giovedì 25 maggio 2023

Intervento alla Direzione del Prc (24 maggio 2023)

 Sulle elezioni, al di là dell’esito altalenante, mi pare ci sia una indicazione prevalente. Nei territori dove nei mesi, o addirittura negli anni trascorsi, si è sviluppata un’iniziativa sociale reale, un conflitto partecipato e visibile, il risultato elettorale, quale che sia stata la composizione delle liste a cui abbiamo dato vita, il risultato elettorale è venuto. Due esempi: a Bussoleno, 6mila abitanti, la compagna Nicoletta Dosio, espressione di una lotta, quella della Val di Susa, che entrerà nei libri di storia, ha raggiunto nella lista di Up un risultato importante; a Campi Bisenzio, 46mila abitanti, epicentro della straordinaria lotta della GKN, la lista formata da Sinistra Italiana, Unione Popolare e M5S raccoglie un ottimo 20% e il 28 maggio andrà al ballottaggio contro il Pd. Conflitto sociale e lotta di classe, quando ne siamo protagonisti, pagano e distribuiscono “le carte” alla politica. Fuori da tutto ciò prevale il polititismo o, addirittura, il politicantismo e la consultazione elettorale diventa una contesa interna ai poteri forti e ad un personale politico ad essi prono, sia esso di centrodestra o di centrosinistra.

A Brescia, con tutta evidenza, non è andata bene. Malgrado il buon lavoro fatto da Up con M5S e Pci. La piattaforma era molto avanzata: l’alternatività radicale e l’opposizione ai governi di centrosinistra e di centrodestra, un progetto di profonda trasformazione della città e l’indicazione di un profilo culturale e ideale che comprendeva il secco “no” alla guerra, lo stop all’invio di armi all’Ucraina, la richiesta di smantellare l’armamento nucleare presente nella base militare di Ghedi, l’individuazione di un dignitosissimo candidato sindaco. Tutto ciò è però avvenuto nel vuoto di un’azione sindacale che impregnasse di sé la campagna elettorale, dominata dalla paura del possibile avvento al governo della città di un centro destra impregnato di fascismo, a partire dal candidato sindaco, con uomini dall’inequivoco passato (Ordine Nuovo e Terza posizione). Il cosiddetto voto utile ha calamitato anche voti ( pesino nostri) che mai sarebbero andati alla candidata sindaca del centrosinistra la quale ha invece potuto maramaldeggiare, inventando al proprio sostegno ben 8 liste civiche, almeno 5 delle quali fatte di conglomerati posticci, del tutto inventati, mai esistiti prima delle elezioni e immediatamente scioltisi a risultato conseguito: quello di ottenere, in forza di questa fetente legge elettorale di impronta presidenzialista, uno strapuntino in consiglio comunale, più o meno con gli stessi voti realizzati dalla nostra coalizione, rimasta invece a bocca asciutta. C’è però una questione che non può essere sottaciuta. Voi sapete che Potere al Popolo alla fine si oppose alla coalizione con i 5S. E nell’assemblea di Up si votò, ciascuno in base  alle proprie convinzioni, “una testa un voto”, appunto. L’esito fu, a larghissima maggioranza, di chiedere al nazionale il simbolo di Up che arrivò in meno di 24 ore. A quel punto il portavoce di Pap postò nella chat una chiarissima dichiarazione: “Questa non sarà la nostra campagna elettorale”. Da quel momento Pap è letteralmente sparita: dalla lista, dalla raccolta delle firme, dalla campagna elettorale che è stata portata avanti da Rifondazione con gli indipendenti, di formazione prevalentemente pacifista e ambientalista. La cosa non può non fare riflettere e ha generato fra le nostre file una ripulsa generalizzata e molto forte nei confronti di Pap. Non sarà per nulla semplice venirne a capo. Mercoledì prossimo è prevista l’assemblea di Up, attesa ad una prova decisiva.

Condivido le proposte avanzate sull’articolazione di temi sui quali ingaggiare la campagna referendaria.

