La strategia della tensione e il PCI
Non
vi è dubbio alcuno che il ventennio successivo alla Liberazione e al varo della
costituzione repubblicana fu segnato più dall'anticomunismo che
dall'antifascismo. La reazione delle classi dominanti, preoccupate del
carattere di lotta di classe che aveva assunto l'epopea resistenziale e del
ruolo centrale che in essa aveva svolto il partito comunista, si traduce in una
controffensiva restauratrice, perfettamente in linea con la "guerra
fredda", conseguente alla divisione del mondo in aree di influenza.
In
seguito alla sconfitta del nazifascismo, per tutto l'Occidente il nemico
fondamentale torna ad essere a Est, come dopo la rivoluzione sovietica.
Dopo
la parentesi della guerra, il sistema delle alleanze torna a scomporsi e a
ricomporsi lungo i binari del conflitto di sistema. E Si fronteggiano, nelle
loro varianti, due idee del mondo contrapposte.
Il
recupero del fascismo in funzione anticomunista assume in Italia tratti
evidentissimi.
Lo
Stato repubblicano eredita in blocco la vecchia architettura fascista e il
personale del ventennio.
Un
solo dato: ancora nel 1966 tutti i prefetti e i viceprefetti, tutti i questori
e i vice questori in attività avevano iniziato la loro carriera sotto il regime
fascista.
I
fascicoli personali aperti dall'Ovra nei confronti dei comunisti si inoltrano
sino alla soglia degli anni Settanta ed oltre. Il linguaggio dei rapporti di
polizia ricalca espressioni, giudizi, formule abituali nel ventennio,
circostanza non ascrivibile a semplice inerzia burocratica, ma riflesso di una
precisa disposizione politica che riproducendo lo stigma dei "pericolosi
sovversivi" legittima un'investigazione coperta e sotterranea sui
comunisti.
C'è
un tratto che emerge prepotentemente sin dai primi anni della Repubblica.
L'offensiva anticomunista si salda sempre alla repressione delle lotte sociali,
sia operaie che contadine, al Nord come al Sud.
La
prima strage di Stato, nel 1947, quella di Portella della Ginestra, avviene
quando circa duemila lavoratori, in gran parte agricoltori, tornarono a festeggiare
il 1º maggio, a manifestare contro il latifondismo, a favore dell'occupazione
delle terre incolte e a festeggiare la recente vittoria del Blocco del Popolo,
l'alleanza tra i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti alle elezioni
dell'assemblea regionale siciliana.
Immediatamente
dopo la strage di Portella, il ministro dell'Interno Scelba mandò nelle strade
i reparti celere con in dotazione mitragliatori, autoblinde e mortai: decine di
manifestanti in tutta Italia furono uccisi in pochi mesi. Il 22 giugno furono
assaltate le sezioni comuniste di Partinico, Carini, Borgetto, San Giuseppe
Jato, Monreale e Cinisi: nove morti e decine di feriti. Furono assassinati
sindacalisti e capilega.
Ho
indugiato su questa vicenda perché pare a me paradigmatica di ciò che sarebbe
avvenuto nel futuro: l'intreccio fra mafia, banditismo, poteri dello Stato,
servizi, fascismo, intelligence statunitense.
Non
è certo un caso se quel primo maggio 1947, il segretario di Stato Usa Jorge
Marshall inviò una lunga lettera all'ambasciatore in Italia James Dunn, in cui
si possono leggere queste parole: «il dipartimento di Stato è
profondamente preoccupato delle condizioni politiche ed economiche italiane,
che evidentemente stanno conducendo ad un ulteriore aumento della forza comunista
e ad un conseguente peggioramento della situazione degli elementi moderati, con
i comunisti che diventano sempre più fiduciosi e portati ad ignorare l'attività
del governo».
L'impressionante
sequenza di tentativi di golpe conferma questo intreccio perverso.
Nel
1964 il "Piano Solo" del generale Giovanni de
Lorenzo, si proponeva di assicurare all'Arma dei Carabinieri il controllo
militare dello Stato per mezzo dell'occupazione dei cosiddetti «centri
nevralgici» e, soprattutto, prevedeva un progetto di «enucleazione», cioè la
cattura, l'arresto e l'imprigionamento in un centro allestito dal Sifar in
Sardegna di 731 uomini della sinistra e del sindacato.
