martedì 9 maggio 2017

Intervento al Cpn di sabato 6 e domenica 7 maggio 2017



Vedo che molti fra gli intervenuti si sono lanciati in una sorta di esegesi dell’intervento del segretario, con uno scrupolo quasi filologico, per misurarne la distanza o l’adiacenza con Paolo Ferrero che ha diretto il partito sino al congresso.
Ebbene, posso comprendere l’interesse per l’esordio dell’Acerbo-pensiero ma, francamente, trovo questo esercizio pretestuoso, forzato, dunque strumentale, e, nella migliore delle ipotesi, frutto di capziosa pedanteria.
Personalmente, e per quel che vale, raccomanderei a tutti e a tutte uno sforzo, certamente più interessante, per cogliere e approfondire le novità che la relazione ci ha proposto.
In particolare su un tema che è stato giusto mettere a fuoco alla luce di quello che definirei un più preciso esame di realtà dei processi politici che si squadernano sotto i nostri occhi.
Il tema è quello del soggetto politico unitario della sinistra e della “costituente” che dovrebbe farlo nascere.
Ebbene, questo “tormentone”, croce per alcuni e delizia per altri, che ha attraversato per anni la nostra lacerante discussione interna, mi pare stia arrivando ad un approdo che mi pare definitivo.
Il cui senso, tradotto in una sintesi estrema, è il seguente: di costituente unitaria della sinistra non ce ne sarà una sola, per la semplice ragione che la cornice ideologica, la rappresentanza sociale, i programmi politici della coalizione in fieri che ha per protagonisti Pisapia, Bersani, D’Alema e zone limitrofe altro non è se non l’ennesima versione della subalternità alle classi dominanti, cioè al capitale. E ciò a prescindere da quale sarà la sorte che Sinistra italiana costruirà per se stessa.

Non saprei dire quanto la vicenda francese ci abbia aiutato a rendere netta e irreversibile questa conclusione, ma certo vi ha influito perché ha dimostrato che un punto di vista fondato su un progetto di profonda trasformazione della società, bollato dall’establishment e dal mainstream mediatico come follia estremistica, come pura eversione, ha fatto segnare un consenso di massa, sfiorando la possibilità di giungere al ballottaggio contro Marine Le Pen.
Ad essere travolta è stata l’idea che una sinistra radicale non possa che occupare un ruolo minoritario e residuale e che la saggezza risieda nell’abdicare alle proprie convinzioni per rifugiarsi in quello che viene (erroneamente) ritenuto il meno peggio.
Ebbene, Mélanchon ha abbandonato ogni ipertrofia simbolica ed è andato al sodo, parlando senza mezzi termini ai proletari di Francia e unificando intorno al proprio programma elettorale tutta la Ghauce (al netto dei tradizionali scivolamenti politicisti del Pcf). E tanto i proletari quanto la Ghauce hanno risposto in modo stupefacente, toccando la soglia del 20% su base nazionale, del 25% a Parigi e superando il 40% nei quartieri più popolari.
Ma su cosa Mélanchon ha chiamato a raccolta la parte del suo paese non rassegnata a consegnarsi a Le Pen o a Macron?
Ebbene, lo ha fatto su una diversa idea della Francia, che spazia dall’assetto istituzionale alle politiche economico-sociali, dalla politica estera e delle alleanze strategiche ai rapporti con l’Unione europea.
Diamo un’occhiata, per brevissimi cenni, a questo programma:
-      liquidazione del semipresidenzialismo e, nei fatti, della Quinta Repubblica;
-      un piano organico di restaurazione dei diritti del lavoro (abolizione della Loi Travail, elevazione di tutte le retribuzioni, salario minimo a 1300 euro, riduzione dell’orario settimanale di lavoro a 30 ore senza decurtazioni salariali);
-      nazionalizzazione della banca di Francia;
-      divisione fra banche commerciali e banche d’affari;
-      controllo sui movimenti di capitali;
-      rifiuto dell’accordo di libero scambio con il Canada;
-      uscita dalla Nato;
-      rinnovata politica di cooperazione con le ex colonie africane;
-      apertura di un negoziato con l’Ue per la messa in discussione del debito e dei trattati, con un “di più” fondamentale, messo nero su bianco, che se ciò non sarà possibile si procederà ad uno strappo unilaterale e alla conseguente uscita della Francia dall’Europa e dall’Euro.

Ecco un esempio di lungimiranza politica di cui dovremmo anche noi fare tesoro, perché questo tema, che con molta fatica e fra non poche resistenze ha attraversato il congresso, tornerà fatalmente fra noi, non per la compulsiva voglia di ridiscutere tutto, ma perché imposto dalla realtà delle cose.