Sottolineo però le due questioni prevalenti su cui il nostro impegno deve tenere botta: la questione antifascista (a Brescia c’è un proliferare di agguati: manifestazioni, tutte autorizzate da prefettura, questura e dal Comune di Bs di centrosinistra a guida Pd;  scritte naziste sui muri delle scuole e, per contro, divieto agli antifascisti di presidiare piazza della Loggia con l’invio della Digos ad eseguire il provvedimento che per altro nemmeno la polizia politica ha avuto il coraggio di applicare. Tutto ciò mentre accade che Chiara Colosimo (deputata di Flli d’Italia, intima amica di Luigi Ciavardini, l’ex estremista nero dei Nar condannato, fra le altre imprese delittuose, a 30 anni di carcere per la strage di Bologna) viene nominata presidente della Commisione Stragi; la questione della guerra, giunta ad un drammatico punto critico e a rischio evidente di degenerazione in guerra totale. Che Zelensky, vestito con un maglioncino effigiato con la spada nel tridente, simbolo del collaborazionismo fascista ukraino e del gruppo neofascista di Pravyj Sektor, venga a Roma a spiegare al Papa di stare al proprio posto che la guerra non si fa con il negoziato, ma con le armi, e che contemporaneamente Giorgia Meloni dichiari che l’Italia addestrerà i piloti ukraini che dovranno pilotare gli F16, pone a tutti noi l’urgenza di una mobilitazione di amplissime proporzioni, perché della gravità della situazione continua a non esservi un’adeguata percezione.

lunedì 24 aprile 2023

Il fascismo non è un’idea, è un crimine L’antifascismo è la cura

 



Sostiene La Russa, seconda carica dello Stato e fascista d’antan, che “nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’antifascismo”. E se ne capisce la ragione, perché La Russa – secondo il quale l’azione di guerra condotta dai partigiani in via Rasella “non colpì soldati nazisti, ma una banda musicale di semi-pensionati” - la Costituzione non l’ha mai letta. Altrimenti scoprirebbe che ogni parola, ogni articolo della Legge fondamentale della Repubblica nata dalla Resistenza trasuda antifascismo. E tale è il progetto di società che la innerva.

Il fascismo fu un regime dittatoriale impregnato di razzismo, antisemitismo, violenza e sopraffazione. L’antifascismo ne fu storicamente e ne è oggi l’esatto opposto.

Nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione sta scritto, in termini inequivocabili, che “E’ vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. E due specifiche leggi della Repubblica, la legge Scelba del 1952 e la legge Mancino del 1993 puniscono chiunque metta in atto gesti, azioni e slogan legati all'ideologia fascista o provino a riorganizzare quel partito e qualunque associazione, movimento, gruppo che ha fra i propri scopi l’incitamento all’odio e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi.

Eppure ciò non avviene. Casa Pound, Blocco studentesco, Forza nuova, organizzazioni dichiaratamente fasciste e filonaziste, compiono quotidianamente e impunemente aggressioni, propaganda fascista.

Gli uomini stessi della compagine che governa questo paese hanno recentemente intestato, nella nostra città, un circolo di FdI a Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, antisemita e “mandante morale” della stage di Piazza della Loggia.

Lì stanno le radici dell’infezione che devono essere rimosse. E tocca anche a noi cittadini, come chiede la Costituzione, contrastare l’inerzia dei poteri costituiti e farne osservare i sacri principi.

Unione popolare: scommessa gravida di futuro o riedizione di un film già visto?

 


La sciagurata legge elettorale che nelle sue spericolate varianti condiziona da molti anni la vita politica nazionale è servita a inchiavardare il sistema politico in una ferrea logica bipolare, utile a mandare in soffitta, insieme alla proporzionalità della rappresentanza parlamentare, una reale dialettica democratica, coartandola nella camicia di forza del “voto utile”. Si vota, quando ancora si vota, per chi si suppone meno lontano, non per chi è più vicino al proprio sentire, perché le minoranze sono nei fatti espulse dall’ingranaggio stritolante di una competizione elettorale che si gioca con carte truccate. L’equivalenza sostanziale del profilo politico-culturale dei principali competitors ha ormai persuaso la metà dei cittadini ammessi al voto che le elezioni non servono a niente se non a gratificare le ambizioni e gli interessi di un personale politico totalmente autoreferenziale, dedito ad applicare i dogmi mercatisti del “pilota automatico” di conio draghiano. Da un simile colpo al plesso solare la democrazia rischia seriamente di implodere.

