Vedo che molti fra gli intervenuti
si sono lanciati in una sorta di esegesi dell’intervento del segretario, con
uno scrupolo quasi filologico, per misurarne la distanza o l’adiacenza con Paolo
Ferrero che ha diretto il partito sino al congresso.
Ebbene, posso comprendere
l’interesse per l’esordio dell’Acerbo-pensiero ma, francamente, trovo questo
esercizio pretestuoso, forzato, dunque strumentale, e, nella migliore delle
ipotesi, frutto di capziosa pedanteria.
Personalmente, e per quel che
vale, raccomanderei a tutti e a tutte uno sforzo, certamente più interessante, per
cogliere e approfondire le novità che la relazione ci ha proposto.
In particolare su un tema che
è stato giusto mettere a fuoco alla luce di quello che definirei un più preciso
esame di realtà dei processi politici che si squadernano sotto i nostri occhi.
Il tema è quello del soggetto
politico unitario della sinistra e della “costituente” che dovrebbe farlo
nascere.
Ebbene, questo “tormentone”,
croce per alcuni e delizia per altri, che ha attraversato per anni la nostra
lacerante discussione interna, mi pare stia arrivando ad un approdo che mi pare
definitivo.
Il cui senso, tradotto in una
sintesi estrema, è il seguente: di costituente unitaria della sinistra non ce
ne sarà una sola, per la semplice ragione che la cornice ideologica, la
rappresentanza sociale, i programmi politici della coalizione in fieri che ha
per protagonisti Pisapia, Bersani, D’Alema e zone limitrofe altro non è se non
l’ennesima versione della subalternità alle classi dominanti, cioè al capitale.
E ciò a prescindere da quale sarà la sorte che Sinistra italiana costruirà per
se stessa.
Non saprei dire quanto la
vicenda francese ci abbia aiutato a rendere netta e irreversibile questa
conclusione, ma certo vi ha influito perché ha dimostrato che un punto di vista
fondato su un progetto di profonda trasformazione della società, bollato
dall’establishment e dal mainstream mediatico come follia estremistica, come
pura eversione, ha fatto segnare un consenso di massa, sfiorando la possibilità
di giungere al ballottaggio contro Marine Le Pen.
Ad essere travolta è stata
l’idea che una sinistra radicale non possa che occupare un ruolo minoritario e
residuale e che la saggezza risieda nell’abdicare alle proprie convinzioni per
rifugiarsi in quello che viene (erroneamente) ritenuto il meno peggio.
Ebbene, Mélanchon ha
abbandonato ogni ipertrofia simbolica ed è andato al sodo, parlando senza mezzi
termini ai proletari di Francia e unificando intorno al proprio programma
elettorale tutta la Ghauce (al netto
dei tradizionali scivolamenti politicisti del Pcf). E tanto i proletari quanto
la Ghauce hanno risposto in modo
stupefacente, toccando la soglia del 20% su base nazionale, del 25% a Parigi e
superando il 40% nei quartieri più popolari.
Ma su cosa Mélanchon ha
chiamato a raccolta la parte del suo paese non rassegnata a consegnarsi a Le
Pen o a Macron?
Ebbene, lo ha fatto su una
diversa idea della Francia, che spazia dall’assetto istituzionale alle
politiche economico-sociali, dalla politica estera e delle alleanze strategiche
ai rapporti con l’Unione europea.
Diamo un’occhiata, per
brevissimi cenni, a questo programma:
-
liquidazione del
semipresidenzialismo e, nei fatti, della Quinta Repubblica;
-
un piano organico
di restaurazione dei diritti del lavoro (abolizione della Loi Travail, elevazione di tutte le retribuzioni, salario minimo a
1300 euro, riduzione dell’orario settimanale di lavoro a 30 ore senza
decurtazioni salariali);
-
nazionalizzazione
della banca di Francia;
-
divisione fra
banche commerciali e banche d’affari;
-
controllo sui
movimenti di capitali;
-
rifiuto
dell’accordo di libero scambio con il Canada;
-
uscita dalla
Nato;
-
rinnovata
politica di cooperazione con le ex colonie africane;
-
apertura di un
negoziato con l’Ue per la messa in discussione del debito e dei trattati, con
un “di più” fondamentale, messo nero su bianco, che se ciò non sarà possibile
si procederà ad uno strappo unilaterale e alla conseguente uscita della Francia
dall’Europa e dall’Euro.
Ecco un esempio di lungimiranza
politica di cui dovremmo anche noi fare tesoro, perché questo tema, che con
molta fatica e fra non poche resistenze ha attraversato il congresso, tornerà
fatalmente fra noi, non per la compulsiva voglia di ridiscutere tutto, ma
perché imposto dalla realtà delle cose.
