lunedì 30 ottobre 2017

L’aumento della speranza di vita: come mentire con le statistiche per truffare lavoratori, giovani e pensionati



L’Istat ha pronunciato la sua sentenza: secondo l’Istituto nazionale di statistica la speranza di vita in Italia si è allungata, precisamente di cinque mesi. Lo splendido mondo in cui viviamo ci avrebbe dunque regalato circa mezzo anno di vita in più. Ma chi campa di più in questo immaginario paese di Bengodi? L’Istat non lo dice, anzi volutamente lo ignora, perché il computo è costruito su una media: da una parte, persone che non hanno mai usato le mani per lavorare, dall’altra, lavoratori che prestano la propria opera nei lavori più gravosi ed usuranti. Tutti quanti nello stesso calderone, in cui non si distingue nulla. Non si racconta quanto campa un addetto agli altiforni in siderurgia, o un edile che sgobba col martello pneumatico sul selciato bollente sotto la canicola estiva o, in inverno, arrampicandosi sulle impalcature precarie degli edifici in costruzione; né si documenta quanto dura la vita dei braccianti agricoli o dei raccoglitori di pomodori nelle campagne pugliesi.
L’inganno è lo stesso di cui ci parlava il grande Trilussa, quando denunciava con sarcasmo l’imbroglio statistico che mischia volutamente poveri e ricchi, per trarne conclusioni fraudolente, spacciate per verità scientifica.
Scriveva  il poeta in una delle sue più ficcanti poesie dialettali:
“(…) da li conti che se fanno
secondo le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra ne le spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due”.
La conseguenza dell’imbroglio è che grazie alla legge Fornero votata come un sol partito da Forza Italia e dal Pd, la pensione di vecchiaia scivola a 67 anni nel 2019, mentre per andare in pensione in anticipo rispetto all’età di vecchiaia, sempre dal 2019 serviranno 43 anni e tre mesi di contributi per gli uomini e 42 anni e tre mesi per le donne.
Come si vede, l’inganno statistico serve a propinare la beffa, che colpisce coloro i quali, stremati da una vita di fatica, scoprono che il miraggio della pensione si allontana continuamente, mentre il governo Gentiloni ha deciso che le pensioni in essere continueranno a non essere indicizzate, perdendo inesorabilmente valore.
Il prezzo lo pagano anche le nuove generazioni che vedono sempre più ostruiti gli sbocchi di lavoro in Italia e fuggono all’estero. L’anno scorso sono espatriate più di 124 mila persone: il 39% di costoro sono giovani fra i 18 e i 34 anni, il 23% in più dell’anno prima.
Questa drammatica situazione dovrebbe almeno rendere consapevoli che gli interessi dei giovani e quelli degli anziani coincidono e che chi contrappone gli uni agli altri non è che un impostore.

martedì 24 ottobre 2017

L’autonomia di Zaia parla di secessione…quella di Maroni non parla a nessuno



 Il referendum-day svoltosi nelle due regioni a trazione leghista, voluto dal Carroccio per farsi propaganda in vista delle prossime elezioni regionali e politiche, ha prodotto due risultati opposti: nel Veneto ha vinto Zaia (58% l’affluenza al voto con un 2% di “no”), mentre in Lombardia è caduto rovinosamente Maroni (37% l’affluenza e il 5% di “no”).

Come ognuno ha potuto vedere, in entrambe le regioni tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione (Lega, Pd, Forza Italia, M5S, persino Fratelli d’Italia che si è dissociata dalla posizione di Giorgia Meloni) hanno invitato i cittadini a recarsi alle urne. Una maggioranza che faceva presagire un plebiscito, che in realtà non si è verificato, da nessuna parte.

Ma il fatto ha una sua rilevanza e il dividendo politico (nel Veneto) lo riscuoterà solo la Lega: agli altri utili idioti, che erano stati nella partita per puro opportunismo, non resterà che il ruolo delle comparse che hanno portato acqua al mulino altrui.