 

La costruzione di una coalizione politica non ha alternative

Ecco perché, nella situazione data, la necessità di costruire un’aggregazione di soggettività politiche capace di costituire una massa critica sufficiente diventa la conditio sine qua non per non ridurre la presenza di ciò che resta della sinistra di classe ad un esercizio di velleitaria testimonianza.

Per questo credo necessario compiere ogni sforzo affinché Unione popolare, pur nel suo traballante incedere, continui ad esistere. Purché duri e non si riduca soltanto ad uno degli episodi transeunti di questa nostra eterna transumanza da una coalizione all’altra, in cerca d’autore.

Va da sé che se al primo tornante riusciremo a distruggere anche Unione popolare infliggeremo al morale non troppo alto dei nostri militanti un colpo difficilmente riassorbibile.

 

Via dalle pulsioni leaderistiche

Tuttavia, perché la costruzione finalmente funzioni, dobbiamo imparare dagli errori compiuti. Per esempio, emancipandoci dalla tendenza a ritenere più di ogni altra cosa decisiva la rincorsa a reclutare qualche personaggio eccellente, qualche “papa straniero” che si suppone capace di conferire alla coalizione il “soffio della vita”. Ci abbiamo provato più volte e la cosa, con tutta evidenza, non ha funzionato.

Il rifugio salvifico nel (presunto) leader carismatico di turno nasconde una sostanziale sfiducia nella propria proposta politica e si è rivelato una scorciatoia praticata nella speranza, o meglio, nell’illusione, che questa sovraesposizione personale, questo cedimento ad una forma di populismo “sui generis”, potesse riscattare il nostro insufficiente radicamento sociale, l’assenza di un conflitto di classe che lo innervi, vera radice di una nostra perdurante marginalità politica.

 

Unione popolare non può crescere su se stessa

So bene, ovviamente, che le elezioni non sono tutto e, per un partito comunista, neppure il prevalente, ma oggi, come ieri e credo anche domani, sarà ineludibile la questione della partecipazione alle consultazioni elettorali, croce di tutta la storia del Prc, visto che intorno a quegli appuntamenti si sono consumate sanguinose rotture e, ancora oggi, feroci e irriducibili contrasti.

Ora, che Up debba cercare, con ogni determinazione e in quanto possibile, alleanze elettorali, tanto nelle consultazioni politiche generali quanto in quelle amministrative regionali e comunali, dovrebbe essere, come suggerisce il buon senso, sforzo condiviso e non motivo di laceranti contenziosi pseudo-ideologici. Certo, devono essere soddisfatte condizioni minime: un programma accettabile, l’alternatività al centrosinistra e poche altre cose essenziali. Chi pensa che Up possa crescere su se stessa, guardandosi l’ombelico e svilupparsi per “partenogenesi”, respingendo aprioristicamente qualsiasi convergenza, sbaglia di grosso e si condanna (ci condanna) ad uno sterile arroccamento identitario, figlio di un retaggio settario che finisce per precludersi qualsiasi concreto obiettivo di cambiamento della realtà esistente.

Questa è però solo una parte del ragionamento.

 

Alle elezioni ci si presenta. Sempre

L’altra ha anch’essa a che fare con il principio di realtà: cosa facciamo quando ogni tentativo di costruire un’alleanza elettorale, sinceramente e con convinzione perseguito, si rivela infruttuoso? Oppure quando la sola possibilità che ci si presenta è quella di essere cooptati in un ruolo gregario dentro uno schieramento che snatura il nostro programma e la stessa ragione della nostra esistenza, cioè l’essere alternativi al centrodestra e al centrosinistra? Cosa facciamo? Ci asteniamo dal presentarci e scaldiamo i muscoli in attesa che maturino tempi diversi e che qualcuno, prima o poi, ci offra un salvagente a cui aggrapparci? Rinunciamo cioè alla nostra autonomia e certifichiamo la nostra dipendenza da altri?

