E’ apparso subito chiaro che Gentiloni
avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di evitare il referendum sui voucher e sugli
appalti, anche a costo di vedere smottare un pezzo delle controriforme sul
lavoro prodotte dal governo Renzi. E l’ha fatto, in barba alla coerenza, che
per i nostri governanti è l’ultimo problema, liquidando con una rasoiata
l’intero dispositivo di legge oggetto dei quesiti sottoposti al giudizio degli
elettori.
Una nuova sconfitta subita
nelle urne a furor di popolo sarebbe suonata come una campana a morto per il
governo fotocopia e avrebbe con tutta evidenza segnato la fine della legislatura.
I ministro della precarietà,
tale Giuliano Poletti, che nel dicembre scorso si era fatto sfuggire la frase
che “le leggi non si cambiano per evitare i referendum perché il
referendum è un atto di democrazia” ora tace, introvabile da chiunque gli chieda
conto delle ragioni che lo avevano spinto, insieme ai suoi, a dichiarare che il
governo avrebbe prodotto al testo di legge le modifiche che avrebbero impedito
il ricorso alle urne, senza cancellare del tuttogli istituti in questione. Ma
il timore che la Corte costituzionale potesse non ritenere quelle modifiche
sufficienti ad evitare la consultazione popolare, ha prevalso su tutto.
Il governo procederà con la decretazione d’urgenza, uno
squillo di tromba per ordinare una precipitosa ritirata, almeno per il momento.
Ora strillano come aquile tutte le associazioni padronali,
Confindustria in testa, che si vedono sfilare dal mazzo degli strumenti che i
governi di Monti prima e di Renzi poi avevano messo loro a disposizione per
sfruttare meglio il lavoro e fare soldi facili: il Jobs act, elevato a simbolo della modernità - la modernità del
capitalismo più aggressivo e spregiudicato - imbarca acqua da cento falle.
Certo, nel sacco della precarietà c’è ancora tanta roba, a
partire dalla possibilità di licenziare
senza giusta causa, considerato che il quesito per resuscitare (almeno
parzialmente) l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è stato inopinatamente
dichiarato improponibile dalla Corte costituzionale.
Attenzione, però, perché il veleno si nasconde spesso nella
coda. Il ricorso alla decretazione consente infatti di baipassare il temuto
scoglio del referendum ma, come si sa, il provvedimento deve essere successivamente
convertito in legge entro 60 giorni, pena la decadenza che farebbe tornare la
situazione nello status quo ante. E
si può essere certi che questo governo di morti viventi cercherà di rimettere
in circolo qualche tossina.
In ogni caso, due fatti, entrambi figli della vittoria del 4
dicembre, restano: i voucher, estesi ad
libitum dal governo Renzi, sono stati tolti di mezzo, come viene soppressa
la norma che assolve la ditta appaltante da qualsiasi responsabilità per le
violazioni di legge e contrattuali dell’appaltatore.
Ora si tratta di non mollare la presa e di affondare i colpi
sull’intera impalcatura delle politiche contro il lavoro che sono il distintivo
classista delle forze a cui il governo in carica risponde. Per farlo con
efficacia è innanzitutto necessario rilanciare il conflitto sociale, da troppo
tempo senza guida. E poiché al voto prima o poi si dovrà tornare serve
sviluppare nel paese una campagna che porti alla liquidazione definitiva del
sistema elettorale maggioritario e al ripristino proporzionale della
rappresentanza parlamentare.
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