lunedì 27 marzo 2017

Vacanze romane




Nell’atmosfera surreale di una capitale blindata e presidiata dai mezzi pesanti dell’esercito, tanto da sembrare in stato d’assedio, si è svolta sabato la celebrazione del sessantesimo anniversario dei trattati di Roma.
Il bronzeo ottimismo ostentato dai 27 leader europei non poteva – e in effetti non ha potuto – nascondere l’evidenza del fallimento di un’Unione Europea della quale restano in piedi solo i muri, le barriere, i fili spinati eretti per difendere la fortezza continentale dall’esodo delle vittime del neocolonialismo moderno e delle guerre esportate nel nome della democrazia, ma in realtà scatenate per lucrare profitti.
C’era ben poco da festeggiare e la retorica di cui è imbevuta la dichiarazione finale non fa che stridere con il vuoto pneumatico che ne caratterizza i contenuti. Eppure i convitati scherzano, danno di gomito e fanno battute come amiconi ad un pranzo di coscritti.
Sono in disaccordo su tutto, i 27, meno che sui trattati che formano l’ossatura delle politiche liberiste: tutti lì a difendere come un sol uomo l’intangibilità dell’ingranaggio infernale che sta affamando i cittadini , abolendo i diritti sociali, umiliando il lavoro, revocando la sovranità dei paesi membri, ormai privi di potere reale, avocato a sé da un’oligarchia di banchieri e di burocrati del capitale.
Giornaloni e giornalini (da Repubblica al Corriere, passando per l’Unità) hanno retto il moccolo a questa indegna esibizione, spacciata per un rilancio dell’afflato unitario.  E c’è stato persino chi, come il presidente Mattarella, ha finto di credere nell’esordio di una “nuova fase costituente”. O chi ha provato a inventarsi una parentela fra il mostro edificato da Maastricht in avanti e il Manifesto di Ventotene con cui, dal confino di polizia, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann avevano immaginato la costruzione di un’Europa come confederazione di Stati socialisti, affrancata dalla dominazione dei potentati finanziari.
Sabato hanno manifestato, in modo del tutto pacifico, alcune migliaia di persone, giunte a Roma per denunciare il carattere fraudolento dei trattati europei e per dire che per salvare l’Europa, i popoli che in essa vivono e ciò che resta della democrazia occorre disfarsi della camicia di forza, della tenaglia che sta stritolando la nostra Costituzione.
La stampa asservita al potere, quasi tutte le testate e le emittenti televisive, come al solito opportunamente imboccate,  hanno per giorni profetizzato la calata a Roma dei famigerati “black bloc”, che armati di tutto punto avrebbero compiuto il sacco della città.
Verranno in duemila da tutta Europa - avevano detto i responsabili dell’intelligence, esperti nei diversivi e nella luciferina capacità, messa tante volte in mostra, di lasciare liberamente scorrazzare poche centinaia di guastatori per potere poi infangare decine di migliaia di pacifici manifestanti. Ma del “blocco nero” non si è vista traccia. Eppure tanto è bastato a creare un clima di paura e a scoraggiare la partecipazione al corteo, ad indurre i negozianti ad abbassare le serrande. Presa col sorcio in bocca la questura di Roma ha emesso un comunicato in cui si dice che “è stato sventato un chiaro progetto di devastazione”. I protagonisti? Ben 30 persone a cui è stato notificato il foglio di via obbligatorio.