Il
piano fallì e nel '67 fu istituita una commissione parlamentare d'inchiesta che
definì il tentato golpe null'altro che «una deviazione deprecabile» ma non come
un tentativo di colpo di Stato.
Ci
riprova il principe nero Junio Valerio Borghese nel
dicembre del 1970.
In
accordo con diversi vertici militari e membri dei Ministeri, il piano prevedeva
l'occupazione del Ministero dell'Interno, del Ministero della Difesa, delle
sedi Rai, dei mezzi di telecomunicazione e la deportazione di dirigenti
comunisti, socialisti e di quanti sospetti di collusioni a sinistra.
Anche
in questo caso il tentativo fallisce, ma la Procura della Repubblica di Roma
dispone l'archiviazione dell'indagine per mancanza di prove. Si tentò di
avallare nell'opinione pubblica italiana il convincimento che si fosse trattato
dell'"operazione grottesca di un manipolo di vegliardi". Tutto fu
archiviato con la sentenza della Corte d'Assise, "perché il fatto non
sussiste". I giudici disposero l'assoluzione di tutti i 48 imputati
dall'accusa di cospirazione politica, persino per coloro che avevano ammesso di
avervi preso parte, aggiungendo che tutto ciò che era successo non era che il
parto di un «conciliabolo di 4 o 5 sessantenni».
Già
dal 1956 era stata costituita l'organizzazione paramilitare Gladio,
appartenente alla rete internazionale Stay-behind, con un
protocollo d'intesa tra il servizio segreto italiano e la Central Intelligence
Agency per contrastare una possibile invasione nell'Europa occidentale da parte
dell'Unione Sovietica e dei Paesi aderenti al Patto di Varsavia, attraverso
atti di sabotaggio, guerra psicologica e guerriglia dietro le linee nemiche,
con la collaborazione dei servizi segreti e di altre strutture.
Ma
la vera funzione di Gladio fu chiarita da Luigi Tagliamonte, capo dell'ufficio
amministrazione del SIFAR: «Si effettuavano dei corsi di addestramento
alla guerriglia, al sabotaggio, all'uso degli esplosivi al fine di impiegare le
persone addestrate in caso di sovvertimenti di piazza, nel caso che
il Pci avesse preso il potere".
Il
magistrato veneziano Felice Casson trasmise il fascicolo sull'organizzazione,
per ragioni di competenza territoriale, alla Procura di Roma, la quale dichiarò
che la struttura Stay-behind non aveva nulla di penalmente
rilevante.
Amos
Spiazzi (generale dell'Esercito Italiano inquisito durante gli anni
settanta-ottanta come presunto partecipante al cosiddetto "Golpe
Borghese") fonda nel 1973 la Rosa dei venti, un'organizzazione
segreta italiana di stampo neofascista, collegata con ambienti militari.
L'organizzazione - spiegò Spiazzi - si propone di proteggere le
istituzioni contro il marxismo. Al vertice dell'organizzazione stanno
senz'altro dei militari, ma non ne fanno parte solo militari, bensì anche
civili, industriali e politici. Soltanto un vertice conosce tutto e ai vari
livelli si rinvengono dei vertici parziali (...) La filosofia ispiratrice è
quella dell'appartenenza dell'Italia al blocco occidentale inteso come
immutabile, mobilitato permanentemente contro il comunismo e finalizzato ad
impedire l'ascesa alla direzione del paese da parte delle sinistre". Anche
in questo caso la copertura fu totale: il pubblico ministero Claudio Vitalone
invocherà il segreto di Stato e sulla questione cadrà il silenzio.
Poi,
la Loggia massonica P2, guidata dal venerabile maestro Licio Gelli,
che intervistato da Klaus Davi disse: «Avevamo l'Italia in mano. Con
noi c'erano l'Esercito, la Guardia di Finanza, la Polizia, tutte nettamente
comandate dagli appartenenti alla P2. Non solo i capi, che erano di nomina
politica, ma anche i funzionari più importanti, di consolidata carriera
interna».
