con la modernizzazione del processo legislativo, ma era luciferinamente orientata a demolire le fondamenta della Repubblica. Ecco perché la sfida decisiva che è di fronte a noi è ora, più che non mai, l’attuazione della Costituzione.

venerdì 6 gennaio 2017

Osservazioni sparse su potere, obbedienza, egemonia





C’è una patologia che corrode dall’interno, come un tumore, le istituzioni, i partiti, i sindacati, le organizzazioni di massa: è la propensione all’obbedienza, è l’acritico istinto autoconservativo degli apparati che consiglia prudenza, sino all’autocensura, ogniqualvolta si tratta di esprimere delle opinioni che comportano un’assunzione di responsabilità.
All’obbedienza – atteggiamento moralmente peggiore del fideismo perché non richiede intima convinzione – si viene educati da chi detiene il potere.
Qui opera un patto talvolta implicito, talaltra esplicito, in ogni caso consapevole in entrambi i contraenti: “tu rinunci alla tua indipendenza, alla tua creatività e ti affidi a me; io ti ricompenserò assicurandoti protezione, garanzia di carriera…sotto il mio ombrello non avrai nulla da temere, purché il tuo appoggio mi sia sempre assicurato”.
Fatalmente, saranno i mediocri più ossequienti a superare di slancio questa selezione: mediocri, ma affidabili, perché proni al comando, quale che esso sia.
L’obbedienza non è pura cupidigia di servilismo. Essa si regge sulla paura: la paura della punizione, il timore di tornare ad occupare quel solo posto che le proprie modeste qualità consentirebbero.
Il potere è centripeto, guarda all’interno, non possiede velleità persuasive, la fascinazione che genera è perversa: esso costringe, blandisce, ricatta, premia o punisce, tiene in scacco.
La sua forza non viene (quasi mai) dal consenso che riscuote, ma dal timore che incute.[1]
E’ così che proliferano stuoli di cortigiani, solerti nel sostenere le tesi del capo, anche quando queste si rivelano manifestamente infondate.[2]
La clonazione, a cascata, di un funzionariato acefalo conferisce all’organizzazione una finta immagine di forza e di coesione interna, ne mimetizza la crisi latente ma – contemporaneamente – ne accentua la separatezza dal proprio corpo vivo. Allora, la distanza fra rappresentanti e rappresentati (fra governanti e governati) si allarga sino a diventare incolmabile.
E’ soprattutto nei momenti di stagnazione sociale che le organizzazioni si sclerotizzano, che i luoghi della rappresentanza si autonomizzano e degenerano nell’autoreferenzialità.
Organo e funzione si separano, i mezzi divorziano dai fini, la democrazia come partecipazione avvizzisce e lascia il posto ai riti plebiscitari.
Il leaderismo non è la variante di una democrazia venata di autoritarismo, ne è l’esatto contrario. E’ la rinunzia al proprio ruolo, al pensare in proprio.
C’è un Cesare che pensa ed opera per me. Egli non può sbagliare: se cade, tutto precipita.
Il dissenso diventa allora il peggiore dei delitti, la fenditura che incrina la diga. In esso, nella rivendicazione di criticità, si intravede il rischio della dissoluzione o di un indebolimento delle inossidabili certezze e, soprattutto, del potere costituito.
Il suo intrinseco monolitismo non sa (non può) riconoscere la ricchezza della dialettica. Che invece dovrebbe essere stimolata e accolta come una benedizione da parte di chi lavora per la democrazia.
Per mettere alla prova la realtà occorre vederla camminare sulla corda tesa, perché “solo quando le verità si fanno acrobati possiamo giudicarne il valore”.[3]
Quando invece si rinuncia alla ricerca del vero, che sempre confligge con l’inerzia della realtà data, si impone la “verità rivelata”, appannaggio di una casta sacerdotale che custodisce l’ortodossia e la brandisce come una clava contro chiunque vi si opponga.
Chi dissente è un eretico, un seminatore di discordia, da eliminare o da neutralizzare. Saranno soltanto i tempi, le circostanze, i metodi in auge a stabilirne il modo.
Anche il potere rivoluzionario tende fatalmente ad autocelebrarsi, ad ossificarsi, a vedere nella dialettica che si produce al suo interno un imminente pericolo dissolutivo ed eversivo del nuovo ordine.
Ma negando il dissenso la rivoluzione nega se stessa: nata per abbattere il dispotismo diventa essa stessa dispotica, si converte nel suo opposto.
Ecco perché quando si insedia un potere, di qualsiasi natura, è indispensabile fare nascere degli anticorpi, perché è nella fisiologia del potere mantenersi ad ogni costo.[4]
Quando il carattere democratico di un’organizzazione viene meno, quando la regola si dissolve nell’arbitrio, allora è necessario ribellarsi: “la disobbedienza, per chiunque conosca la Storia, è la virtù originale dell’uomo. Con la disobbedienza il progresso è stato realizzato; con la disobbedienza e la rivolta”.[5]
La disobbedienza, infatti, non è mai soltanto oppositiva. In essa c’è sempre, più o meno consapevolmente, un nucleo “costituente”. Occorre rendere esplicito e organico quel nucleo, far vivere fino in fondo, marxianamente, lo “spirito di scissione”.[6]

