lunedì 29 maggio 2017

Tornano i voucher e il lavoro a “squillo”




Sarà utile cominciare a chiamare il governo Gentiloni per quello che è. Non solo, come genericamente si è detto, un governo “fotocopia” di quello di Renzi ma, evitando inutili perifrasi, un governo di lestofanti, che, eterodiretti dal guitto di Rignano, operano in consapevole e proditoria malafede.
L’ultima prova di sé l’esecutivo l’ha fornita sul tema voucher, oggetto del referendum abrogativo promosso dalla Cgil. Voi tutti ricorderete che la consultazione non si svolse perché il governo riesumato dopo la Caporetto del 4 dicembre, temette – e a ragione! – che una nuova prova elettorale avrebbe travolto ciò che restava delle politiche contro il lavoro promosse da Renzi, mentre ad impedire che il popolo italiano si pronunciasse sullo sventramento dell’articolo 18 aveva già inopinatamente provveduto la Corte costituzionale.
Fatto sta che il governo fotocopia decise di abrogare la norma, ottenendo così che mancando l’oggetto del contendere il referendum sarebbe decaduto.
Ma, come dice un noto adagio popolare, “finita la festa, gabbatu lu santu”. Ed ecco che, esattamente nel giorno in cui avrebbe dovuto svolgersi il referendum, il 28 maggio, il governo si appresta a reintrodurre, neppure sotto mentite spoglie, i famigerati voucher.
Ricorderete che questa moderna forma di lavoro schiavile era stata all’origine introdotta – così dissero i manigoldi – per portare in chiaro il lavoro occasionale, ad esempio, degli studenti che venivano impegnati in piccole e saltuarie attività lavorative nel periodo estivo.
Poi la formula, perversa in se stessa, fu estesa da Renzi a tutte le imprese di ogni grandezza e tipologia, sicché il lavoratore la cui prestazione si compra acquistando un ticket dal tabaccaio divenne una pratica corrente, perché nulla più del lavoro “usa e getta” è sempre stato il sogno nel cassetto di ogni padrone. Così, nel 2016 il numero di voucher acquistati è schizzato a 183 milioni e 800 mila: una vera e propria orgia di precariato, l’equivalente, in termini di ore, di 47.000 lavoratori full time.
La ritirata del governo è durata dunque solo due mesi. Ora i voucher vengono riproposti, sia pure per le sole aziende con meno di 5 dipendenti, ma in un paese in cui la dimensione media di impresa è di 3,7 dipendenti! In altri termini, nella galassia delle piccole aziende è lecito fare ciò che si vuole. L’importante è salvare l’istituto, dopo avere per l’ennesima volta fatto a pezzi la sovranità popolare e il diritto ad un lavoro dignitoso, precetto che vive scolpito nella Costituzione, ma non nella testa e nei programmi di chi usurpa il governo di questo paese.
Per la cronaca, il governo si predispone a sferrare un altro colpo di maglio alla sdrucitissima trama dei diritti del lavoro, generalizzando per tutte le imprese una delle peggiori forme di precarietà: il lavoro a chiamata (il “Job on call”, come amano dire pudicamente lor signori), in base al quale i prestatori d’opera mettono a disposizione tutto il proprio tempo di vita nell’attesa di essere chiamati per qualche giorno o qualche ora. Poiché la vecchia norma non pareva sufficiente, il governo vuole ora cancellare i limiti che oggi circoscrivono il lavoro a chiamata sotto i 25 e sopra i 55 anni di età.
Senza pudore, direte! Sì, senza pudore.