Ora Zaia, gonfio come un pavone, alza il tiro e ai toni pacati della vigilia sostituisce un piglio ben più aggressivo, avanzando pretese che vanno ben oltre la richiesta di una maggiore autonomia in base all’articolo 116 della Costituzione, per tradursi nella rivendicazione esplicita di trattenere in loco nove decimi delle tasse riscosse nella “sua” regione: una tesi dirompente, questa, che fa a pugni con il patto fiscale su cui si fonda l’unità nazionale.

Ecco dunque che il tema della secessione, negato a parole, rientra prepotentemente in gioco, come pure la sempre verde parola d’ordine leghista, “padroni a casa nostra”, con tutti i risvolti antisolidaristici e xenofobi che porta con sé.

Se tutte le regioni si incamminassero su questa strada e pretendessero di godere dei privilegi assegnati alle regioni a statuto speciale saremmo ad un passo dalla disgregazione nazionale, cosa negata a parole, ma abilmente praticata nei fatti.
E il fantasma di Gianfranco Miglio tornerebbe ad aleggiare sulla penisola italica.

Quanto alla Lombardia, il flop di Maroni è clamoroso su tutta la linea. Aveva chiesto un mandato a fare come il suo ben più abile compare veneto e ha ricevuto un sonoro ceffone che non gli ha impedito di millantare un mandato a procedere che il voto gli ha negato.

La sorte non ha risparmiato a Maroni neppure un esilarante effetto comico quando, mentre il voto elettronico andava in tilt e si rivelava clamorosamente più lento dello scrutinio cartaceo egli ne esaltava la modernità ed annunciava una lettera a Gentiloni per chiedere al presidente del consiglio di utilizzare la strumentazione farlocca sperimentata in Lombardia anche per le prossime consultazioni politiche.

Cosa accadrà ora? In concreto nulla, da un lato perché la procedura prevista per aprire il confronto con il governo centrale prescinde del tutto dall’esito della messa in scena referendaria, dall’altro perché la materia fiscale è prerogativa esclusiva dello Stato.
E allora?
Solo tempo e soldi buttati e un bel po’ di propaganda elettorale gratis per la truppa di Salvini.

lunedì 23 ottobre 2017

Altro che sinistra di alternativa: Mdp corre verso il pantano!



Ci risiamo!
Per Mdp nonché articolo 1 l’astinenza da Pd si rifà sentire.
Ed ecco il colonnello Roberto Speranza e il generale Pier Luigi Bersani tornare a prosternarsi davanti a Renzi.

Pensavate davvero che le posizioni del partitino dei transfughi contenessero una riflessione autocritica e irreversibile sulla drammatica stagione politica in cui il Pd, tutto unito, si adoperava per fare a pezzi la Costituzione nei suoi tratti socialmente più rilevanti?

Eccovi serviti!
Speranza riapre ora alla necessità di ricucire lo strappo, perché di fronte alla destra ovunque fortissima “non si può fare finta di niente” e si deve perciò verificare “se è possibile riannodare il filo che si è spezzato col Pd” in quanto solo un “centrosinistra unito” può vincere.

La strategia dell’inciucio che fino a ieri aveva avuto per primattore Giuliano Pisapia è stata riafferrata da coloro che furono i convinti sostenitori del governo bipartisan di Monti.

Ebbene, confessiamo di essere nauseati da questa insopportabile manfrina che si consuma sulle sorti del paese e dedichiamo all’Mdp le parole che nel celebre “Che fare” Lenin rivolse contro l’opportunismo politico bernsteiniano che contagiava parte della socialdemocrazia russa.

“Piccolo gruppo compatto – scriveva Lenin - noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza per mano.
Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco.
Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito la via della lotta alla via della conciliazione.
Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: "Andiamo nel pantano!".
E, se si incomincia a confonderli, ribattono: "Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà d’invitarvi a seguire una via migliore?".
Oh, sí, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati.
Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la nostra grande parola della libertà, perché anche noi siamo "liberi" di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso”.

