lunedì 25 aprile 2022

La devastante "ruzzola" bellicista del Pd



 

Credevamo che di tansumanza in transumanza il Pd avesse completato, come nei peggiori film horror, la propria metamorfosi politica. Credevamo che l’approdo nell’alveo della cultura liberista descrivesse compiutamente il nuovo profilo culturale e politico di quel partito. Credevamo che definire il Pd, con una formula sintetica, come la”sinistra del capitale” spiegasse ormai tutto. Ci sbagliavamo. Perché quando rompi gli argini, quando a trattenerti non c’è più alcun freno inibitorio, neppure di natura morale, allora la tua cultura originaria si dissolve e la tua deriva si trasforma in una precipitosa fuga nell’opposto. E’ così che l’ultima e fondamentale roccaforte, la Costituzione, è stata divelta dai suoi cardini, già tremolanti per incuria e disinnamoramento. Il progetto di società che vive in essa sbiadisce sino a corrompersi e i principi che lo innervano vengono recisi dalle radici. Accade così che persino il ripudio della guerra si trasformi nel suo rovescio e improvvisati esegeti della Resistenza scambino la partecipazione armata al conflitto in Ucraina a fianco del Battaglione Azov come un atto coerente con la lotta di Liberazione di cui in Italia furono protagonisti i partigiani.

Nel nome degli immarcescibili valori dell’Occidente il Pd aderisce come un guanto alla nobile missione della Nato, assurta a nuova frontiera della civiltà, in un mondo in cui buoni e cattivi sono inesorabilmente separati da una netta linea di demarcazione, senza dubbi e chiaroscuri.

Dove tra i cattivi, fra coloro che provano a ragionare e alzare lo sguardo sulle drammatiche contraddizioni del nostro tempo figurano, in ordine sparso, il Papa, monsignor Bettazzi, monsignor Ricchiuti, Raniero La Valle, Tomaso Montanari, Marco Travaglio, Lucio Caracciolo e tanti altri, non certo vittime di nostalgie zariste e tuttavia collocati d’ufficio nella reggia di Putin dal Pd e da tutta la cortigianeria mainstream. Ma un’attenzione particolare il Pd sta dedicando a Gianfranco Pagliarulo e all’Anpi responsabili di non avere scambiato la guerra per un lavacro purificatore. Pagliarulo, come tutta la compagnia pacifista, è un traditore, perché chiede che una seria trattativa, piuttosto che il protrarsi della carneficina, metta fine alla guerra e perché non si accoda ai mercanti di armi che sulla guerra stanno lucrando enormi profitti. C’è con tutta evidenza, in questa compulsiva offensiva scatenata contro l’Anpi, qualcosa di inquietante, che cova da tempo nelle acque stagnanti della politica italiana. Si tratta dell’intenzione di dichiarare estinta la funzione dell’associazione partigiana, considerato che, per ragioni anagrafiche, larghissima parte di coloro che salirono in montagna non sono più e che, dunque, l’Anpi attuale non rappresenterebbe più l’autorità morale di un tempo. In realtà, è tutta l’attività militante dell’Anpi per la difesa e l’attuazione della Costituzione che si vuole mettere in mora. Ed è l’antifascismo stesso che si pretende di archiviare in ragione della fola che il fascismo sarebbe finito il 25 aprile 1945. Dunque, basta con la retorica antifascista e “decomunistizzare” l’Anpi, se proprio non si vuole scioglierla, come pretenderebbe Arturo Parisi, ex ministro della difesa del secondo ministro Prodi. Via l’Anpi, mentre non si riesce (non si vuole) mettere fuori legge le organizzazioni neo-fasciste, provviste di solide protezioni, in barba alla Carta e alle leggi Scelba e Mancino che ne autorizzerebbero l’immediata messa al bando. Così si chiude il cerchio e giunge a compimento la lunga traiettoria di fuoriuscita dalla democrazia costituzionale, sostituita dall’ipocrisia guerrafondaia del neo-atlantismo, esportatore seriale di democrazia.