Come
è noto, il "Piano di rinascita democratica" di Gelli prevedeva di
portare la magistratura italiana sotto il controllo del potere esecutivo,
separare le carriere dei magistrati, superare il bicameralismo perfetto e
ridurre numero dei parlamentari, abolire le province, rompere l'unità sindacale
e riformare il mercato del lavoro, controllare i mezzi di comunicazione di
massa, trasformare le università in Italia in fondazioni di diritto privato,
adottare una politica repressiva contro avversari politici.
Ebbene,
malgrado la Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2,
presieduta dal ministro Tina Anselmi, avesse chiuso il caso P2 denunciando la
loggia come una vera e propria «organizzazione criminale» ed
«eversiva», gli appartenenti alla P2 e Gelli furono assolti con formula
piena dalle accuse di «complotto ai danni dello Stato» con le sentenze della
Corte d'assise e della Corte d'assise d'appello di Roma tra il 1994 e il 1996.
Ma
è tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta che lo scenario politico e
sociale dell'Italia muta radicalmente.
Il
20 maggio 1970 entra in vigore lo Statuto dei diritti dei lavoratori. E' una
vera rivoluzione perché, per la prima volta dalla fondazione della Repubblica,
la Costituzione varca le stanze chiuse di ogni luogo di lavoro. La fabbrica non
è più una zona franca, dominio esclusivo del padrone. Si riconosce e formalizza
in modo cogente che i lavoratori hanno il diritto di organizzarsi e di tutelare
i propri interessi in forma conflittuale, l'attività antisindacale viene punita
in quanto reato, i licenziamenti di cui sia dimostrata l'illegittimità vengono
revocati, la tutela dell'integrità psico-fisica dei prestatori d'opera viene
con forza affermata. Da universo concentrazionario dove è possibile ogni
arbitrio padronale la fabbrica diventa luogo dove in forza di legge è possibile
affermare i diritti di cittadinanza, la libertà di pensiero, di attività
sindacale.
Ma
lo Statuto non piove dal cielo. Esso è il frutto di una straordinaria stagione
di lotte operaie che conquistano sul campo parte rilevante dei risultati che
ora trovano una legittimazione legislativa.
Il
contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici del 21 dicembre 1969, firmato
dopo oltre 180 ore di sciopero, viene vissuto dai vertici confindustriali come
uno smacco insopportabile.
Ma
il movimento operaio che era stato protagonista di quella impetuosa stagione
non si ferma. E realizza forme inedite di rappresentanza sindacale che
prevedono un intreccio di democrazia diretta e democrazia delegata e
rimodellano lo stesso rapporto fra sindacato esterno e rappresentanza interna.
Nascono i consigli di fabbrica.
Questa
potente iniezione di democrazia, che sorge direttamente dalla base, diventa
l'elemento propulsore, direi scatenante, di una capillare vertenzialità quale
non si era mai vista in precedenza.
I
padroni non mandano giù il rospo e ogni vertenza produce uno scontro di grande
durezza. Davanti ai cancelli si consumano veri e propri corpo a corpo, con i
crumiri e con i fascisti che appaiono sempre più frequentemente sulla scena,
sistematicamente spalleggiati dalla polizia e dai carabinieri.
Il
padronato si riorganizza, si moltiplicano le riunioni di associazione nelle
quali essi manifestano tutta la propria rabbia per quella che chiamano
un'usurpazione, una violazione della proprietà privata, la fabbrica divenuta
teatro di un conflitto di potere quotidiano. Un sentimento si fa strada sempre
più acuto nel padronato: "bisogna fermarli. A qualsiasi costo".
Torna
a galla "il marcio di Salò", la parte più intrisa di fascismo,
strutturalmente ostile al sindacato, abituata a trattare con il bastone i
rapporti sociali.
Giorgio
Almirante si incontra con gruppi di imprenditori, soprattutto siderurgici,
garantendo loro sostegno attivo. Vengono assunte squadre di picchiatori
fascisti con il solo compito di intimidire i lavoratori.