lunedì 22 maggio 2017

Coazione a ripetere




Mdp, il movimento dei transfughi dal Partito democratico capeggiati da Bersani e D’Alema, ha fatto ieri l’altro il suo esordio politico-programmatico.
A tirare le somme, tutta la novità sta nella lotta dura e senza paura contro Renzi, unico e solo responsabile della deriva autoritaria e anti-lavorista del partito, cavaliere fedifrago da disarcionare al più presto. Per andare dove, vi chiederete? Ma per tornare al Pd, ovviamente e, in ogni caso, ad una coalizione di centrosinistra capace di fare quelle cose giuste che la torsione di Renzi, amico di Davide Serra, finanziere "con il conto alle Cayman”, rende impossibili. E quali sono le stupefacenti novità che rappresentano il lievito della neonata formazione politica?
State a sentire: Il lavoro – spiega Bersani – che viene  dagli investimenti, non dagli sgravi e dai bonus; poi l'innovazione in campo industriale e dei servizi e un grande piano di manutenzione del Paese sul territorio. La prima cosa da fare – aggiunge D’Alema – è “cambiare la Bossi-Fini”, ma - udite udite – per tornare alla “Turco-Napolitano”(!).
Tutto qua? Sì, tutto qua. Con qualche chiacchiera di contorno, raschiata dal barile delle reminiscenze di un tempo, sul rischio che lo spettro della guerra si riaffacci prepotentemente sulla scena mondiale, sul nuovo umanesimo da rimettere in pista, sulla lotta alle diseguaglianze in un mondo dove “otto famiglie detengono le stesse ricchezze della metà più povera dell'umanità", sulle “ingiustizie così profonde da mettere in discussione la stessa tenuta dei sistemi democratici”.
Ma poiché anche nel dramma talvolta spunta il ridicolo, questi quasi impalpabili proponimenti, privi di qualsiasi riferimento programmatico, sono parsi a Walter Veltroni una fuga estremistica se, intervistato da Maria Latella su SkyTG 24, egli ha sentito il bisogno di invitare i suoi amici di un tempo a non affrontare "i temi del lavoro come si faceva nel 900”, perché “si può essere nostalgici – ha detto - ma quel mondo non c'è più".
Invano vi sforzereste di trovare, al di là di questo frasario frusto, di questi “imparaticci” tipici del più imbelle e ipocrita progressismo, una qualche analisi sulla natura del capitalismo nel tempo presente; una proposta che riveli un qualche concreto contenuto circa il modo di dare sostanza all’invocato ritorno in auge dell’articolo 1 della Costituzione; o uno straccio di idea su come restaurare la sovranità popolare violata dai trattati europei; o una proposta su come rilanciare il ruolo dello Stato nella programmazione economica, o un progetto che renda credibile l’obiettivo della piena occupazione attraverso un piano per il lavoro e la riduzione del tempo di lavoro; o la ricostruzione di un sistema di protezione sociale devastato da decenni nei quali il welfare è stato deliberatamente picconato.
Del resto, chi come Bersani ha contribuito alla liquidazione dell’articolo 18, all’abolizione delle pensioni di anzianità, alla trasformazione del mercato del lavoro in un mercato delle braccia a basso costo, alla privatizzazione dei servizi pubblici sociali, come può oggi rifarsi una verginità lavorista? E come può dichiarare la propria ammirazione per papa Bergoglio che tuona contro la guerra quel D’Alema che nella sua breve stagione da presidente del consiglio autorizzò i Tornado a levarsi ogni sera dalle basi militari di Ghedi e di Aviano per scaricare il loro carico mortale su Belgrado?

lunedì 15 maggio 2017

L’Union sacrée, versione francese del “voto utile"






Emmanuel Macron è l’ultimo prodotto dell’Union sacrée, formula transalpina ancora una volta utilizzata e mandata a buon fine per fare convergere i consensi su un esponente del capitalismo finanziario europeo, espressione delle politiche ordo-liberiste che hanno distrutto il welfare, impoverito le classi proletarie, precarizzato il lavoro, ridotto i salari, reso abnormi le disuguaglianze, in Francia come nel resto del continente.
Il riflesso condizionato che ha drogato il voto, la paura di un avvento al potere di Marine le Pen, ha funzionato di nuovo e ha permesso a Macron di erigersi a paladino della democrazia tout court, rimuovendo nella coscienza di molti che i poteri che lo hanno inventato dal nulla, benché egli non sia per nulla dissimile dall’impresentabile Hollande, sono gli stessi che della democrazia e della sovranità popolare hanno fatto strame.
L’Union sacrée è la coalizione nazionale di governo che si formò in Francia nel 1914, quando il presidente della repubblica Raymond Poincaré invitò i partiti ed i ceti sociali a difendere tutti insieme la patria allo scoppio della prima guerra mondiale.
Non diversamente da ciò che accadde anche in Germania e in Italia e su cui si infranse la Seconda internazionale: i partiti socialisti andarono in soccorso delle rispettive borghesie nazionali e accettarono che fossero gettati al macello, nel primo conflitto inter-imperialistico mondiale, milioni di proletari, gli uni contro gli altri, “morti di fame contro morti di fame”, come scrisse Emilio Lussu nel suo “Un anno sull’altipiano”.
Questa volta, però, il gioco non è del tutto riuscito, perché larghi strati popolari non hanno abboccato all’esca avvelenata e si sono riuniti intorno a La France insoumise di Jean Luc Melénchon e al suo programma di radicale trasformazione della Francia e dell’Europa delle banche e delle multinazionali. Non solo, ma si sono in larga parte sottratti al ricatto di correre in soccorso di Macron nel turno di ballottaggio.
Tutto ciò parla anche a noi e, precisamente, del ricatto del “voto utile” che ad ogni scadenza elettorale, almeno da quando il sistema di voto maggioritario ha soppiantato quello proporzionale, è stato utilizzato per estorcere consensi a favore del “meno peggio”, o di ciò che si voleva fare passare per tale.
Ebbene, dobbiamo anche noi finalmente capire che “i nemici dei nostri nemici non sono nostri amici”.
Oggi che la Corte Costituzionale ha messo in mora questa truffa elettorale, propinata in nome della cosiddetta “governabilità”, c’è una corsa a riprodurne, sotto mentite spoglie, gli effetti perversi.
C’è a questo riguardo una grande confusione sotto il cielo, ma su una cosa i partiti maggiori sono tutti d’accordo: elevare la soglia di sbarramento, impedire – finchè sarà possibile - qualsiasi presenza istituzionale alla sinistra di classe, non rassegnata e non omologabile.
Semplicemente, vogliono giocarsela fra di loro, ben sapendo che dentro quel recinto nulla di sostanziale potrà mai cambiare.