lunedì 20 marzo 2017

Voucher e appalti: la Caporetto del governo




E’ apparso subito chiaro che Gentiloni avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di evitare il referendum sui voucher e sugli appalti, anche a costo di vedere smottare un pezzo delle controriforme sul lavoro prodotte dal governo Renzi. E l’ha fatto, in barba alla coerenza, che per i nostri governanti è l’ultimo problema, liquidando con una rasoiata l’intero dispositivo di legge oggetto dei quesiti sottoposti al giudizio degli elettori.
Una nuova sconfitta subita nelle urne a furor di popolo sarebbe suonata come una campana a morto per il governo fotocopia e avrebbe con tutta evidenza segnato la fine della legislatura.
I ministro della precarietà, tale Giuliano Poletti, che nel dicembre scorso si era fatto sfuggire la frase che “le leggi non si cambiano per evitare i referendum perché il referendum è un atto di democrazia” ora tace, introvabile da chiunque gli chieda conto delle ragioni che lo avevano spinto, insieme ai suoi, a dichiarare che il governo avrebbe prodotto al testo di legge le modifiche che avrebbero impedito il ricorso alle urne, senza cancellare del tuttogli istituti in questione. Ma il timore che la Corte costituzionale potesse non ritenere quelle modifiche sufficienti ad evitare la consultazione popolare, ha prevalso su tutto.
Il governo procederà con la decretazione d’urgenza, uno squillo di tromba per ordinare una precipitosa ritirata, almeno per il momento.
Ora strillano come aquile tutte le associazioni padronali, Confindustria in testa, che si vedono sfilare dal mazzo degli strumenti che i governi di Monti prima e di Renzi poi avevano messo loro a disposizione per sfruttare meglio il lavoro e fare soldi facili: il Jobs act, elevato a simbolo della modernità - la modernità del capitalismo più aggressivo e spregiudicato - imbarca acqua da cento falle.
Certo, nel sacco della precarietà c’è ancora tanta roba, a partire dalla  possibilità di licenziare senza giusta causa, considerato che il quesito per resuscitare (almeno parzialmente) l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è stato inopinatamente dichiarato improponibile dalla Corte costituzionale.
Attenzione, però, perché il veleno si nasconde spesso nella coda. Il ricorso alla decretazione consente infatti di baipassare il temuto scoglio del referendum ma, come si sa, il provvedimento deve essere successivamente convertito in legge entro 60 giorni, pena la decadenza che farebbe tornare la situazione nello status quo ante. E si può essere certi che questo governo di morti viventi cercherà di rimettere in circolo qualche tossina.
In ogni caso, due fatti, entrambi figli della vittoria del 4 dicembre, restano: i voucher, estesi ad libitum dal governo Renzi, sono stati tolti di mezzo, come viene soppressa la norma che assolve la ditta appaltante da qualsiasi responsabilità per le violazioni di legge e contrattuali dell’appaltatore.
Ora si tratta di non mollare la presa e di affondare i colpi sull’intera impalcatura delle politiche contro il lavoro che sono il distintivo classista delle forze a cui il governo in carica risponde. Per farlo con efficacia è innanzitutto necessario rilanciare il conflitto sociale, da troppo tempo senza guida. E poiché al voto prima o poi si dovrà tornare serve sviluppare nel paese una campagna che porti alla liquidazione definitiva del sistema elettorale maggioritario e al ripristino proporzionale della rappresentanza parlamentare.

lunedì 13 marzo 2017

Ue: una catena che va spezzata, per un’altra Europa



C’è davanti a noi un’emergenza assoluta a cui rispondere dalla sponda sinistra della politica italiana. Per non fare confusione lo dirò nel modo più esplicito: da un punto di vista di classe.
Sto parlando della crisi dei popoli europei, stritolati fra le ganasce della tenaglia dei trattati dell’Unione che i gruppi sociali dominanti fingono di fare coincidere con la stessa idea d’Europa.
Per cui se dici che i vincoli di bilancio e le politiche di austerità che ne conseguono sono un trucco per abbattere salari, welfare e diritti sociali; se dici che la sovranità popolare scritta nella Costituzione è l’esatto opposto del potere di cui si è appropriata un’oligarchia transnazionale di banchieri; se dici che ogni palliativo non è che fumo negli occhi e che quella camicia di forza va spezzata perché protrarre lo status quo significa condannarsi ad una drammatica deriva autoritaria; se dici tutto questo, che è la pura verità, ti bollano con il marchio dell’antieuropeismo, ti additano come troglodita incapace di vedere le magnifiche opportunità che l’Europa del capitale offre al progresso comune. E - soprattutto – ti spiegano che l’uscita unilaterale da questa gogna sarebbe peggio e che a pagare sarebbe proprio la parte più debole della popolazione.
Dunque – ammoniscono – state buoni perché non c’è alternativa.
Singolare che a sostenere questa tesi sia proprio la parte più forte: gli oligarchi di Bruxelles, le associazioni padronali, i grandi trust e le corporation più aggressive, vale a dire i protagonisti del più colossale arricchimento per predazione che si sia realizzato nel mondo sin dai tempi dell’accumulazione originaria. Sono loro, gli spacciatori della teoria secondo la quale “la ricchezza fa alzare tutte le barche”. Peccato che – come ricordava il compianto Luciano Gallino – la ricchezza faccia alzare soltanto gli yacht e che agli altri non resti che remare nelle galee di lor signori.
Spopola nel lessico corrente un’altra accusa con cui si vorrebbe marchiare di infamia chi si rende conto che così non si può andare avanti: è l’accusa di “populismo”.
Ma cos’è il populismo? E’ per forza il contrassegno di una deriva nazionalistica, di una chiusura nell’autarchia? Ma i populismi sono stati tanti e di ogni colore e vanno letti, prima di tutto, attraverso i contenuti della loro azione. Populisti erano anche i socialisti russi che nella seconda metà dell’Ottocento si battevano per l’abolizione della servitù della gleba; populista è stata la rivoluzione con cui Simon Bolivar ha trascinato al ricatto e all’indipendenza il suo popolo; populista è stato il movimento chavista che ha aperto, insieme a Cuba, una stagione di speranza per l’intera America latina; populista è Podemos e lo è stata Syriza nella fase più alta della propria ascesa.
Per dirla con le parole di Gustavo Zagrebelsky, “chi si dà l’aria di anti-populista molto spesso dichiara implicitamente di parlare a nome di qualche establishment, di qualche oligarchia. Il nostro riferimento fisso non può che essere la Costituzione, che non prevede affatto la liquidazione della sovranità popolare. Se questa verrà definitivamente a mancare saremo in balia dell’Europa della finanza e della burocrazia”.