Ciò significa gettare nella lotta tutte le proprie risorse intellettuali, politiche e morali.
Se ciò non avviene, si cade inesorabilmente nella subalternità, si apre una fase di “rivoluzione passiva”.

Sindacato e Partito democratico- ciascuno nel proprio ambito – condividono lo stesso processo regressivo: il primo rinunciando, in quanto ritenuta velleitaria e rétro, ad un’autonoma soggettività del lavoro e rinculando dentro la cultura d’impresa; il secondo riducendosi ad una variabile più potabile del pensiero liberale, lungo una traiettoria ormai del tutto estranea all’ispirazione costituzionale.
Il nostrano riformismo ne è un eloquente esempio: introdurre piccole dosi di nuovo per salvare il vecchio, per consolidare l’egemonia delle classi dominanti.

Senza una critica radicale e senza una conseguente lotta sociale la crisi del capitalismo, per quanto profonda, si risolverà in una ristrutturazione: il capitalismo si rinnoverà trovando in se stesso le risposte che ne consentano la perpetuazione.
In altri termini, se il governo senza (separato dalla) società genera privilegi castali, corruzione, degenerazione della democrazia, derive oligarchiche, la sinistra senza (separata dalla) società, o introietta questi vizi omologandosi e, dunque, disintegrandosi, oppure diventa proteiforme, paralizzata da un sincretismo culturale che la rende incapace di elaborare una visione unitaria della realtà.[7]

Al contrario, essa deve rifondare se stessa riscoprendo le proprie radici sociali nella classe lavoratrice nella quale e per il riscatto della quale è nata,[8] nella inestirpabile contraddizione fra capitale e lavoro, nella realtà non esorcizzabile dello sfruttamento, nella rivendicazione della libertà e dell’uguaglianza, nell’antagonismo fra il modo capitalistico di produzione e le condizioni di riproduzione della specie umana come ente naturale.


[1] Si rammenti il capitolo XVII del Principe di Machiavelli (De crudelitate et pietate, et an sit melius amari quam timeri, vel e contra) dove il segretario fiorentino spiega che per il principe che vuole mantenere il potere l’ideale sarebbe potere essere amato e temuto insieme, ma poiché le due cose si trovano raramente congiunte, dovendo scegliere, è meglio essere temuto, perché l’amore può passare, ma la paura non viene mai meno (Niccolò Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino, 1961, pp.79-84).
[2] Si veda con quale lucidità Antonio Gramsci denunci i pericoli di quella degenerazione autoritaria che esalta i “corifei” e mortifica il pensiero critico, libero e indipendente: “(…) Tizio lancia un grido e tutti applaudono e si entusiasmano; il giorno dopo la stessa gente che ha applaudito e si è entusiasmata a sentire lanciare quel grido finge di non sentire, scantona, ecc.; al terzo giorno, la stessa gente rimprovera Tizio, lo rintuzza e anche lo bastona. Tizio non ne capisce nulla; ma Caio che ha comandato Tizio, rimprovera Tizio di non aver gridato bene, o di essere un vigliacco o un inetto, ecc. Caio è persuaso che quel grido, elaborato dalla sua eccellentissima capacità teorica deve sempre entusiasmare e trascinare, perché nella sua conventicola infatti i presenti fingono ancora di entusiasmarsi” (dai Quaderni del carcere, nella versione curata da Platone, intitolata Passato e presente, Einaudi, Torino, 1952, p.70).
[3] Oscar Wilde, Aforismi, Edizioni economiche Newton, Roma, 1993
[4] Cfr il saggio di Cesare Musatti, Il contrario, in Chi ha paura del lupo cattivo, Editori Riuniti, Roma 1987, pp.150-9
[5] Oscar Wilde, Aforismi, Edizioni economiche Newton, Roma 1993
[6] Vedi il saggio di Giuseppe Prestipino Dialettica, in Le parole di Gramsci, per un lessico dei Quaderni del carcere, a cura di Fabio Frosini e Guido Liguori, Carocci, Roma, 2004, pp.55-73
[7] Il mito racconta che Proteo, ministro di Poseidone, dio del mare, fosse capace di trasformarsi in ogni creatura per sottrarsi al compito profetico di rivelare agli uomini la verità e il loro futuro
[8] Il mito racconta che Anteo moltiplicasse le proprie forze sino a rendersi invincibile ogniqualvolta toccava la terra, sua madre. Anteo viene abbattuto da Ercole solo quando questi riesce a tenerlo sollevato per aria, prosciugando la fonte delle sue energie

