sabato 31 dicembre 2016

Il 1956, il Pci e il progetto di una nuova società. La via italiana al socialismo



 “Il 1956, il Pci e il progetto di una nuova società. La via italiana al socialismo”
(intervento di Dino Greco)

Diceva Togliatti nella sua relazione alla I sottocommissione della Costituente dedicata al tema cruciale dei Principii dei rapporti economico-sociali che “in un regime di pura libertà economica, cioè di pura competizione è inevitabile che masse ingenti di donne e di uomini siano privi degli indispensabili mezzi di sussistenza” perché “questa è infatti una delle condizioni affinché tutto il sistema economico capitalistico possa funzionare, ed è conseguenza di uno sviluppo che tende da un lato a concentrare le ricchezze nelle mani di gruppi ristretti di privilegiati, mentre dall’altro lato aumenta il numero dei diseredati”.  
E aggiungeva che “anche se la massa dei diseredati in periodi di prosperità e in paesi particolarmente favoriti può tendere a diminuire, essa torna ad accrescersi in modo pauroso quando inesorabilmente sopravvengono i periodi di crisi”.
Togliatti proseguiva ricordando che “l’esperienza di tutti i paesi a capitalismo sviluppato mostra come per lo sviluppo stesso delle leggi interne dell’economia capitalistica la libera concorrenza genera il monopolio, cioè genera la fine della libertà. E si creano così ancora più rapidamente le condizioni in cui la proprietà dei mezzi di produzione e quindi la ricchezza tendono a concentrarsi nelle mani di pochi gruppi di plutocrati, che se ne servono per dominare la vita di tutto il paese, per dirigerne le sorti nel proprio interesse esclusivo, per appoggiare movimenti politici reazionari, per mantenere ed instaurare le tirannidi fasciste, per scatenare guerre imperialistiche di rapina, operando sistematicamente contro l’interesse del popolo, della Nazione”.
Poi arriva la stoccata decisiva: E’ per questo – affermava Togliatti - che occorre abbandonare “le concezioni utopistiche del vecchio liberalismo per dare corso ad un’opera ampia e radicale di riforma della struttura economica della società” perché “il prevalere nei principali paesi dell’Europa capitalistica di gruppi plutocratici reazionari ha portato in alcuni di essi alla totale liquidazione delle istituzioni democratiche, in altri ad una seria minaccia per la loro esistenza, in tutti o quasi tutti al tradimento dell’interesse nazionale da parte delle caste dirigenti reazionarie, e a quell’esasperato acutizzarsi di conflitti imperialistici che doveva metter capo alla catastrofe immane della seconda guerra mondiale”.
Quindi, ecco la trama essenziale su cui incardinare la nuova costituzione, il progetto di società di cui si doveva forgiare la strumentazione: centralità del lavoro, programmazione economica, ruolo decisivo della mano pubblica, cooperazione, forme di proprietà diverse da quella privata, controllo operaio sulla produzione, nazionalizzazione delle imprese che per il loro carattere di servizio pubblico debbono essere sottratte all’iniziativa privata, libertà di impresa rigorosamente subordinata all’interesse sociale, sino all’esproprio della proprietà ove questo principio venga contraddetto.
E “democrazia progressiva”, come espansione della partecipazione popolare verso forme inedite di produzione e socializzazione della ricchezza prodotta dal lavoro sociale.
Insomma: un processo di transizione, verso una società non più capitalistica. Un processo nel quale la dialettica e il conflitto sociale venivano concepiti come elementi costitutivi del progresso del Paese.
E’ questo il telaio politico su cui si sviluppa, nel ’56, l’elaborazione dell’VIII congresso del Pci, nell’intento di dare corpo ad un progetto, ad un’architettura politica e sociale capace di rispondere al tema gramsciano della rivoluzione in Occidente, di una via italiana al socialismo, sganciata dalla forma storica in cui il socialismo si era realizzato nell’Urss, capace di coniugare diritti civili e diritti sociali, libertà ed uguaglianza.