Bisogna rendersi conto di dove porta questa ruzzola, ammesso che non sia già troppo tardi.

 



martedì 15 marzo 2022

Un'altra guerra, quella definitiva, è alle porte

 

 


 La guerra – parafrasando la definizione che Peppino Impastato dava della mafia – è una montagna di merda, un’infamia, e infami coloro che la fanno.

Le immagini terribili che ci vengono proposte, spesso con sapienza selettiva, quando non apertamente manipolate sono però, nella sostanza, sempre le stesse, come in ogni guerra. Non sempre, tuttavia, ce le hanno mostrate.  In Vietnam, in Jugoslavia, in Iraq, in Afghanistan sono state pudicamente oscurate, malgrado il corredo di torture e bestialità disumane di ogni tipo di cui che lì sono state perpetrate.

 Quello che però sta accadendo – oltre alla guerra combattuta e descritta minutamente, cartine geografiche alla mano, nel suo evolversi militare – è una grande, colossale mistificazione che consiste nella decontestualizzazione della guerra. Si assiste, sì, al dramma avvinti dalle emozioni, suscitate e amplificate da un diluvio di immagini; una condizione che elude le domande di fondo in un presente senza storia.

Perché accade ciò che accade? Qui la nebbia si fa fitta: la Storia è infatti totalmente rimossa, basta la propaganda che con la verità ha poco a che fare. Come recita l’antico adagio: “in guerra, più balle che terra”.

Eppure fare Storia, andare alle radici del conflitto, vuol dire sforzarsi di capire come il disastro avrebbe potuto essere evitato. E magari trovare la strada per uscire dal vicolo cieco in cui ci si sta cacciando. Ma farlo ha un prezzo.

Ne sa qualcosa Barbara Spinelli che in un articolo apparso sul Fatto Quotidiano ha semplicemente spiegato come l’Occidente aveva i mezzi per capire in tempo che le promesse fatte dopo la riunificazione tedesca – nessun allargamento Nato a Est – erano vitali per Mosca.

I documenti desecretati nel 2017 (sito del National Security Archive) rivelano che da Bush padre a Kohl, da Mitterrand alla Thatcher a Manfred Wörner, segretario generale Nato, dichiararono a Gorbaciov (era il 1990) che la Nato non si sarebbe estesa a Est “nemmeno di un pollice”(assicurò il Segretario di Stato Baker).

Ma le cose andarono diversamente perché Clinton e Obama avviarono gli allargamenti. In pochi anni, tra il 2004 e il 2020, la Nato passò da 16 a 30 Paesi membri, schierando armamenti offensivi in Polonia, Romania e nei Paesi Baltici ai confini con la Russia.

Per questo Spinelli ha scritto: “Non stupiamoci troppo se Putin, mescolando aggressività, risentimento e calcolo dei rischi, parla di “impero della menzogna”. O se ricorda che le amministrazioni Usa non hanno mai accettato missili di Paesi potenzialmente avversi nel proprio vicinato (Cuba).”

Dopo la guerra fredda, senza più l’Urss e il patto di Varsavia, non si è cercato di creare un altro ordine mondiale.

Sempre Spinelli fa notare: “La Storia era finita, il mondo era diventato capitalista, l’ordine era unipolare e gli Usa l’egemone unico. La hybris occidentale, la sua smoderatezza, è qui”.

Ancora: nel 2014, l’Occidente sostenne e finanziò con una montagna di dollari il putsch anti-russo e pro-Usa a Kiev, senza minimamente preoccuparsi della presenza di neonazisti nella rivoluzione arancione del 2014 (l’Ucraina è l’unico Paese europeo a includere una formazione neonazista nel proprio esercito regolare).

 Il collaborazionismo

Un passo indietro ancora.