La “condanna” di ogni partito, o anche di una semplice coalizione, impone di partecipare alle elezioni. Se non lo fai risulti invisibile, perché vuol dire che non possiedi un’idea di paese, o di regione, o di comune da contrapporre a chi governa o amministra. Confermi, cioè, implicitamente, che c’è un recinto, gelosamente custodito dagli attuali protagonisti della scena politica, al di là del quale non esiste e non può esistere nulla.

Conosco l’obiezione: riscuotere un risultato scarso, o scarsissimo - l’incubo dello “zerovirgola”, per capirci - delude, mortifica, scoraggia: di sicuro non solleva il morale di nessuno. Ma nascondere in modo tartufesco la propria marginalità sotto il tappetto può tuttalpiù esorcizzare, ma non cambiare, la realtà delle cose. E neanche questa mi pare una buona soluzione.

I nostri veri maestri, i comunisti che si batterono nelle condizioni più disperate, non esitarono mai a presentarsi alle elezioni, almeno finché non fu loro impedito manu militari: forse merita ricordare che Gramsci entrò in parlamento con le elezioni del 1924, le ultime elezioni multi-partitiche a sovranità popolare svoltesi nell’Italia che stava per sprofondare nella dittatura fascista.  

 

 

Settarismo e politicismo: due errori fatali

A me pare che molti di noi sottovalutino e, contemporaneamente, sopravvalutino l’appuntamento elettorale. Lo si sottovaluta perché si pensa che l’approdo istituzionale non serva in quanto conta solo il “sociale”, ed è un errore; lo si sopravvaluta perché, all’opposto, lo si vive come una sorta di “certificato di esistenza in vita”, sulla base di un presunto primato assoluto del “politico”, ed è un altro errore.

Allora, a me pare che contro il settarismo identitario e il politicismo c’è forse quella che è la via maestra: stare con continuità dentro i conflitti, cogliere ogni movimento reale della società e la ripercussione che quel movimento esercita sulla politica: rendersi capaci dell’analisi differenziata e metterla al servizio di una intelligente capacità di azione politica. Insomma, occorre capire che non ci si trova mai “nella notte dove tutte le vacche sono nere” e, nello stesso tempo, prepararsi ad una lunga marcia, perché non esistono scorciatoie che trasformino in un batter di ciglio i brutti anatroccoli in magnifici cigni.

Così si salda la tattica alla strategia e si evitano i due rischi capitali. Il primo: quello di fare della strategia l’unica tattica, che significa declinare, in ogni momento, se stessi, con ossessiva ripetitività, vietandosi ogni possibilità di manovra politica e consegnandosi ad una predicazione millenaristica; il secondo: quello di fare della tattica la sola strategia, perdendo di vista l’obiettivo, cedendo all’improvvisazione, all’elettoralismo fine a se stesso che fatalmente conduce all’opportunismo.

Se su questi nodi cruciali è bene venire in chiaro. Talvolta per fare un passo avanti è necessario dividersi, nella chiarezza.

 

Unione popolare e il Prc: una relazione da chiarire

L’ipotesi di trasformare UP in un partito non esiste, se non nella testa di qualche intellettuale orfano di una propria collocazione identitaria. Bisogna togliersi dalla testa che Up, attraverso un’acrobazia da prestigiatore, possa (o debba!) trasformarsi nel partito che non riusciamo ad essere. Questo equivoco può marciare solo ove non si comprenda quale differenza passi fra un movimento plurale ed un partito comunista, soggetti di natura diversa e con compiti diversi: da una parte, il partito comunista, che deve organizzare /promuovere/guidare la lotta di classe, sapere leggere le contraddizioni della formazione economico-sociale capitalistica e delineare un progetto di radicale trasformazione della società; dall’altra una coalizione ampia, “a bassa soglia d’ingresso”,  che deve avere come cornice politica e culturale la Costituzione antifascista, compito essenziale, in una situazione  nella quale quasi l’intero arco parlamentare è ad essa ostile (ai suoi principi, ai suoi valori, alla sua architettura istituzionale, al progetto di società che la innerva).