Guerra per banche, guerra fra massoni



 Che Bankitalia responsabile della mancata vigilanza sui crac bancari non abbia vigilato affatto ed abbia, anzi, girato la testa da un’altra parte “lo sanno anche i bancomat”, come scrive con efficace sarcasmo Marco Travaglio.
Altrettanto lampante è che Ignazio Visco, “detto Tutto-va-ben-madama-la-marchesa” – scrive ancora con tagliente umorismo il direttore del Fatto Quotidiano – in un paese serio “non sarebbe più governatore da un pezzo”.
E allora, perché prendersela col “povero” Renzi che ora ne chiede la testa?
Per una ragione semplicissima, e cioè che per anni il duo Renzi&Boschi ha lasciato marcire le crisi bancarie, “per non turbare l’ottimismo obbligatorio fino al referendum del 4 dicembre 2016”.
In quel tratto di tempo il conto di quel disastro finanziario è cresciuto fino ad oltre sessanta miliardi e i conto è stato messo a carico dello Stato, cioè su tutti noi.
Ma c’è di più, perché lo “scaricabarile” sulla banca centrale serve a mascherare due magagne grandi come un condominio.
La prima è la responsabilità diretta e personale di Maria Elena Boschi in una delle vicende più scabrose fra i crac finanziari italiani, quello di Banca Etruria, che la signorina di Laterina ha cercato in ogni modo di coprire, abusando del proprio potere, negando e spergiurando la propria estraneità di fronte al parlamento, insieme alle pesanti responsabilità del padre che della banca di Arezzo era vicepresidente.
La seconda è che nel preteso licenziamento di Visco si nasconde non la voglia di pulizia, non l’esigenza di restaurare la credibilità gravemente compromessa della Banca centrale, non l’intento di riguadagnare la fiducia popolare verso i compiti di vigilanza di un ufficio che dovrebbe vegliare con scrupolo istituzionale sul risparmio degli italiani, ma la vendetta nei confronti di Visco, reo di avere chiesto il commissariamento della banca del papà della sottosegretaria alla presidenza del consiglio e di averlo multato.
Ora Renzi, recidivo nel considerare gli italiani una mandria di buoi, vende la sua personale crociata come un’iniziativa meritoria, ispirata al rispetto che si deve ai risparmiatori. E dal trenino che lo porta nel peripatetico viaggio propagandistico in giro per l’Italia ordina l’attacco a Visco. Ma da dove è uscita quella mozione? Perché nessuno ne sapeva nulla: non il partito, non i gruppi parlamentari. Cadono dalle nuvole sia il presidente del consiglio sia il capo dello stato.
Po si scopre il mistero: la prima firma sulla mozione di sfiducia la mette tale Silvia Fregolent, deputata che non ha alcuna competenza sulla materia, ma ha il merito di appartenere al ristretto cerchio magico boschiano.
Si tratta, palesemente, di un prestanome e, precisamente, il prestanome di Maria Elena Boschi, vera autrice del papello, nuovamente protagonista spudorata di un mastodontico conflitto di interessi che ogni giorno si gonfia di nuovi episodi.
La vituperata ditta Renzi&Boschi si muove ormai come una bussola impazzita, ma a guidarne le malefatte, nell’ombra e tuttavia sempre più visibili, agiscono lobbies e poteri corruttori; poteri che hanno da tempo espropriato quella sovranità che secondo la nostra Costituzione dovrebbe appartenere al popolo.
C’è solo da chiedersi come sia possibile che costoro tengano in ostaggio un paese intero.

lunedì 16 ottobre 2017

Ecco il risultato del liberismo: ci si infortuna e si muore di più sul lavoro, mentre la speranza di vita diminuisce





Dopo decenni nei quali si assisteva ad un decremento degli infortuni e delle morti sul lavoro (in misura comunque e sempre elevatissima) oggi assistiamo al trend inverso.
Infatti nei primi sette mesi dell’anno i primi sono cresciuti dell’1,3%, le seconde addirittura del 5,2%.