Un altro importante contributo ci è venuto dalla Gauche: la decisione di non ripiegare su Macron nel secondo turno elettorale, rendendo chiaro che la sinistra di classe non si mette nelle mani di un candidato diretta espressione dell’oligarchia capitalistico-finanziaria che ha prodotto il disastro sociale e, nello stesso tempo, fornito munizioni alla destra razzista che in quel verminaio ha potuto crescere e mietere consensi anche e proprio fra una parte delle classi disagiate, le quali da oggi possono però contare su un’alternativa di sinistra autentica.

Fatta questa “apologia” della coalizione e del progetto politico che ha individuato in Mélanchon il proprio leader, voglio però dire che è giunta l’ora di liberarsi delle pulsioni imitative che sono sempre la più plateale confessione della carenza di una propria autonomia culturale e politica: l’esatto opposto del gramscismo che ti insegna a trovare nella tua storia, nel tuo insediamento sociale, nella tua tradizione criticamente riletta, le condizioni nazionali di un riscatto delle classi subalterne.
Di volta in volta siamo stati sedotti da altre esperienze, nella speranza che un qualche contagio imitativo potesse surrogare i nostri limiti.
Di volta in volta è stato tutto un “bisogna fare come”… la Linke, poi Syriza, poi Podemos… ed ora la fascinazione per Mélanchon. Così, ingenuità e velleitarismo spingono ad inventarsi protesi delle proprie impotenze, come sempre portatrici di effimere illusioni, e a scansare la fatica di una propria ricerca e di una proprio autonomo profilo politico.

Sulla questione sociale ha già detto tutto l’essenziale nel suo brevissimo e altrettanto lucido intervento il compagno Benvegnù, quando ha invitato tutto il partito a dedicare molta più intelligenza e molto maggiore impegno nel portare e dirigere il conflitto sociale nei punti decisivi dell’organizzazione capitalistica della produzione e del lavoro. Senza la qual cosa non siamo niente.

Infine, sul progetto politico.
Insisto su questo punto, a mio avviso cruciale, ma che non mi pare ancora sufficientemente “digerito” dalla nostra discussione.
Ebbene, occorre “scoprire” (o ri-scoprire) che un progetto esiste già e vive nella Costituzione del 1948 che il referendum del 4 dicembre scorso ha riconfermato come legge fondamentale della Repubblica.
Di questo si comincia ad avere la percezione, anche in quella parte di compagni della sinistra “che di più non ce n’è”, i quali l’hanno sempre giudicata un mediocre ed inutilizzabile compromesso borghese e che non vale la pena di impegnarsi per meno della rivoluzione; o che ti spiegano che lì dentro ci sono anche brutte cose, come l’articolo 7. Cosa verissima ma che, come forse direbbe Marx, non è l’essenziale. In quanto l’essenziale è che la Costituzione non si occupa solo della sovrastruttura, ma entra a piedi uniti nella decisiva questione della struttura della società. Essa entra a piedi uniti nei rapporti di proprietà (che dei rapporti di produzione sono la forma giuridica) e pone limiti precisi alla libertà di impresa, sino a prevederne l’esproprio e la consegna a comunità di cittadini o di lavoratori  ove questa contrasti con l’interesse sociale e violi la libertà, la sicurezza e la dignità, umana; afferma che la libertà senza uguaglianza è una presa in giro e impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che nei fatti impediscono il pieno sviluppo della persona; riconosce l’esistenza di classi contrapposte e si schiera dalla parte del lavoro, facendo del conflitto sociale, cioè della lotta di classe, il lievito dello sviluppo progressivo di una democrazia di tipo nuovo; intesta alla mano pubblica la funzione di programmazione dell’economia, entro il cui perimetro – e solo in esso – si può configurare lo spazio dell’iniziativa privata.
Ebbene, io credo che questa visione, questo progetto di società può diventare il terreno unificante (e, nello stesso tempo, discriminante) della sola costituente unitaria che può interessarci, quella cioè non assimilabile a nessuna versione del capitalismo nella sua forma attuale e prefiguratrice di una fase di transizione verso rapporti sociali non più dominati dal rapporto di capitale. Una coalizione tendenzialmente di massa e maggioritaria che deve trovare nei comunisti la forza propulsiva fondamentale.
Lavorare a questa rivoluzione “copernicana” che fa dei contenuti il criterio dell’aggregazione politica è il compito a cui dedicarsi da subito.
Poi, se sapremo ben scavare, arriverà anche il tempo in cui riconquisteremo, per dirla con Acerbo, sia rappresentanza sociale e politica che rappresentazione mediatica.

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