lunedì 2 gennaio 2017

La disoccupazione non è una calamità atmosferica






Nel suo discorso di fine anno il presidente della Repubblica ha voluto ricordare che la disoccupazione e in particolare quella dei giovani, costretti ad emigrare o ad accettare di passare sotto le forche caudine di un lavoro precario, umiliante, sottopagato, è una patologia del nostro sistema. Ed infatti lo è, drammaticamente, se un giovane su due è senza lavoro, al netto delle statistiche bugiarde che considerano una persona occupata se svolge un’attività per un giorno alla settimana, per una settimana al mese o per un mese all’anno.
Una patologia, sì, che come tale ha delle cause e delle responsabilità, per nulla oscure o indecifrabili.
La domanda è: se la Repubblica (così c’è scritto nella Costituzione) “riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”; e se – è ancora la Costituzione che parla – “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, quali sono le cause di una così devastante violazione della legge fondamentale dello Stato? E quali - insisto – i responsabili della revoca dei due fondamentali pilastri su cui dovrebbe reggersi la nostra convivenza: libertà e uguaglianza?
Questo il presidente della Repubblica nel suo messaggio non l’ha spiegato. Forse per farlo occorreva un altro presidente: il partigiano Sandro Pertini, per esempio, ma tant’è.
Certo è che la disoccupazione non è una calamità atmosferica, sebbene persino i fenomeni naturali siano in qualche misura prevedibili e contenibili nei loro effetti più distruttivi da un’efficace opera di prevenzione.
Ma cosa servirebbe per generare occupazione, occupazione sana e dignitosa? Essenzialmente tre cose: “braccia” (cioè disponibilità di lavoro), “cose da fare” (e dio sa quanto sarebbe possibile investire nella bonifica del territorio, nella manutenzione della infrastrutturazione primaria del Paese, nella ricerca scientifica e nella cultura, nel sistema di protezione sociale) e “denaro” (disponibile in grande quantità se il prelievo fiscale avvenisse secondo i criteri di proporzionalità previsti dalla Costituzione, se si colpisse la mastodontica evasione che ruba risorse vitali allo Stato).
Ebbene, se queste condizioni non si realizzano è solo per ragioni politiche, legate agli interessi che dominano la vita nazionale ed europea.
Per capirlo basta dare uno sguardo alla ripartizione della ricchezza del Paese e si capirà chi si mangia e come il prodotto del lavoro sociale. E basta riflettere sul carattere brutalmente vessatorio dei trattati europei, sottoscritti da tutti i governi che si sono succeduti alla guida dell’Italia negli ultimi 25 anni. Trattati che hanno sequestrato la sovranità popolare e che in ragione di un’assurda architettura finanziaria impediscono agli Stati di investire in deficit, preferendo che si paghino interessi da usura sul debito. Noi oggi soccombiamo non per una inesorabile necessità economica, ma perché i padroni di sempre si stanno divorando il Paese e il futuro di tutti noi.

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