Certo, nella Costituzione non c’è scritto tutto questo, almeno non nei suoi presupposti teorici, ma c’è molto di tutto questo, nell’insieme e nelle parti, sia nei principii fondamentali che, in modo speciale, nei 13 articoli che compongono il titolo III.
Ed è per questa solida ragione che dal momento stesso della sua promulgazione la Costituzione è stata attaccata, con forza tanto maggiore quanto più essa metteva in forse l’egemonia delle classi dominanti e i rapporti sociali esistenti.
Non deve dunque sorprendere se fu l’irruzione sulla scena politica di un formidabile movimento operaio, fra la fine degli anni Sessanta e buona parte dei Settanta, a fare rivivere la Costituzione nel suo spirito originario e nei suoi contenuti più innovativi. Come non deve sorprendere se al declino prima e alla sconfitta poi di quel movimento, insieme alla dissoluzione del socialismo realizzato, sia corrisposto l’affermarsi del dominio assoluto del capitale e della sua ideologia in forme violentemente regressive in Italia come in larga parte del mondo.

Dalla fine degli anni Quaranta il mondo è profondamente cambiato.
Lo è, in primo luogo, il modello di accumulazione capitalistica conseguente al processo di finanziarizzazione dell’economia con i tratti di una vera e propria superfetazione usuraria che reagisce sull’economia reale distruggendo forze produttive e consumando irreversibilmente risorse naturali, con una rapidità che non ne consente il rinnovo.
E’ un modello che si fonda su una concentrazione inaudita della ricchezza e del potere, sull’esproprio della sovranità popolare e sull’ostilità alle democrazie come plasmate dalle costituzioni antifasciste che - certo non a caso - sono diventate in varie forme il bersaglio dichiarato dei gruppi dominanti che sempre più inclinano verso una torsione oligarchica e totalitaria del potere.

Ebbene, merita osservare come la Costituzione italiana e la discussione che nel lavoro costituente ne rappresentò l’incubazione, siano – nel tempo presente e per certi versi più di prima - di una stupefacente attualità e indichino la strada di un processo possibile di aggregazione di soggettività politiche, sociali, culturali che vivacchiano separate in una impotente diaspora autodistruttiva, confinate nell’irrilevanza o nella subalternità.

Si è in questi anni tentato, con recidivante testardaggine, di formare schieramenti politici a sinistra, contenitori di sigle, per lo più in vista di appuntamenti elettorali, con l’intenzione rivelatasi velleitaria di coagulare una massa critica sufficiente a riconquistare come che sia una qualche rappresentanza istituzionale, una sorta di certificato di esistenza in vita.
Quanto ai contenuti di questi variopinti rassemblement, la ricerca è stata sempre piuttosto vaga, sulla scia del convincimento che andare per il sottile avrebbe fatto morire il bambino nella culla.
Così è accaduto, ogni volta, che il bambino affetto da strutturale gracilità, si è schiantato subito dopo il primo vagito, quando non addirittura durante la gestazione. Fuor di metafora, le operazioni politiciste, prive di base sociale e di vero progetto politico, hanno sempre prodotto improbabili accrocchi e fragorosi insuccessi.
Si è anche cercato di aggirare la questione cruciale del programma con formule lessicali all’apparenza radicali, contrassegnate dal sigillo dell’antiliberismo.
Peccato che l’incerta semantica del termine non sia riuscita a spazzare via l’eterogenesi dei fini che si nascondeva dietro la formula solo in apparenza radicale e unificante.
Il fatto è che non si sfugge al tema di fondo: se non è chiaro dove si vuole andare è del tutto vano scapicollarsi nella ricerca di fantasiose ricette organizzativistiche.

Ora, come spesso accade, sono i fatti, la prassi sociale ad illuminare la strada, a far intravvedere possibilità nuove, semplici, ma rimaste inopinatamente inesplorate.

Per uno di quei paradossi che ogni tanto si verificano nella storia, dobbiamo questo a Matteo Renzi e ad essere sinceri dovremmo proprio ringraziarlo. Dovremmo ringraziarlo per la sua incontenibile brama di potere, per avere tentato di travolgere la democrazia costituzionale attraverso un plebiscito che se vinto avrebbe cancellato il parlamento e consegnato il potere, tutto il potere, nelle mani di una consorteria di lestofanti che in questi anni hanno dato plateale dimostrazione degli interessi a cui sono asserviti.
Dovremmo ringraziarlo per avere rimesso in moto la sovranità del popolo che è corso in massa alle urne non per incoronarlo, ma per mandarlo a casa.
Infine, cosa della massima importanza, dovremmo ringraziarlo per avere contribuito, sebbene a sua insaputa, e comunque contro ogni sua intenzione, a riaccendere i riflettori sulla Costituzione, non soltanto sui temi, certamente rilevantissimi, della forma di governo, dello Stato, dell’architettura istituzionale, ma anche sui fondamentali principi costituzionali, sulla nervatura sociale, sul progetto di società e di democrazia che vive nella Carta e che da oltre trent’anni è stato messo in sonno, dimenticato, scardinato.

