lunedì 23 novembre 2020

Intervento al Cpn 21-22 novembre 20

 

C’è molto di Kafka nei nostri comportamenti. Ci siamo convinti– almeno a me pare di avere capito – che è indispensabile lavorare ad un congresso unitario, che non significa affatto piallare le differenze che è bene possano vivere, in una sana dialettica, ma dentro un impianto condiviso sul quale innestare alcuni snodi, alcune tesi alternative che consentano di scegliere, senza drammi, la linea da adottare. E da applicare. 

Ma è chiaro che se non c’è neppure la possibilità di un impianto condiviso, di un massimo comune denominatore, se l’unico confronto interno si regge sulla dinamica cristallizzata fra governo e opposizione, vuol dire che non c’è un partito solo, ma ce ne sono due, forse tre, ma non uno solo.

Allora le ragioni di divisione fra eterni duellanti si riproducono all’infinito, in una insuperabile coazione a ripetere, come in quel film dove il protagonista è costretto a rivivere sempre lo stesso giorno: perché non c’è la linea politica, perché non hai fatto autocritica, perché non hai tratto bilanci su tutte le scelte precedenti (da Rivoluzione civile a Potere al popolo e via retrocedendo nel tempo), perché non ti sei flagellato abbastanza sullo 0,3% delle elezioni in Puglia, quando il vero bilancio di cui occuparsi dovrebbe servire a spiegare perché non riusciamo a fare quello che diciamo di voler fare e come ricostruire in un cimento comune, in uno sforzo solidale, un partito che sia in grado di farlo. Ma la minoranza non entra in segreteria perché nulla sembra giustificarlo se prima non si dipana la matassa fino all’ultimo filo. Non solo, c’è chi si oppone ad un rafforzamento dell’attuale esecutivo.

Allora chiedo al segretario, che presiede la commissione politica congressuale, di scrivere una traccia su cui lavorare e portare seriamente avanti il lavoro di ricerca di cui abbiamo tutti parlato.

Perché di discussioni da fare, di elaborazioni da rendere meno superficiali, di strategie da mettere a punto ve ne sono eccome.

 

A partire dal tormentone che segna da sempre la nostra vita interna, vale a dire gli appuntamenti elettorali.

Passando al merito, c’è un non detto, che dovrebbe essere reso esplicito, nelle posizioni di alcuni compagni, che suona così: “se non siamo nelle istituzioni, non siamo niente”. Questo è davvero un punto dirimente. Soprattutto nella situazione odierna, dove porre come irrinunciabile l’entrata nelle istituzioni, quando la nostra forza politica ed elettorale è così ridotta, significherebbe prestarsi ad entrare in coalizioni nelle quali la nostra possibilità di influenza e di efficacia sono pari a zero, in cambio di uno strapuntino che funzioni come illusorio certificato di esistenza in vita.

Altra cosa è se la tua azione politica, se le lotte di cui sei stato protagonista, se la credibilità che hai conquistato sul campo ti mettono nelle condizioni di avere una forza negoziale, di fare accordi davvero utili e capaci di cambiare la realtà delle cose, di essere utile alle persone che rappresentano il tuo riferimento sociale, senza offuscare minimamente il senso generale della tua strategia. Se invece inverti l’ordine dei fattori, il prodotto cambia radicalmente: la strategia sparisce e diventa puro tatticismo fine a se stesso, navigazione a vista, galleggiamento su un terreno arato dagli altri. Lo fa già Sinistra italiana con i risultati che vediamo quotidianamente.

Mi viene in mente la durissima polemica che Enrico Berlinguer ingaggiò contro la destra interna, a pochi mesi dalla sua morte su palco di Padova, quando la destra rivendicava che per crescere meglio e conseguire più ampi consensi elettorali occorreva trasformare il partito in una grande forza di opinione, più moderata e meno ancorata alle vecchie ubbìe classiste. Ed ecco la risposta che il capo del Pci diede in quella circostanza:

“A tener dietro a quei ragionamenti – rispose B. – si finirebbe non col divenire un grande partito di massa moderno, ma un partito elettoralistico, un partito all’americana, cioè un partito che penserebbe solo a prender voti, che svaluterebbe il lavoro a diretto contatto con la gente per aiutarla a ragionare, a organizzarsi e a lottare, che svuoterebbe di ogni contenuto la militanza politica, che penserebbe solo ad avere più deputati, più senatori, più consiglieri, più assessori, più posti di potere (…). Ma un partito rinnovato a questo modo sarebbe ancora il PCI? Non sono forse l’elettoralismo e la caccia al potere per il potere i vizi degli altri partiti ai quali si vorrebbe che noi ci omologassimo? (…). Ebbene, questo è il momento di fare più iscritti, e al tempo stesso di formare militanti, più consapevoli e attivi, di avere cioè più compagne e compagni impegnati in un lavoro preciso, con compiti ben definiti, con una carica politica, ideale e umana, armati della quale si va e si sa stare fra le masse, con i loro problemi, le loro aspirazioni, con le loro rabbie, le loro lotte”.