Nella seconda guerra mondiale i nazisti reclutarono ovunque adepti e sostenitori della loro guerra di aggressione. Il collaborazionismo risparmiò pochi territori. in Francia (la repubblica di Vichy), in Norvegia (Quisling), in Croazia (Ustascia), In Ungheria, Slovacchia, Bulgaria, Ucraina: la polizia e l’esercito svolsero nella seconda guerra mondiale un ruolo fondamentale nella realizzazione della politica tedesca di deportazione verso i campi di sterminio per la realizzazione della “Soluzione finale”.

Antisemitismo, nazionalismo, odio razziale ed etnico, anticomunismo, opportunismo furono gli ingredienti stabili del collaborazionismo.

Come nell’Ucraina di Stepan Bandera, nazionalista e fondatore dell’Esercito insurrezionale ucraino, aderente all’ideologia fascista, criminale di guerra e terrorista, creatore dello stato ucraino indipendente, sostenitore dei piani espansionistici nazisti, giurò fedeltà ad Adolf Hitler.

Al termine della guerra fredda Stepan Bandera venne insignito dell’onorificenza di Eroe dell’Ucraina;

Dopo il colpo di stato che cacciò Viktor Janukovyč ed il suo governo, il governo di Kiev decise di  avvalersi sempre più dell'utilizzo di gruppi paramilitari composti da combattenti provenienti da gruppi nazionalisti dell'estrema destra come l'Assemblea Social-Nazionale (A.S.N.) e i Patrioti d'Ucraina, che formarono i cosiddetti "Battaglioni di volontari civili". Nell'aprile del 2014, questi "battaglioni" vennero regolarmente autorizzati dal Ministro dell'Interno Arsen Avakov e  affiancati all'esercito regolare. Fra questi il famigerato “Battaglione Azov”, che insieme all'altrettanto celebre battaglione "Donbass" e al DUK (Corpo Volontari Ucraini) è stato uno dei reparti militari di Kiev più intensamente impegnati nel conflitto. Dal gennaio del 2015 il battaglione ricevette una compagnia carri (con T-64 e T-72) e, in aprile, dei pezzi d'artiglieria. I componenti sono ora militari ucraini regolari e dal maggio 2015 ricevono una paga mensile di 10.000 Gryvnie (400 Euro).

Il “Battaglione Azov” non è solo una formazione militare. Esso è legato al Corpo nazionale, un progetto politico creato dai membri del battaglione che partecipa anche alle elezioni, ha propri rappresentanti nel governo, ha rapporti internazionali con altri movimenti di destra europei e con gruppi suprematisti bianchi.

Quando oggi si parla di guerra sembra che questa sia iniziata poco più di due settimane fa, ma sono ben otto anni che guerra e terrorismo sono stati scatenati contro le repubbliche autodenominatesi del Donbass: una guerra già costata 13 mila morti, mentre è stato posto fuori legge il PC ucraino.

Questi alcuni scampoli di storia, passato remoto e passato prossimo.

 La Russia oggi

Considerata la voluta confusione che ha oggi libero corso, converrà chiarire che la Russia è una

formazione economico-sociale capitalista, con un reggimento politico autocratico, autoritario, fortemente repressivo di ogni forma di dissenso, con tratti mafiosi.

La guerra fra Russia e Ucraina non è dunque una guerra fra sistemi economico-sociali ideologicamente contrapposti: le classi sociali che tramite il proprio personale politico li governano appartengono, nell’uno e nell’altro caso, ai detentori del capitale; cambiano le forme della politica, non le caratteristiche economiche e sociali e la natura del potere. Sullo sfondo più grande, la contesa è il conflitto fra l’imperialismo Usa e atlantico e il sub-imperialismo russo.

 Francis Fukuiama

 E’ appena il caso di ricordare che Francis Fukuyama, nel suo saggio politico La fine della storia e l'ultimo uomo, pubblicato nel 1992,  sosteneva che la diffusione delle democrazie liberali, del capitalismo e lo stile di vita occidentale in tutto il mondo avrebbe sancito la conclusione dello sviluppo socioculturale dell'umanità per divenire la forma definitiva di governo nel mondo, la fine delle guerre. In altri termini, la fine della storia, nel senso che il mondo aveva finalmente raggiunto la sua maturità.