Il voto, come tutti hanno potuto vedere, ha avuto diverse facce, ma fra queste c’è un tratto fondamentale e decisivo: il voto ha messo i ricchi e coloro che sentono di avere le terga al riparo da una parte e i poveri, i precari, i lavoratori, gli sfruttati dall’altra.
Una parte dei quali ha capito, per istinto, che la Costituzione sta dalla loro parte mentre quelli che la vogliono liquidare stanno dall’altra: si è trattato, per usare le parole giuste, di un voto socialmente connotato, sebbene non ancora di classe.
Chi sta pagando drammaticamente la crisi ha pronunciato un solenne “Basta!” al potere che ha somministrato potenti dosi di austerità a chi sta in basso e laute prebende a chi sta in alto e che ha fatto della disuguaglianza il proprio distintivo politico.

Certo, questa rivolta si è espressa nella sola forma oggi possibile.
Quella sorprendente corsa alle urne ha supplito al vuoto di un conflitto sociale organizzato e alla latitanza di un progetto politico che nessun soggetto politico ha sin qui saputo proporre con sufficiente chiarezza.

Per questo credo che l’esito del referendum parla un linguaggio chiarissimo e formula una domanda esplicita anche al frammentatissimo arcipelago della sinistra non addomesticata dalle sirene renziane, estranea e ostile al definitivo approdo liberale del Pd e purtuttavia (sino ad ora) incapace di trovare un punto di incontro programmatico forte, durevole, tale da prefigurare un blocco sociale e politico alternativo alle due destre in cui si articola la rappresentanza delle classi dominanti, in Italia e in Europa.

Ebbene, io credo che il messaggio che deve giungere a tutte le orecchie ricettive è questo: fare proprio, senza omissioni o riduzioni, il contenuto politico-sociale fondamentale della Carta del’48, declinarlo in obiettivi chiari e percepibili da tutti e da tutte, farlo divenire il comune denominatore, il patto vincolante di un progetto trasformativo della società italiana, e intorno ad esso coagulare una coalizione di soggettività politiche diverse, tutte chiaramente visibili nella propria identità e autonomia, eppure tutte solidalmente unite nella realizzazione di quel disegno.
Basta, dunque, con le fallimentari scorciatoie politiciste con cui sino ad oggi si è preteso di rifondare la sinistra mettendo intorno ad un tavolo soggetti in cerca d’autore, contenitore senza contenuti.
Il paradigma va rovesciato perché, per una volta, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto cambia.
Prima viene il progetto politico, e precisamente quello incardinato nella Legge fondamentale che abbiamo per così dire, “riconquistato” in uno scontro campale e che, a leggerla bene, non fa sconti a nessuno.
  
Per lungo tempo quel testo è stato smarrito, o sottovalutato, da alcuni interpretato come una sorta di icona inerte, da celebrarsi a buon mercato negli esercizi retorici senza concrete conseguenze, da altri che pensano non valga la pena impegnarsi per meno della rivoluzione, come un un tiepido compromesso di impronta borghese. Quando a me pare evidente che viva nella Costituzione un impianto di classe molto più robusto che in tante superficiali declamazioni di antiliberismo.
Mi fermo qui perché non è qui il luogo ove declinare, punto per punto, il progetto politico che nella Costituzione trova il proprio centro di annodamento e che può rappresentare l’incipit di una riscossa democratica.
Purché sia chiaro che è questo il lavoro che da oggi dobbiamo fare, senza perdere un solo momento.