martedì 9 maggio 2017

Intervento al Cpn di sabato 6 e domenica 7 maggio 2017



Vedo che molti fra gli intervenuti si sono lanciati in una sorta di esegesi dell’intervento del segretario, con uno scrupolo quasi filologico, per misurarne la distanza o l’adiacenza con Paolo Ferrero che ha diretto il partito sino al congresso.
Ebbene, posso comprendere l’interesse per l’esordio dell’Acerbo-pensiero ma, francamente, trovo questo esercizio pretestuoso, forzato, dunque strumentale, e, nella migliore delle ipotesi, frutto di capziosa pedanteria.
Personalmente, e per quel che vale, raccomanderei a tutti e a tutte uno sforzo, certamente più interessante, per cogliere e approfondire le novità che la relazione ci ha proposto.
In particolare su un tema che è stato giusto mettere a fuoco alla luce di quello che definirei un più preciso esame di realtà dei processi politici che si squadernano sotto i nostri occhi.
Il tema è quello del soggetto politico unitario della sinistra e della “costituente” che dovrebbe farlo nascere.
Ebbene, questo “tormentone”, croce per alcuni e delizia per altri, che ha attraversato per anni la nostra lacerante discussione interna, mi pare stia arrivando ad un approdo che mi pare definitivo.
Il cui senso, tradotto in una sintesi estrema, è il seguente: di costituente unitaria della sinistra non ce ne sarà una sola, per la semplice ragione che la cornice ideologica, la rappresentanza sociale, i programmi politici della coalizione in fieri che ha per protagonisti Pisapia, Bersani, D’Alema e zone limitrofe altro non è se non l’ennesima versione della subalternità alle classi dominanti, cioè al capitale. E ciò a prescindere da quale sarà la sorte che Sinistra italiana costruirà per se stessa.

Non saprei dire quanto la vicenda francese ci abbia aiutato a rendere netta e irreversibile questa conclusione, ma certo vi ha influito perché ha dimostrato che un punto di vista fondato su un progetto di profonda trasformazione della società, bollato dall’establishment e dal mainstream mediatico come follia estremistica, come pura eversione, ha fatto segnare un consenso di massa, sfiorando la possibilità di giungere al ballottaggio contro Marine Le Pen.
Ad essere travolta è stata l’idea che una sinistra radicale non possa che occupare un ruolo minoritario e residuale e che la saggezza risieda nell’abdicare alle proprie convinzioni per rifugiarsi in quello che viene (erroneamente) ritenuto il meno peggio.
Ebbene, Mélanchon ha abbandonato ogni ipertrofia simbolica ed è andato al sodo, parlando senza mezzi termini ai proletari di Francia e unificando intorno al proprio programma elettorale tutta la Ghauce (al netto dei tradizionali scivolamenti politicisti del Pcf). E tanto i proletari quanto la Ghauce hanno risposto in modo stupefacente, toccando la soglia del 20% su base nazionale, del 25% a Parigi e superando il 40% nei quartieri più popolari.
Ma su cosa Mélanchon ha chiamato a raccolta la parte del suo paese non rassegnata a consegnarsi a Le Pen o a Macron?
Ebbene, lo ha fatto su una diversa idea della Francia, che spazia dall’assetto istituzionale alle politiche economico-sociali, dalla politica estera e delle alleanze strategiche ai rapporti con l’Unione europea.
Diamo un’occhiata, per brevissimi cenni, a questo programma:
-      liquidazione del semipresidenzialismo e, nei fatti, della Quinta Repubblica;
-      un piano organico di restaurazione dei diritti del lavoro (abolizione della Loi Travail, elevazione di tutte le retribuzioni, salario minimo a 1300 euro, riduzione dell’orario settimanale di lavoro a 30 ore senza decurtazioni salariali);
-      nazionalizzazione della banca di Francia;
-      divisione fra banche commerciali e banche d’affari;
-      controllo sui movimenti di capitali;
-      rifiuto dell’accordo di libero scambio con il Canada;
-      uscita dalla Nato;
-      rinnovata politica di cooperazione con le ex colonie africane;
-      apertura di un negoziato con l’Ue per la messa in discussione del debito e dei trattati, con un “di più” fondamentale, messo nero su bianco, che se ciò non sarà possibile si procederà ad uno strappo unilaterale e alla conseguente uscita della Francia dall’Europa e dall’Euro.