Se UP deve diventare (quale ancora oggi non è) un movimento largo e inclusivo, noi non dobbiamo chiedere a nessuno che voglia parteciparvi di professarsi comunista. Con l’avvertenza che nessuno può chiedere a noi di rinunciare ad esserlo e a rimanere organizzati nel partito con la falce e martello. Dunque, il movimento deve avere unicamente nel programma politico il comune punto di riferimento.

 

Il tema decisivo della sovranità: chi decide?

Ovvero: come si decide dentro Up. In questo caso non è a mio avviso possibile adottare il criterio canonico di ogni democrazia: “Una testa un voto”, dove “uno vale uno”. 

Questo lo si può fare dentro un partito o dentro un’aggregazione che ha ormai raggiunto un livello molto forte di omogeneità politica, al punto di poter essere considerato un soggetto unico dove, legittimamente, si decide a maggioranza. Non lo si può fare dentro un contenitore formato sia da soggetti politici organizzati, sia da singole persone.

La drammatica vicenda di 4 anni fa, dentro Potere al popolo, è lì dimostrarci che la rottura avvenne proprio su questo: la pretesa di Pap di votare a maggioranza semplice su tutto, mentre Pap lanciava l’Opa sul Prc. Se questa logica riprende il sopravvento, il cortocircuito è dietro l’angolo.

Esiste un solo modo, per quanto non esente da complicazioni, per procedere, ed è la decisione condivisa (a larghissima maggioranza). Questo implica tre conseguenze della massima importanza: che non può esservi alcuna cessione di sovranità da un partito costituito ad UP che diventerebbe automaticamente un soggetto politico sovraordinato; che tutto ciò che unisce deve essere agito, nello spazio pubblico, come UP; che tutto ciò che non è condiviso restituisce a ciascun soggetto il diritto-dovere di agire in proprio.

Naturalmente sui temi controversi si continua a discutere e le pratiche comuni non possono che aiutare ad ampliare l’area della condivisione.

Il rischio che questa prassi possa porre chi non fa parte di una forza organizzata nella scomoda posizione del vaso di coccio fra vasi di ferro esiste, ma l’impegno ad assumere decisioni solo se largamente condivise può aiutare anche in questo caso.

 

L’adesione ad Unione popolare è un optional?

Se il partito aderisce come tale ad Up, sulla base cioè di una decisione degli organismi dirigenti, questo vale per tutti e per tutte. Quindi ognuno/a è intraneo/a ad Up e non c’è bisogno di un doppio tesseramento per formalizzarlo. Si può essere d’accordo oppure no, ma questo non toglie nulla al valore della decisione. Ricordo che una volta, nel Pci, quando si accendeva una dialettica interna, chi aveva posizioni risultate in minoranza, doveva essere il primo a sostenere pubblicamente le posizioni della maggioranza. La cosa può apparire (e per certi versi era) un po’ perversa, ma aveva una sua logica: quella che la linea della maggioranza, sino a quando non cambia, è la linea di tutti, perché da questa coerenza e da questo rigore dipendono la forza e la credibilità del partito. Pretendere l’applicazione della linea adottata non è un atto di prevaricazione: è semplicemente la condizione di esistenza del partito stesso. Noi invece no. Il nostro partito è sicuramente libertario, ma solo per approssimazione comunista, al punto che è possibile sottrarsi all’impegno – che dovrebbe essere più che mai vincolante - di presentare alle elezioni la lista elettorale di cui facciamo parte. Sembra che da noi ognuno possa farsi il proprio Prc personale, quello che coincide con le proprie personali convinzioni.

Dunque, tutti noi facciamo parte di Up, finché non cambiamo linea. Chi non ha partito deve invece potere formalmente segnalare la propria adesione, con una dichiarazione on-line, e sottoscrivere una quota, non consistente, ma non risibile. Questo non deve competere agli iscritti/e, né al Prc che finanzia Up come nessun altro soggetto (denaro, sedi, materiali, e così via).