Un altro importante contributo
ci è venuto dalla Gauche: la
decisione di non ripiegare su Macron nel secondo turno elettorale, rendendo
chiaro che la sinistra di classe non si mette nelle mani di un candidato
diretta espressione dell’oligarchia capitalistico-finanziaria che ha prodotto
il disastro sociale e, nello stesso tempo, fornito munizioni alla destra
razzista che in quel verminaio ha potuto crescere e mietere consensi anche e proprio
fra una parte delle classi disagiate, le quali da oggi possono però contare su
un’alternativa di sinistra autentica.
Fatta questa “apologia” della
coalizione e del progetto politico che ha individuato in Mélanchon il proprio
leader, voglio però dire che è giunta l’ora di liberarsi delle pulsioni
imitative che sono sempre la più plateale confessione della carenza di una propria
autonomia culturale e politica: l’esatto opposto del gramscismo che ti insegna
a trovare nella tua storia, nel tuo insediamento sociale, nella tua tradizione
criticamente riletta, le condizioni nazionali di un riscatto delle classi
subalterne.
Di volta in volta siamo stati
sedotti da altre esperienze, nella speranza che un qualche contagio imitativo
potesse surrogare i nostri limiti.
Di volta in volta è stato tutto
un “bisogna fare come”… la Linke, poi Syriza, poi Podemos… ed ora la
fascinazione per Mélanchon. Così, ingenuità e velleitarismo spingono ad
inventarsi protesi delle proprie impotenze, come sempre portatrici di effimere
illusioni, e a scansare la fatica di una propria ricerca e di una proprio
autonomo profilo politico.
Sulla questione sociale ha
già detto tutto l’essenziale nel suo brevissimo e altrettanto lucido intervento
il compagno Benvegnù, quando ha invitato tutto il partito a dedicare molta più
intelligenza e molto maggiore impegno nel portare e dirigere il conflitto
sociale nei punti decisivi dell’organizzazione capitalistica della produzione e
del lavoro. Senza la qual cosa non siamo niente.
Infine, sul progetto
politico.
Insisto su questo punto, a
mio avviso cruciale, ma che non mi pare ancora sufficientemente “digerito”
dalla nostra discussione.
Ebbene, occorre “scoprire” (o
ri-scoprire) che un progetto esiste già e vive nella Costituzione del 1948 che
il referendum del 4 dicembre scorso ha riconfermato come legge fondamentale
della Repubblica.
Di questo si comincia ad
avere la percezione, anche in quella parte di compagni della sinistra “che di
più non ce n’è”, i quali l’hanno sempre giudicata un mediocre ed inutilizzabile
compromesso borghese e che non vale la pena di impegnarsi per meno della
rivoluzione; o che ti spiegano che lì dentro ci sono anche brutte cose, come
l’articolo 7. Cosa verissima ma che, come forse direbbe Marx, non è
l’essenziale. In quanto l’essenziale è che la Costituzione non si occupa solo
della sovrastruttura, ma entra a piedi uniti nella decisiva questione della
struttura della società. Essa entra a
piedi uniti nei rapporti di proprietà (che dei rapporti di produzione sono la
forma giuridica) e pone limiti precisi alla libertà di impresa, sino a
prevederne l’esproprio e la consegna a comunità di cittadini o di
lavoratori ove questa contrasti con
l’interesse sociale e violi la libertà, la sicurezza e la dignità, umana; afferma che la libertà senza
uguaglianza è una presa in giro e impone alla Repubblica di rimuovere gli
ostacoli che nei fatti impediscono il pieno sviluppo della persona; riconosce l’esistenza di classi
contrapposte e si schiera dalla parte del lavoro, facendo del conflitto
sociale, cioè della lotta di classe, il lievito dello sviluppo progressivo di
una democrazia di tipo nuovo; intesta
alla mano pubblica la funzione di programmazione dell’economia, entro il cui
perimetro – e solo in esso – si può configurare lo spazio dell’iniziativa
privata.
Ebbene, io credo che questa
visione, questo progetto di società può diventare il terreno unificante (e,
nello stesso tempo, discriminante) della sola costituente unitaria che può
interessarci, quella cioè non assimilabile a nessuna versione del capitalismo
nella sua forma attuale e prefiguratrice di una fase di transizione verso
rapporti sociali non più dominati dal rapporto di capitale. Una coalizione
tendenzialmente di massa e maggioritaria che deve trovare nei comunisti la
forza propulsiva fondamentale.
Lavorare a questa rivoluzione
“copernicana” che fa dei contenuti il criterio dell’aggregazione politica è il
compito a cui dedicarsi da subito.
Poi, se sapremo ben scavare,
arriverà anche il tempo in cui riconquisteremo, per dirla con Acerbo, sia
rappresentanza sociale e politica che rappresentazione mediatica.