lunedì 19 dicembre 2016

Vinta una battaglia, ma la guerra è ancora aperta



 
Credo che nessuno pensasse seriamente che la sconfitta avrebbe indotto Matteo Renzi all’abbandono della politica. Men che meno lui. Lo scenario della debacle era talmente lontano dalle sue più pessimistiche previsioni che l’ipotesi di un ritiro alla vita privata era un puro espediente retorico, serviva a spaccare diametralmente il paese e costringerlo ad un plebiscito sulla sua persona. L’idea malsana somigliava a quella a suo tempo propugnata dal fu ideologo della Lega Gianfranco Miglio, il quale sosteneva che la costituzione si può (anzi si deve) cambiare a maggioranza e che dopo il dissenso lo si regola nelle piazze come problema di ordine pubblico!
La battaglia l’abbiamo vinta e questo successo apre un campo di lavoro per il futuro prossimo; la guerra invece è del tutto aperta, perché la democrazia è tuttora sotto assedio e – per continuare nella metafora - dovremo combattere casa per casa.
Il finto passo indietro di Renzi, con il varo di un governo indecente, plasmato a sua immagine e somiglianza e da lui telecomandato farà nel dettaglio quello che gli viene ordinato di fare. E precisamente: rimuovere la sconfitta, spostare in là nel tempo sia le elezioni sia la resa dei conti congressuale nel Pd, affidare al più squalificato dei governi della Repubblica il compito di fare un’altra legge elettorale che scongiuri un vero ritorno al proporzionale e prepari il pieno ritorno al potere di Renzi e della sua combriccola per continuare nell’opera di demolizione del poco che resta ancora in piedi della Costituzione.
C’è però un intralcio rilevante sulla loro strada: il referendum sul Jobs act e sulla disciplina degli appalti che ove le elezioni politiche non si tengano subito dovrà svolgersi in primavera. Renzi e i suoi sanno che una nuova bocciatura nelle urne rappresenterebbe la pietra tombale sull’intero impianto politico delle contro-riforme sociali che hanno caratterizzato l’azione di governo del centrosinistra, da Monti in avanti.
Bisogna tuttavia sapere che l’esito della partita non è scontato, malgrado la gravità di quei provvedimenti, dall’abolizione dell’articolo 18 ai voucher, per citare solo le misure più odiose, insieme all’abolizione delle pensioni di anzianità. Lo abbiamo già visto in altre occasioni, quando si trattò di difendere la scala mobile o quando provammo ad estendere a tutte le aziende, anche in quelle con meno di 16 dipendenti, l’efficacia dello Statuto dei lavoratori. Il fatto è che la tendenza all’astensione (contraddetta solo da quest’ultima consultazione) unita all’indicazione di disertare le urne da parte di qualche forza politica di peso può produrre facilmente, come spesso ha prodotto, l’effetto di non fare raggiungere il quorum. E una sconfitta sui referendum sociali rovescerebbe l’esito della straordinaria vittoria che abbiamo appena finito di festeggiare.
Dunque, come si vede, non bisogna “rimanere sui colpi”. Non appena avremo certezza che le elezioni politiche slitteranno, dovremo attrezzare la campagna, questa volta per il “Sì”, aggregando, come e più che per il referendum contro la “deforma”, tutte le forze disponibili. Potete essere certi che lo scontro non sarà meno feroce.

lunedì 12 dicembre 2016

L’occasione che non dobbiamo perdere




Ad essere sinceri dovremmo ringraziare Renzi. Dovremmo ringraziarlo per la sua bulimia di potere. Per avere tentato di travolgere la democrazia costituzionale attraverso un plebiscito che se vinto avrebbe cancellato il parlamento e consegnato il potere, tutto il potere, nelle mani di una consorteria di lestofanti che in questi anni avevano dato plateale dimostrazione degli interessi a cui sono asserviti. Dovremmo ringraziarlo per avere rimesso in moto la sovranità del popolo che è corso in massa alle urne non per incoronarlo, ma per mandarlo a casa. Infine, cosa della massima importanza, dovremmo ringraziarlo per avere contribuito, sebbene a sua insaputa, e comunque contro ogni sua intenzione, a riaccendere i riflettori sulla Costituzione, non soltanto sui temi, certamente rilevantissimi, della forma di governo, dello Stato, dell’architettura istituzionale, ma anche sui fondamentali principi costituzionali, sulla nervatura sociale, sul progetto di società e di democrazia che vive nella Carta e che da oltre trent’anni è stato messo in sonno, dimenticato, scardinato.
Il voto, come tutti hanno potuto vedere, ha avuto diverse facce, ma fra queste c’è un tratto fondamentale e decisivo: ha messo i ricchi e coloro che sentono di avere le terga al riparo da una parte e i poveri, i precari, i lavoratori, gli sfruttati dall’altra. Questi ultimi hanno capito, per istinto, che la Costituzione sta dalla loro parte e quelli che la vogliono liquidare dall’altra. Si è trattato, per usare le parole giuste, di un voto di classe.
Chi sta pagando drammaticamente la crisi ha pronunciato un solenne “Basta!” al potere che ha somministrato potenti dosi di austerità a chi sta in basso e laute prebende a chi sta in alto e che ha fatto della disuguaglianza il proprio distintivo politico.
Ma l’esito del referendum parla un linguaggio chiarissimo anche al frammentatissimo arcipelago della sinistra non addomesticata dalle sirene renziane, estranea e ostile alla deriva liberista del Pd e purtuttavia (sino ad ora) incapace di trovare un punto di incontro programmatico forte, durevole, tale da prefigurare un blocco sociale e politico alternativo alle due destre in cui si articola la rappresentanza delle classi dominanti, in Italia e in Europa.
Ebbene, il messaggio che deve giungere a tutte le orecchie ricettive è questo: fare proprio, per intero e senza omissioni, il contenuto politico della Carta del’48, farlo divenire il comune denominatore di un progetto trasformativo della società italiana, e intorno ad esso coagulare una coalizione di soggettività politiche diverse, tutte chiaramente visibili nella propria identità e autonomia, eppure tutte solidalmente unite nella realizzazione di quel disegno.
Basta, dunque, con le fallimentari scorciatoie politiciste con cui sino a ieri si è preteso di rifondare la sinistra mettendo intorno ad un tavolo soggetti in cerca d’autore, contenitore senza contenuti. Il paradigma va rovesciato: prima viene il progetto politico, l’attuazione della Costituzione, senza sconti per nessuno.
Per una volta, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto cambia.