I cantori del nostro decrepito regime hanno tentato di spiegare con un trucco l’aumento degli omicidi bianchi, hanno cioè raccontato che all’origine del fatto vi è la risibile ripresa produttiva di questi tempi e l’aumento (altrettanto risibile) dell’occupazione.
Ma la bugia ha le gambe corte perché è proprio l’Istat a rivelarci che nel complesso dell’industria e dei servizi il numero delle ore lavorate è diminuito, come conseguenza dello sviluppo crescente dei lavori precari e discontinui.
Il che rinvia alle vere cause di questa ulteriore compromissione delle condizioni di lavoro: pochi investimenti in sicurezza, misure di prevenzione prossime allo zero, formazione inadeguata, occupazione instabile e precaria, organi di controllo e sorveglianza ridotti ai minimi termini, scarsa o nulla efficacia della rappresentanza sindacale.
Tutto ciò che si condensa in una sola formula: dilaga ormai senza argini lo sfruttamento del lavoro, spesso in forme primordiali, autorizzate da politiche che hanno indebolito i lavoratori davanti al padrone, rendendoli succubi di ogni sorta di ricatto.

A questa infamia se ne aggiunge un’altra: per la prima volta dalla promulgazione della Repubblica, la “speranza di vita diminuisce”: in altre parole, si muore prima.

Qui i corifei governativi tacciono.
Ma le ragioni sono altrettanto semplici.

La parte più debole della popolazione, le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà e quanti si trovano in un’area di prossimità all’indigenza non si curano più, perché le medicine e le visite ambulatoriali costano: sono 11 milioni gli italiani che hanno rinunciato alle prestazioni sanitarie.
Il tutto in un quadro aggravato dal peggioramento dei servizi pubblici, mentre sale vorticosamente la spesa sanitaria privata, arrivata a 34,5 mld di euro. Che significa “più sanità, ma soltanto per chi può pagarsela”.

Per questo la prevenzione di cui parla la propaganda governativa non è altro che un esercizio di cinica ipocrisia e il diritto alla salute un altro precetto costituzionale buttato nel cestino.

Del resto, i salari italiani, con una contrattazione collettiva che quando va bene racimola briciole, sono i più bassi nell’Europa dei 15, superiori solo a Spagna e Portogallo, mentre il potere d’acquisto delle pensioni è crollato in 15 anni del 33 per cento e la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente grazie al blocco della rivalutazione annuale introdotto dalla riforma Fornero.

Quindi, delle due l’una: o riusciamo a mandare al macero questa sciagurata politica e con essa le classi sociali e il personale politico che le propugna, oppure dei diritti sociali solennemente scolpiti nei fondamentali principi costituzionali non resterà traccia per le generazioni future.

lunedì 9 ottobre 2017

Il governo regala l’Ilva a Marcegaglia e soci, permettendo ai nuovi padroni di licenziare 4 mila lavoratori e di abbattere diritti e salari





Dopo l’affossamento dell’Ilva da parte della famiglia Riva e il disastro economico, sociale e ambientale procurato da questi magnifici esemplari dell’italica razza padrona, il ministero dello sviluppo economico che gestisce la società in regime di commissariamento ha accettato l’offerta d’acquisto della cordata Arcelor Mittal/Marcegaglia.

Costoro hanno scritto venerdì una lettera in cui hanno spiegato cosa intendono fare dell’assetto occupazionale del gruppo a fronte dell’annunciato investimento di circa 2 miliardi e mezzo fra risanamento industriale e piano industriale.

Ebbene, secondo i nuovi padroni, 4 mila dei 14 mila dipendenti sparsi per l’Italia sono in esubero e se ne dovranno andare.

A Taranto ne resteranno 7.600 su quasi 11 mila, a Genova 900 su 1.500, a Novi Ligure torneranno al lavoro in 700, meno della metà dell’organico attuale, mentre poche decine rimarranno in attività nei rimanenti stabilimenti.

Ma il taglio dei posti di lavoro non si esaurisce con questa sforbiciata perché il cosiddetto cronoprogramma aziendale prevede che nei prossimi anni, a regime, l’occupazione calerà a 8.480 dipendenti.

Inoltre, secondo Marcegaglia e soci il rapporto di lavoro sarà nuovo ad ogni effetto, dunque saranno cancellate le voci retributive relative agli accordi aziendali e saranno azzerati gli scatti di anzianità, con un salasso della busta paga tra il 20 e il trenta per cento.