Dimenticava, Fukuyama , che entrambi i due conflitti mondiali non sono stati altro che conflitti intercapitalistici. E di guerre, sia pure con caratteristiche regionali, ve ne sono state molte. Altro che mondo pacificato. Sino al conflitto attuale, carico di spaventose incognite.

 Se la società umana ha compiuto l’ultima tappa del suo cammino, perché esiste e addirittura si allarga la Nato?

Le installazioni militari all’estero – almeno ottocento, forse molte più – sono l’impronta della postura imperiale. La scelta di impiantarsi nel mondo deriva dalla necessità di controllare il mondo, in primo luogo attraverso imponenti presidi militari.

In geopolitica, non esiste niente di più americano delle basi militari degli Stati Uniti all’estero;

Si legge nella rivista Limes: “Le basi militari compongono una rete immensa e innumerata, ai quattro angoli del pianeta, dal Giappone all’Honduras, dalle sabbie arabiche ai ghiacci groenlandesi, dai verdi colli di Baviera e Palatinato al ceruleo atollo di Wake. Sono indeterminate come indeterminato è il limite geografico del primato a stelle e strisce – coincidente con il mondo stesso, in attesa del cosmo. Ripropongono il mito della frontiera, catapultata in Eurasia dopo aver soggiogato Nordamerica e Oceano Pacifico” .

E in Italia? Nel 2013 (non ho trovato dati più aggiornati) erano presenti sul territorio italiano 59 basi ed installazioni militari con personale statunitense (comprese quelle NATO), con circa 13.000 militari. Almeno 2 basi Nato stoccano bombe atomiche (40 fra Ghedi e Aviano) pronte per l’uso, da montare su aerei anch’essi di nuova generazione (gli F35, che stanno per sostituire i Tornado usati per bombardare Jugoslavia e Iraq).

La fola dell’alleanza difensiva

La Nato, sotto la giurisdizione Usa, ha condotto guerre d’attacco a paesi sovrani, dalla Jugoslavia all’Afghanistan). Quando qualche paese dell’Alleanza si è sottratto all’ingaggio, gli Usa hanno fatto la guerra in proprio, come in Iraq, creando le cosiddette “coalizioni dei volenterosi” alle quali l’Italia non si è mai sottratta.

La fine della guerra fredda

Il mutuo impegno alla sicurezza reciproca e l’assicurazione che non vi sarebbe stata nessuna espansione della Nato ad est si è tradotto nel suo contrario. La guerra è continuata a “bassa intensità”, ma è continuata: la Nato recluta altri 15 paesi ad est.

“Fermare la guerra con la guerra”

Ovvero, la falsa coscienza di tutti i guerrafondai, i pacifisti con il pelo del lupo sotto il manto dell’agnello.

Coloro che vogliono inviare armi all’Ucraina nel nome del diritto alla resistenza hanno già messo a preventivo l’allargamento della guerra.

Coloro che vogliono aprire vaso di Pandora sono come gli apprendisti stregoni che evocano forze che non sono in grado di controllare.

In casa nostra, da Mario Draghi a Enrico Letta, da Flores d’Arcais a Furio Colombo.

Tutti sottaciono che l’allargamento del conflitto alla Nato porterebbe dritto alla terza guerra mondiale, una guerra senza esclusione di colpi, fra potenze che dispongono dell’arma nucleare.

Quando Zelensky chiede l’intervento della Nato e la creazione di una no-fly zone sui cieli croati mette in conto anche questo.