Ecco un esempio di lungimiranza politica di cui dovremmo anche noi fare tesoro, perché questo tema, che con molta fatica e fra non poche resistenze ha attraversato il congresso, tornerà fatalmente fra noi, non per la compulsiva voglia di ridiscutere tutto, ma perché imposto dalla realtà delle cose.

Un altro importante contributo ci è venuto dalla Gauche: la decisione di non ripiegare su Macron nel secondo turno elettorale, rendendo chiaro che la sinistra di classe non si mette nelle mani di un candidato diretta espressione dell’oligarchia capitalistico-finanziaria che ha prodotto il disastro sociale e, nello stesso tempo, fornito munizioni alla destra razzista che in quel verminaio ha potuto crescere e mietere consensi anche e proprio fra una parte delle classi disagiate, le quali da oggi possono però contare su un’alternativa di sinistra autentica.

Fatta questa “apologia” della coalizione e del progetto politico che ha individuato in Mélanchon il proprio leader, voglio però dire che è giunta l’ora di liberarsi delle pulsioni imitative che sono sempre la più plateale confessione della carenza di una propria autonomia culturale e politica: l’esatto opposto del gramscismo che ti insegna a trovare nella tua storia, nel tuo insediamento sociale, nella tua tradizione criticamente riletta, le condizioni nazionali di un riscatto delle classi subalterne.
Di volta in volta siamo stati sedotti da altre esperienze, nella speranza che un qualche contagio imitativo potesse surrogare i nostri limiti.
Di volta in volta è stato tutto un “bisogna fare come”… la Linke, poi Syriza, poi Podemos… ed ora la fascinazione per Mélanchon. Così, ingenuità e velleitarismo spingono ad inventarsi protesi delle proprie impotenze, come sempre portatrici di effimere illusioni, e a scansare la fatica di una propria ricerca e di una proprio autonomo profilo politico.

Sulla questione sociale ha già detto tutto l’essenziale nel suo brevissimo e altrettanto lucido intervento il compagno Benvegnù, quando ha invitato tutto il partito a dedicare molta più intelligenza e molto maggiore impegno nel portare e dirigere il conflitto sociale nei punti decisivi dell’organizzazione capitalistica della produzione e del lavoro. Senza la qual cosa non siamo niente.

Infine, sul progetto politico.
Insisto su questo punto, a mio avviso cruciale, ma che non mi pare ancora sufficientemente “digerito” dalla nostra discussione.
Ebbene, occorre “scoprire” (o ri-scoprire) che un progetto esiste già e vive nella Costituzione del 1948 che il referendum del 4 dicembre scorso ha riconfermato come legge fondamentale della Repubblica.
Di questo si comincia ad avere la percezione, anche in quella parte di compagni della sinistra “che di più non ce n’è”, i quali l’hanno sempre giudicata un mediocre ed inutilizzabile compromesso borghese e che non vale la pena di impegnarsi per meno della rivoluzione; o che ti spiegano che lì dentro ci sono anche brutte cose, come l’articolo 7. Cosa verissima ma che, come forse direbbe Marx, non è l’essenziale. In quanto l’essenziale è che la Costituzione non si occupa solo della sovrastruttura, ma entra a piedi uniti nella decisiva questione della struttura della società. Essa entra a piedi uniti nei rapporti di proprietà (che dei rapporti di produzione sono la forma giuridica) e pone limiti precisi alla libertà di impresa, sino a prevederne l’esproprio e la consegna a comunità di cittadini o di lavoratori  ove questa contrasti con l’interesse sociale e violi la libertà, la sicurezza e la dignità, umana; afferma che la libertà senza uguaglianza è una presa in giro e impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che nei fatti impediscono il pieno sviluppo della persona; riconosce l’esistenza di classi contrapposte e si schiera dalla parte del lavoro, facendo del conflitto sociale, cioè della lotta di classe, il lievito dello sviluppo progressivo di una democrazia di tipo nuovo; intesta alla mano pubblica la funzione di programmazione dell’economia, entro il cui perimetro – e solo in esso – si può configurare lo spazio dell’iniziativa privata.
Ebbene, io credo che questa visione, questo progetto di società può diventare il terreno unificante (e, nello stesso tempo, discriminante) della sola costituente unitaria che può interessarci, quella cioè non assimilabile a nessuna versione del capitalismo nella sua forma attuale e prefiguratrice di una fase di transizione verso rapporti sociali non più dominati dal rapporto di capitale. Una coalizione tendenzialmente di massa e maggioritaria che deve trovare nei comunisti la forza propulsiva fondamentale.
Lavorare a questa rivoluzione “copernicana” che fa dei contenuti il criterio dell’aggregazione politica è il compito a cui dedicarsi da subito.
Poi, se sapremo ben scavare, arriverà anche il tempo in cui riconquisteremo, per dirla con Acerbo, sia rappresentanza sociale e politica che rappresentazione mediatica.