E non è finita qui, perché trattandosi di nuovi rapporti di lavoro, secondo quanto prevede il Jobs act, i lavoratori non saranno più protetti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con la conseguenza che ove fossero individualmente licenziati, anche senza giusta causa o giustificato motivo, sarebbero cacciati con l’accompagnamento di una misera mancia, visto che la nuova normativa prevede il solo indennizzo di due mensilità per ogni anno di servizio prestato.

E poiché Am InvestCo – questo il nome della nuova cordata – è una nuova società, questa potrà utilizzare ex-novo tutto il pacchetto della cassa integrazione previsto dalla legge, avvalendosi di un ulteriore, straordinario polmone di flessibilità.

Ma che cosa ne sarà dei lavoratori in eccedenza? Semplice: resteranno in collo alla vecchia Ilva in amministrazione controllata, in regime di cassa integrazione “a perdere”.
Il costo dell’ammortizzatore sociale sarà a dunque a carico dei cittadini, perché nulla dev’essere imputato alla nuova azienda, beatificata come “salvatrice”, in base all’aureo principio del capitalismo da rapina che impone che si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite.

E i sindacati? Il confronto riparte oggi, a Roma, presso il ministero dello sviluppo economico, con i lavoratori in sciopero in tutte le sedi dell’Ilva. Ma occorrerà una rivolta per fare del confronto una trattativa vera e non una farsa dall’esito annunciato.

lunedì 2 ottobre 2017

Per Di Maio, come per Renzi, l’avversario è il sindacato






L’attacco al sindacato sferrato con inconsapevole ma rivelatrice leggerezza dal candidato premier del M5S sorprende solo chi non abbia capito cosa fermenta nel profondo della cultura raccogliticcia dei grillini.

Già nel 2013, Roberta Lombardi, portavoce del movimento, vantava di non sentire alcun bisogno di incontrare le parti sociali e, in primis, il sindacato in quanto – così si esprimeva – “noi siamo le parti sociali”.

Grillo si era spinto ben oltre, flirtando con Casa Pound e affermando, testualmente, “voglio uno Stato con le palle, eliminiamo i sindacati che sono una struttura vecchia come i partiti politici”.

La teoria sottesa a questa affermazione, minacciosamente ostile ai principi che fanno del sindacato uno dei pilastri della democrazia costituzionale, ha alla sua base un’idea totalitaria del potere, che si riassume in quel “partito della nazione” che trova nella cultura della destra estrema il suo precedente storico e il suo motivo ispiratore.

E’ noto che nel passato, in Italia come in Germania, ci hanno pensato Mussolini e Hitler a fare il lavoro sporco sopprimendo tutte le organizzazioni del movimento operaio.

Se c’è un tratto comune a tutti i governi reazionari, questo è la propensione alla limitazione, sino all’abolizione, delle libertà sindacali ed una politica economica e sociale a sostegno delle classi dominanti.

Renzi stesso, del resto, nel delirio di onnipotenza dei tempi migliori, non si era forse espresso esattamente negli stessi termini, affermando che “non è un reato dire che vogliamo cambiare il sindacato”? (…) “Io penso – aveva sentenziato – che in questo paese abbia fatto più Marchionne che il sindacato. Io sto con Marchionne”.

E qui c’è il succo di tutta la questione.
Cosa intende Di Maio – e cosa intende Renzi - per riforma etero-imposta del sindacato?
La cosa è ancora oscura, ma basta la minaccia a fare comprendere dove e per chi batta il cuore del nuovo “capataz” grillino.
Una cosa è invece chiarissima e questa Di Maio l’ha detta: una politica per l’occupazione si fa abbattendo il costo del lavoro, che per essere chiari significa dare soldi ai padroni e decontribuire una parte delle retribuzioni, col duplice risultato di unire ai bassi salari l’ulteriore deperimento delle prestazioni sociali che sono già in caduta libera. Insomma, il classico repertorio della politica liberista.

Questo è il profilo della politica italiana in questi tempi grami: le 6 forze politiche che nel loro insieme formano la quasi totalità del parlamento (Pd, M5S, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, AP (già NCD)) congiurano in vario modo contro la Costituzione.  
Prenderne definitivamente atto significa provare ad unificare la parte del paese che nella Carta si riconosce e che di costoro non vuole più saperne.