All'impetuoso
sviluppo del movimento operaio, di cui i comunisti sono componente essenziale,
fa da riscontro un poderoso processo riformatore che si sviluppa sino alla metà
degli anni Settanta e che ha nel Pci il suo principale protagonista. Alle
conquiste sindacali si salda un'imponente attività legislativa di impronta
sociale (Statuto dei lavoratori, legge di tutela delle lavoratrici madri,
riforma sanitaria, delle pensioni, della casa, della psichiatria), lungo un
percorso di rafforzamento del welfare e del sistema di protezione sociale. E
ancora, la riforma del diritto di famiglia, l'introduzione del divorzio. Lo
scuotimento è fortissimo.
Mutano
profondamente i rapporti fra le classi e l'impetuosa avanzata elettorale del
Partito comunista conseguita nelle elezioni del '75 e del '76 apre
concretamente il tema del governo del paese lungo una traiettoria mai prima
verificatasi.
L'ondata
terroristica, lo stragismo nero e di Stato, da piazza Fontana al treno
Italicus, da piazza della Loggia alla stazione di Bologna, all'attentato al
rapido 904, tracciano una ininterrotta scia di sangue e delineano una strategia
eversiva il cui obiettivo è quello di ricacciare indietro il movimento operaio
e impedire con ogni mezzo l'avvento del partito comunista al governo del paese.
In
tutte le stragi sono emerse connivenze, complicità, depistaggi, diretto
coinvolgimento dei servizi segreti italiani e stranieri.
Non
a caso, in quasi tutti i processi susseguitisi per decenni non si è venuti a
capo della verità giudiziaria, anche se quella storica e politica si può
considerare ampiamente acquisita.
Valga
per tutti i casi ciò che scrisse il giudice Zorzi nella sua durissima
requisitoria nel quarto processo sulla strage di piazza della Loggia, a
quarant'anni dall'eccidio, quando denunciò l'esistenza di un meccanismo "che
fa letteralmente venire i brividi, soprattutto di rabbia, in quanto è la
riprova, se mai ve ne fosse bisogno, dell'esistenza e costante operatività di
una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque
luogo". Nelle motivazioni della sentenza si possono leggere queste
drammatiche parole, sufficienti a spiegare quali forze si sono mosse per
nascondere la verità sotto una colata di cemento: "Lo studio dello
sterminato numero di atti che compongono il fascicolo dibattimentale porta ad
affermare che anche questo processo, come altri in materia di stragi, è
emblematico dell'opera sotterranea portata avanti con pervicacia da quel
coacervo di forze individuabili con certezza in una parte non irrilevante degli
apparati di sicurezza dello Stato, nelle centrali occulte di potere che hanno
prima incoraggiato e supportato lo sviluppo dei progetti eversivi della destra
estrema e hanno sviato, poi, l'intervento della magistratura, di fatto rendendo
impossibile la ricostruzione dell'intera rete di responsabilità. Il risultato è
stato devastante per la dignità stessa dello Stato e della sua irrinunciabile
funzione di tutela delle istituzioni democratiche, visto che sono solo un
leader ultraottantenne e un non più giovane informatore dei servizi, a sedere
oggi, a distanza di 41 anni dalla strage sul banco degli imputati, mentre
altri, parimente responsabili, hanno da tempo lasciato questo mondo o anche
solo questo Paese, ponendo una pietra tombale sui troppi intrecci che hanno
connotato la mala-vita, anche istituzionale, dell'epoca delle
bombe".
Del
resto, fu Henry Kissinger, il segretario di Stato Usa negli anni di Richard
Nixon e di Gerard Ford, protagonista del golpe di Pinochet e dell'assassinio di
Salvador Allende, a dichiarare con la consueta schiettezza: "Non
vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa
comunista a causa dell'irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo
importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da
soli".
E
con la stessa determinazione gli Usa si mossero nei confronti dell'Italia,
quando l'accordo fra Aldo Moro ed Enrico Berlinguer aveva portato il Pci alla
soglia del governo del paese.