lunedì 6 marzo 2017

Affari di famiglia



 L’affare Consip ha scoperchiato il vaso di Pandora, da cui escono miasmi irrespirabili. Da lì è uscito il brodo di coltura del renzismo che si può così riassumere: il rampollo di casa Renzi ha scalato il Pd e se n’è impadronito grazie al sostegno economico di un groviglio di interessi più che opaco, composto da finanzieri d’assalto, da palazzinari, da speculatori, da spregiudicati imprenditori i quali, essendo tutto meno che filantropi dediti al bene comune, sono poi tornati a bussare alle porte del potere per riscuotere i dividendi del loro investimento.
Questa è la sostanza più autentica che tracima dall’ultimo episodio di malversazione, particolarmente rivelatore per le dimensioni del fatto corruttivo e perché si infila come una lama nel cuore del sistema di potere renziano e persino nella sua famiglia.
Seguiremo gli sviluppi degli aspetti giudiziari della vicenda, ma quale che ne sia l’evoluzione è sin d’ora chiaro che il Partito democratico è ormai corroso da un processo degenerativo fatto di amicizie impresentabili, di familismo, anche geografico, e da un intrico di relazioni amicali che promana dal centro e si estende, giù per li rami, alle periferie più lontane. Ne è profondamente contaminato l’intero partito che non sembra più essere nelle mani dei suoi elettori ma dei padroni delle tessere pagate con poste pay.
La famosa “rottamazione” all’insegna di un nuovismo purificatore, come quella precedente di impronta berlusconiana, si è risolta nella riedizione del più putrido intreccio fra affari e politica, che ha condotto alla rapida ascesa nel firmamento politico di autentici lestofanti.
Illuminante anche la reazione degli ultimi fuoriusciti dal Pd, quelli che hanno dato vita alla nuova formazione denominata “Democratici e progressisti”. Loro chiedono che il ministro Lotti, coinvolto nell’affaire, faccia “un passo di lato”.
Badate la sottigliezza, “un passo di lato” e non dimissioni. Sì, perché non sia mai che la soluzione più radicale metta in crisi il governo e si faccia con ciò il gioco di Renzi che vuole ad ogni costo pervenire alle elezioni prima che la troppa astinenza dalle stanze del potere lo faccia uscire lesso come un cappone.
Che il governo fotocopia Gentiloni non sia in grado di compiere un solo atto di governo di qualche significato e che la situazione del Paese precipiti senza che un cane si preoccupi delle conseguenze che ricadono sulla parte più debole della società è l’ultima preoccupazione degli uni e degli altri.
Ecco come si ragiona (si fa per dire) da quelle parti.
Sulla strada delle manfrine politiciste c’è però un inciampo: la mozione di sfiducia al ministro Lotti del M5S. Cosa farà il neonato Mdp? Andrà in soccorso del sodale di Renzi caduto in disgrazia? Inaugurerà il proprio esordio politico con un peloso e compromettente atto di clemenza?  Resterà unito o si dividerà? Si aprono le scommesse. Vedrete che prevarranno gli interessi di bottega.
La questione morale, in quanto questione politica  – lo aveva già capito Berlinguer oltre 30 anni fa – non ha più corso legale in questo paese.