 La russofobia come preparazione alla guerra totale: il male assoluto

Quando all’università Bicocca si blocca una lezione su Dostoiewskij, quando alla Scala si annulla un concerto con musiche di Čajkovskij, quando ad una soprano russa viene impedito di esibirsi in un teatro marchigiano, quando alla fiera dell’editoria per l’infanzia di Bologna si esclude il padiglione russo, quando, agli atleti russi viene impedito di gareggiare nelle paralimpiadi, quando si trasformano tennisti russi in apolidi perché accanto al loro nome viene tolta la bandiera della loro nazione, quando, inoltrandosi a piè pari nel ridicolo, si escludono dalle mostre feline i gatti di origine russa, si compie in realtà un’operazione criminale: si crea una disposizione d’animo, una propensione a considerare che il mondo si divide in due parti: i buoni e i cattivi. Da una parte il Bene, dall’altra il Male assoluto. Che come tale deve essere distrutto. Questo nel tentativo sciagurato di inoculare nella testa delle persone l’idea che l’unica soluzione è la guerra totale. Il tambureggiamento è in costante crescendo. Gli Stranamore di entrambe le parti lavorano incessantemente.

A lato, due osservazioni

 La questione dell’autodeterminazione dei popoli

Vale a dire, il principio in base al quale i popoli hanno diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna) e di essere liberi da ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale (autodeterminazione esterna).

Come quasi tutto, nella politica di potenza, la geometria è variabile. Tutto dipende: se chi vuole autodeterminarsi è un amico, oppure un avversario. Per cui sacrosanta era, per l’Occidente, la liquidazione della Jugoslavia titoista: soffiare sui nazionalismi sloveni e Croati, sino ad alimentare la guerra fratricida serviva alla bisogna. L’autonomia del Donbas invece no, e dunque era necessario armare la mano di Kiev e istruire/foraggiare le formazioni neo-naziste che insieme all’esercito ucraino hanno per 8 anni fatto la guerra a quelle regioni. Neppure ai Curdi - circa 30 milioni, fra Turchia, Iran, Iraq, Siria e Russia, più coloro che vivono nella diaspora (solo in Germania la colonia curda ammonta a 400mila persone) – viene riconosciuto il diritto all’autodeterminazione. I curdi (che da soli hanno combattuto l’Isis, che conservano da sempre un tradizionale atteggiamento di tolleranza e che rappresentano un modello di democrazia partecipata unico nel medio-oriente) vivono in una condizione di violenta oppressione, in particolare da parte della Turchia, che sta applicando contro di loro una politica programmata di distruzione. Ma per l’Occidente il problema non esiste. Lo stesso vale, sull’altro fronte, per la Cecenia, la cui rivendicazione di indipendenza è sta pagata con  la distruzione quasi completa di Groznyj dopo aspri combattimenti per  riportare la Cecenia sotto il controllo della federazione Russa.  Per non parlare della Palestina, dove - malgrado la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 23 dicembre 2016, adottata con 14 voti a favore su 15, preveda che Israele debba porre fine alla sua politica di insediamenti nei territori palestinesi dal 1967, inclusa Gerusalemme Est - non accade assolutamente nulla. L’occupazione continua, senza che Israele sia colpito da sanzioni, impedite dal veto Usa e vassalli al seguito.

Lo pseudo-giornalismo “embedded”

Oggi stiamo assistendo ad un crescendo rossiniano di propaganda bellica che manipola/deforma la verità.

Siamo arrivati al punto - davvero inedito per le proporzioni della menzogna propinata – che il servizio pubblico della Rai ha inanellato una quantità industriale di fake news. Come il Tg2, che è arrivato a mettere in onda un filmato che avrebbe dovuto documentare i bombardamenti russi sulle città ucraine, ma si trattava di un video-gioco; oppure come il Tg1, che è riuscito a mostrare la scalinata di Odessa (quella nella quale si consumò la strage zarista immortalata dal film di Sergej Ėjzenštejn nel film La corazzata Potemkin) spacciandola per una manifestazione repressa dai Bolscevichi nel 1905. Poi Ma, più in generale, è scomparso il giornalismo, vale a dire il racconto, senza inferenze e partigianerie, di ciò che accade.