lunedì 5 dicembre 2016

La Costituzione è salva! Ora facciamola vivere!






Contro mance dispensate a dritta e a manca, contro ricatti e profezie di sventura, contro palesi mistificazioni, malgrado l’occupazione di dimensioni senza precedenti di tutti i canali di informazione, i cittadini hanno respinto con un voto di proporzioni clamorose, il tentativo di manomettere in profondità la Costituzione e trasformare l’Italia in un principato, di inaugurare un regime, di rendere il potere costituito talmente monolitico e privo di contrappesi da divenire inamovibile.
Renzi ha cavalcato con un’arroganza e una protervia senza pari la convinzione che la maggioranza degli italiani lo avrebbe incoronato con un plebiscito.
Solo tardivamente deve essersi accorto che i conti non tornavano, che l’esca avvelenata non possedeva le virtù seduttive che egli aveva immaginato. E allora ha rilanciato la sfida, in forme sempre più ultimative, chiarendo anche ai più sprovveduti che era sulla sua persona che egli chiedeva di decidere. Ha speculato male, ha sottovalutato il Paese che pensava di dominare come un caudillo ed ora, travolto da quasi 20 milioni di no, è costretto a dimettersi, lasciando dietro di sé un cumulo di macerie, una legislazione sociale che ha contribuito a devastare la vita di milioni di persone, a partire da quel mondo del lavoro dipendente che vive la sua peggiore stagione dal varo della Repubblica.
Ora che i cittadini hanno utilizzato la sovranità popolare per ristabilire le regole del gioco, occorrerà dedicarsi, senza perdere un solo minuto, a perseguire due grandi obiettivi: varare una legge elettorale proporzionale, come la vollero i fondatori della Carta, spazzando via gli orrori del sistema maggioritario, ripristinando l’uguaglianza del voto, e costruire un movimento per la piena attuazione della Costituzione del ’48, del progetto di società che vive in esso, lasciato in sonno per un verso e demolito per un altro attraverso la sistematica elusione e violazione dei principi fondamentali che ne formano l’ossatura.
L’attacco alla Costituzione di quest’ultimo anno ha avuto, a dispetto delle intenzioni di coloro che l’hanno scatenato, un effetto dal quale oggi va tratto tutto il bene possibile. Quello di riaccendere i riflettori sull’atto fondativo della Repubblica, sul suo carattere di democrazia progressiva, irriducibilmente antifascista e antiautoritaria, ostile a qualsiasi revanscismo guerrafondaio, socialmente connotata, con al suo interno un progetto di società che piega l’iniziativa privata al bene sociale, che impone allo stato di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono la realizzazione di un’uguaglianza reale, il pieno sviluppo della persona umana e che si frappongono alla piena partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Brandire la Costituzione e farne il vessillo di uno straordinario progetto di rinascita del Paese, chiamando a raccolta tutte le soggettività disponibili ad ingaggiarsi in questo cimento: ecco l’opportunità e il compito che sono davanti a noi.