Queste
le parole di Kissinger, recentemente desecretate dall'Intelligence Usa:
"Il
governo marxista di Allende può diventare un 'modello'(...) gli effetti di un governo
marxista eletto avrebbero sicuramente conseguenze di grande rilievo in altre
parti del mondo, a partire dall'Italia". Del resto,
si sa che gli Usa non risparmiarono attacchi al leader Dc, come raccontò in
tribunale la moglie di Moro, Eleonora, riferendo delle minacce ricevute dal
marito, negli Usa, nel 1974, durante la visita ufficiale italiana a Washington,
dove Moro si era recato con il presidente Giovanni Leone. Moro era considerato
un destabilizzatore degli accordi di Yalta. "O tu cessi la tua linea
politica oppure pagherai a caro prezzo per questo", gli disse a
muso duro Henry Kissinger.Ed è noto con quanta precisione egli mantenne la
promessa.
Il
sequestro e l'assassinio di Moro ad opera delle Brigate rosse è il punto di
massimo livello cui giunse l'attacco alla democrazia e alla sovranità del
nostro paese.
La
storia dovrà essere ancora scritta per intero, ma quanto è già emerso è che gli
esponenti più autorevoli delle Br - oggi a piede libero malgrado i vari
ergastoli loro comminati - intrattenevano legami con i servizi segreti, i cui
uomini erano presenti nel luogo dove avvenne il sequestro di Moro e che durante
la sua detenzione depistarono le indagini che avrebbero potuto condurre al
luogo in cui egli era detenuto.
Le
Br furono non solo infiltrate, ma almeno in parte eterodirette dai servizi
segreti per la semplice ragione che, in definitiva, le loro azioni, malgrado i
sedicenti proclami rivoluzionari e le altrettanto presunte velleità
insurrezionali, furono oggettivamente rivolte ad impedire una svolta radicale
nella politica italiana.
La
fine politica delle Br e dell'alone di solidarietà o di tolleranza che poté per
una fase riscuotere dentro una parte del movimento operaio ebbe nell'assassinio
di Guido Rossa - operaio dell'Italsider di Conigliano, iscritto al Pci e alla
Cgil e membro del CdF - ebbe il suo snodo cruciale. Rossa aveva denunciato un
operaio della stessa azienda, trovato a diffondere materiale di propaganda
delle Br. Questo episodio suscitò una presa di coscienza diffusa e concorse in
modo determinante all'isolamento delle Br, avviandole progressivamente verso
una crisi irreversibile. Nella coscienza popolare non si trattava più di
"compagni che sbagliano", ma di avversari del movimento operaio.
Fu
il procuratore generale presso la corte d'appello di Roma, Luigi Ciampoli, ad
affermare che "Il caso Moro è stato il prodotto di un intrigo
internazionale che ha visto la partecipazione di servizi segreti, soprattutto
della Mossad. Chi in senso attivo, chi in senso omissivo, in
molti hanno collaborato alla vicenda del rapimento e dell'omicidio. In tutto
questo ci sono state le responsabilità di pezzi della magistratura italiana,
pezzi delle forze dell'ordine, mentre la cupola maggiore è stata la P2, che poi
è il governo di tutti questi fenomeni criminali".
Possiamo
concludere che l'intera strategia stragista e il terrorismo siano state una
fase (e una modalità) della lotta di classe in Italia. Una fase nella quale le
classi dominanti e parte cospicua del loro personale politico hanno usato il
fascismo e il terrore per impedire una profonda trasformazione dei rapporti
sociali in italia.
C'è
un'ultima riflessione da fare, una riflessione da riprendere in altra sede, ma
del tutto congrua ai fatti che oggi abbiamo esaminato: nel nostro Paese i conti
con il fascismo non sono mai stati fatti e la stessa promulgazione della
Costituzione, sortita dalla lotta di Liberazione, è stata vissuta come una
parentesi dalle classi dominanti, il cui latente sovversivismo è pronto a
riemergere ogniqualvolta la situazione lo richieda.
Vale
infine la pena di chiedersi, a quasi mezzo secolo di distanza, se questa
consapevolezza, che fu così forte in quel tempo, sia ancora tale, oppure, come
a me pare, se l'oblio non sia ampiamente calato su quel tratto di storia,
divenuta tristemente estranea alle nuove generazioni e in parte rimossa dalla
memoria di quelle più anziane. Il danno è grave e chiama in causa molte
recidivanti, colpevoli amnesie, troppe indulgenze e troppe indolenze, il cui
effetto più nefasto è quello di avere consentito che rientrassero in circolo
tossine, veleni di cui pensavamo di esserci liberati per sempre.