lunedì 2 gennaio 2017

La disoccupazione non è una calamità atmosferica






Nel suo discorso di fine anno il presidente della Repubblica ha voluto ricordare che la disoccupazione e in particolare quella dei giovani, costretti ad emigrare o ad accettare di passare sotto le forche caudine di un lavoro precario, umiliante, sottopagato, è una patologia del nostro sistema. Ed infatti lo è, drammaticamente, se un giovane su due è senza lavoro, al netto delle statistiche bugiarde che considerano una persona occupata se svolge un’attività per un giorno alla settimana, per una settimana al mese o per un mese all’anno.
Una patologia, sì, che come tale ha delle cause e delle responsabilità, per nulla oscure o indecifrabili.
La domanda è: se la Repubblica (così c’è scritto nella Costituzione) “riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”; e se – è ancora la Costituzione che parla – “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, quali sono le cause di una così devastante violazione della legge fondamentale dello Stato? E quali - insisto – i responsabili della revoca dei due fondamentali pilastri su cui dovrebbe reggersi la nostra convivenza: libertà e uguaglianza?
Questo il presidente della Repubblica nel suo messaggio non l’ha spiegato. Forse per farlo occorreva un altro presidente: il partigiano Sandro Pertini, per esempio, ma tant’è.
Certo è che la disoccupazione non è una calamità atmosferica, sebbene persino i fenomeni naturali siano in qualche misura prevedibili e contenibili nei loro effetti più distruttivi da un’efficace opera di prevenzione.
Ma cosa servirebbe per generare occupazione, occupazione sana e dignitosa? Essenzialmente tre cose: “braccia” (cioè disponibilità di lavoro), “cose da fare” (e dio sa quanto sarebbe possibile investire nella bonifica del territorio, nella manutenzione della infrastrutturazione primaria del Paese, nella ricerca scientifica e nella cultura, nel sistema di protezione sociale) e “denaro” (disponibile in grande quantità se il prelievo fiscale avvenisse secondo i criteri di proporzionalità previsti dalla Costituzione, se si colpisse la mastodontica evasione che ruba risorse vitali allo Stato).
Ebbene, se queste condizioni non si realizzano è solo per ragioni politiche, legate agli interessi che dominano la vita nazionale ed europea.
Per capirlo basta dare uno sguardo alla ripartizione della ricchezza del Paese e si capirà chi si mangia e come il prodotto del lavoro sociale. E basta riflettere sul carattere brutalmente vessatorio dei trattati europei, sottoscritti da tutti i governi che si sono succeduti alla guida dell’Italia negli ultimi 25 anni. Trattati che hanno sequestrato la sovranità popolare e che in ragione di un’assurda architettura finanziaria impediscono agli Stati di investire in deficit, preferendo che si paghino interessi da usura sul debito. Noi oggi soccombiamo non per una inesorabile necessità economica, ma perché i padroni di sempre si stanno divorando il Paese e il futuro di tutti noi.