Quella risposta di B. è una lezione che servirebbe anche a noi, perché quella che allora fu una tragedia, per noi, ridotti ad un sedicesimo, o a un trentaduesimo di ciò che fu il Pci, si volgerebbe in farsa.

Scriveva Nicolò Machiavelli nel Principe che ‘Se le Repubbliche e le sette (cioè i partiti odierni) non si rinnovano, non durano. E il modo di rinnovarle è di ricondurle verso i principi loro”.

 

Le cose di cui invece dobbiamo occuparci, senza perdere ulteriore tempo, sono di fondamentale importanza e io ho qui il tempo di elencarle solo per titoli:

1.           la pandemia ha prodotto le condizioni per una nuova narrazione di senso comune che può prendere direzioni molto diverse, come in tutti i momenti di crisi acuta: la nuova consapevolezza che va promosso un grande sforzo solidale, che va  rilanciata la funzione della mano pubblica (sanità, previdenza, istruzione, investimenti per il lavoro) e che bisogna invertire la corsa alle privatizzazioni nel suo contrario, oppure, all’opposto, in assenza di una critica radicale e di una proposta credibile di cambiamento, si faccia strada la convinzione che serva una stretta autoritaria;

2.           prima o poi si uscirà dal tunnel, fuori dalla moratoria del patto di stabilità, e vi arriveremo in ginocchio, con un crollo della produzione industriale, con salari da fame e contratti al palo, con licenziamenti di massa e una caduta nella povertà di strati estesi della popolazione, con un aumento della precarietà del lavoro e la spinta confindustriale a fare dello smart working l’occasione di un forte impulso verso l’individualizzazione dei rapporti di lavoro, fuori da ogni vincolo contrattuale. A quel punto torneranno in vigore tutte le norme iugulatorie dei trattati e il calvario di un rientro dal debito e dagli interessi che saranno lievitati in modo esorbitante, assorbendo tutto l’avanzo primario che si dovesse generare con i primi refoli di ripresa. Ne deriverebbe la distruzione di ciò che resta del welfare, del sistema di protezione sociale. Nostro compito, riprendendo ciò che abbiamo detto nei mesi scorsi, è promuovere una campagna battente contro i vincoli dell’architettura monetarista dell’Ue che hanno dimostrato come anche in questa parte del globo sia necessario che la Bce stampi denaro, non imputabile a debito, per sostenere un grande piano per l’occupazione e la ricostruzione dell’infrastrutturazione primaria, la riconversione ecologica dell’economia. Nella continuità dei trattati c’è spazio solo per un aumento delle disuguaglianze e per una regressione generale della civiltà. Altrimenti, come profeticamente scriveva Karl Marx, continuerà ad inverarsi la follia per cui “l’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che entri realmente nel possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico”.

3.           Quando definiamo un progetto politico non ce la caviamo con il comodo elenco di tutte le cose che bisognerebbe fare, senza definire priorità strategiche ed evitando furbescamente contraddizioni in termini e di sostanza: piena occupazione, riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore, ma anche RdB incondizionato del quale dovremmo approfondire implicazioni teoriche, politiche e sociali; se si segue una strada se ne esclude un’altra e le due non sono certo equivalenti;

4.           Con una certa, ingiustificata supponenza, continuiamo a parlare di lavoro come se maneggiassimo l’argomento con disinvoltura. In realtà abbiamo iniziato solo da poco ad occuparcene con serietà. La questione cruciale della ricomposizione di un fronte di classe dovrebbe stare al centro delle nostre preoccupazioni, a partire dalla questione sindacale che continuiamo a trattare con reticenza, come se il partito dovesse stare ben attento a non rompere le uova nel paniere a questa o a quella organizzazione. Il sindacato possiede in esclusiva solo il compito di fare i contratti. Su tutto il resto non esistono né deleghe, né prerogative dedicate. Il partito deve avere un punto di vista su tutto, altrimenti abdica al ruolo che diciamo essergli proprio di organizzare la lotta di classe;

5.           Mentre siamo immersi nel lockdown si sviluppa silenziosamente, sotto traccia, una discussione che coinvolge centrosinistra e centrodestra su modifiche elettorali e alterazioni costituzionali che hanno per obiettivo la riduzione del ruolo del parlamento, la definitiva liquidazione delle minoranze e l’esito finale di una Repubblica presidenziale di cui si iniziò a parlare nel ’97 con la commissione bicamerale presieduta da Massimo D’alema. Dobbiamo rilanciare con grande forza la nostra battaglia contro il presidenzialismo già perfettamente introiettato nelle elezioni comunali e regionali.

Di tutto questo merita che ci occupiamo con passione e impegno senza i quali ogni traguardo diventa impossibile.