lunedì 1 maggio 2017

Il rischio della guerra che è davanti a noi




Dopo la crisi dei missili a Cuba nel 1962, quando si rischiò seriamente la guerra fra Stati Uniti e Unione sovietica, la paura che l’umanità potesse essere annientata da una catastrofe termonucleare sembrò essere tramontata per sempre. E così avvenne, per molti anni.
Poi, dopo la caduta dell’Urss e del socialismo realizzato vi fu tutto un fiorire di immaginifici racconti sulla “fine della storia”, considerato che il paradigma capitalistico aveva trionfato sul suo antagonista storico e che il mondo, secondo i mentori del capitale, avrebbe conosciuto solo pace e prosperità.
Peccato che questo profluvio di sciocchezze ideologiche trascurasse che il capitalismo ha sempre convissuto con la guerra, di cui si è strategicamente nutrito per rilanciare il meccanismo di accumulazione messo in crisi dalle proprie interne, insanabili contraddizioni.
I decenni che abbiamo alle spalle e il presente che stiamo vivendo ne sono una lampante dimostrazione.
Le guerre locali e regionali hanno ormai assunto una dimensione globale, dove i conflitti, mossi da interessi economici e geo-politici, delineano un quadro dirompente, segnato dall’antagonismo fra imperialismi e sub-imperialismi caratterizzati dalla lotta per il possesso e il controllo delle materie prime.
Le potenti corporations armiere e i centri di potere ad esse legati hanno assunto ovunque un potere esorbitante e impongono una corsa agli armamenti a cui sembra non più in grado di contrapporsi un movimento di massa e globale per la pace che nel passato e fino agli anni 2000 era riuscito almeno a contendere il campo alle pulsioni guerrafondaie.
Un inquietante fatalismo, quasi un senso di rassegnazione, di impotenza pare avere inibito ogni capacità di mobilitazione a tutte le latitudini.
E invece nulla più della passività può trascinare il mondo oltre l’orlo del baratro.
Ritenere che quanto sta accadendo davanti alle coste coreane non sia che una schermaglia tattica senza reali conseguenze e che tutto si risolverà in una pura esibizione muscolare è un errore di incalcolabile gravità.
Gli Stati uniti, sui quali pesa la più grande responsabilità della situazione che si è prodotta, hanno già ampiamente dimostrato di sapere varcare la soglia di non ritorno, nella sciagurata illusione che lo strapotere bellico di cui dispongono consentirebbe loro di vincere contro il “ruggito del topo” del dittatore nord-coreano.
E’ in realtà del tutto evidente che il detonatore coreano produrrebbe un’accelerazione di tutti i conflitti aperti in ogni scacchiere, dall’Europa all’Asia, dall’Africa all’America latina. Anche questo è già successo, e dovrebbe rammentarlo chi non ha del tutto smarrito il ricordo di come e perché l’umanità si sia gettata in due terrificanti conflitti mondiali.
L’Europa, e nell’Europa l’Italia, non svolgono alcun ruolo positivo. Anzi: si armano e armano i paesi che vogliono armarsi. Senza andare per il sottile, giacché, come si sa, il denaro, e i profitti che ne derivano, non hanno odore.
Non è dai governi, proni alle classi dominanti, che può venire uno scatto di resipiscenza. Può venire dai popoli, che le costituzioni post-belliche vorrebbero sovrani, se smetteranno di subire la protervia irresponsabile di quell’uno per cento di padroni universali che dopo averli depredati ed espropriati ora potrebbero prendersi le loro vite. Ricordatelo: è già successo!