Sarà
utile cominciare a chiamare il governo Gentiloni per quello che è. Non solo,
come genericamente si è detto, un governo “fotocopia” di quello di Renzi ma,
evitando inutili perifrasi, un governo di lestofanti, che, eterodiretti dal
guitto di Rignano, operano in consapevole e proditoria malafede.
L’ultima
prova di sé l’esecutivo l’ha fornita sul tema voucher, oggetto del referendum
abrogativo promosso dalla Cgil. Voi tutti ricorderete che la consultazione non
si svolse perché il governo riesumato dopo la Caporetto del 4 dicembre, temette
– e a ragione! – che una nuova prova elettorale avrebbe travolto ciò che
restava delle politiche contro il lavoro promosse da Renzi, mentre ad impedire
che il popolo italiano si pronunciasse sullo sventramento dell’articolo 18
aveva già inopinatamente provveduto la Corte costituzionale.
Fatto
sta che il governo fotocopia decise di abrogare la norma, ottenendo così che
mancando l’oggetto del contendere il referendum sarebbe decaduto.
Ma,
come dice un noto adagio popolare, “finita
la festa, gabbatu lu santu”. Ed ecco che, esattamente nel giorno in cui
avrebbe dovuto svolgersi il referendum, il 28 maggio, il governo si appresta a
reintrodurre, neppure sotto mentite spoglie, i famigerati voucher.
Ricorderete
che questa moderna forma di lavoro schiavile era stata all’origine introdotta –
così dissero i manigoldi – per portare in chiaro il lavoro occasionale, ad
esempio, degli studenti che venivano impegnati in piccole e saltuarie attività
lavorative nel periodo estivo.
Poi
la formula, perversa in se stessa, fu estesa da Renzi a tutte le imprese di
ogni grandezza e tipologia, sicché il lavoratore la cui prestazione si compra
acquistando un ticket dal tabaccaio divenne una pratica corrente, perché nulla
più del lavoro “usa e getta” è sempre stato il sogno nel cassetto di ogni padrone.
Così, nel 2016 il numero di voucher acquistati è schizzato a 183 milioni e 800
mila: una vera e propria orgia di precariato, l’equivalente, in termini di ore,
di 47.000 lavoratori full time.
La
ritirata del governo è durata dunque solo due mesi. Ora i voucher vengono
riproposti, sia pure per le sole aziende con meno di 5 dipendenti, ma in un
paese in cui la dimensione media di impresa è di 3,7 dipendenti! In altri
termini, nella galassia delle piccole aziende è lecito fare ciò che si vuole.
L’importante è salvare l’istituto, dopo avere per l’ennesima volta fatto a
pezzi la sovranità popolare e il diritto ad un lavoro dignitoso, precetto che
vive scolpito nella Costituzione, ma non nella testa e nei programmi di chi
usurpa il governo di questo paese.
Per
la cronaca, il governo si predispone a sferrare un altro colpo di maglio alla
sdrucitissima trama dei diritti del lavoro, generalizzando per tutte le imprese
una delle peggiori forme di precarietà: il lavoro a chiamata (il “Job on call”, come amano dire
pudicamente lor signori), in base al quale i prestatori d’opera mettono a
disposizione tutto il proprio tempo di vita nell’attesa di essere chiamati per
qualche giorno o qualche ora. Poiché la vecchia norma non pareva
sufficiente, il governo vuole ora cancellare i limiti che oggi circoscrivono il
lavoro a chiamata sotto i 25 e sopra i 55 anni di età.
Senza
pudore, direte! Sì, senza pudore.
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