L’invito sempre più pressante di tutto l’establishment europeo ad indossare l’elmetto coinvolge pressoché tutta la stampa, arruolata nella guerra della disinformazione. Chi si sottrae a questo imperativo viene tacciato di “tradimento in faccia al nemico” e trattato come tale.

Mario Sechi, direttore responsabile dell'Agenzia Giornalistica Italia, non certo di simpatie verso la sinistra, ha svolto, per l’emittente televisiva Rai-news 24, un’autentica lezione di giornalismo, cominciando dal denunciare la pessima inclinazione di tanti sedicenti giornalisti a non verificare le notizie che vengono passate come verità. Sechi ha spiegato che la disposizione da lui tassativamente imposta ai propri giornalisti è quella di pubblicare solo ed unicamente le notizie di cui si abbia certa e documentata sicurezza: “Ove permane un dubbio – continua Sechi – non si pubblica”. Il direttore dell’Agi ha fatto un esempio molto preciso. Ad un certo punto è stata diffusa la notizia che le truppe Russe avevano bombardato per ore la centrale nucleare di Chernobyl. Zelenskij aveva aggiunto “per ore”. Nelle 24 ore successive tutti i media occidentali hanno parlato di rischio di ecatombe nucleare provocata dai Russi. Ma un’indagine più seria, condotta da Sechi medesimo, evidenziava che nel perimetro della base era avvenuto solo uno scambio a fuoco con armi leggere senza alcuna conseguenza. A rassicurare il mondo ci ha poi pensato l'Agenzia per la sicurezza nucleare.

Sechi continuava criticando severamente la decisione del governo italiano di ritirare tutti i giornalisti presenti in Russia: “Chi racconterà cosa lì sta succedendo? Lo si farà attraverso le veline o con pseudo-informazioni di terza mano? (…) il vero giornalismo si fa stando sul campo, non fuggendo via (…) Poi ci sarà sempre spazio per un’informazione adulterata, ma dal Vietnam in avanti giornalisti che hanno fatto con scrupolo il proprio mestiere ci hanno consentito di conoscere le verità che le parti in causa avevano interesse a nascondere”.

Tutto il contrario di quanto, ad esempio, successe nelle guerra in Iraq nel 2003 quando Monica Maggioni, oggi direttrice della Rai, fu l’unica giornalista italiana “embedded” in Iraq, cioè aggregata all’esercito statunitense durante la seconda Guerra del Golfo. Per tre mesi Maggioni ha vissuto con i militari americani durante l’avanzata di terra dal Kuwait verso la capitale irachena. Da lì faceva le sue corrispondenze: un luminoso esempio di giornalismo-propaganda.

Se è stato possibile conoscere le violazioni dei diritti umani commesse contro detenuti nella prigione di Abu Ghraib in Iraq da parte di personale dell'Esercito degli Stati Uniti e della Central Intelligence Agency durante gli eventi della guerra in Iraq del marzo 2003, ciò è stato possibile grazie all’investigazione promossa da fonti indipendenti. Le “violazioni” scoperte  inclusero abusi fisici e sessuali, torture, stupri, sodomizzazioni e omicidi. Gli abusi giunsero all'attenzione generale con la pubblicazione di fotografie delle violenze su CBS News nell'aprile del 2004. Gli episodi ricevettero una condanna generale sia negli USA che all'estero, benché i soldati ricevessero sostegno da alcuni media conservatori negli USA. L'amministrazione George W. Bush cercò di dipingere gli abusi come incidenti isolati, non indicativi di una politica generale degli USA. Ciò venne però contraddetto da organizzazioni umanitarie come Croce Rossa, Amnesty International e Human Rights Watch. Dopo diverse investigazioni, queste organizzazioni stabilirono che gli abusi di Abu Ghraib non furono affatto incidenti isolati ma parte di un vasto piano di torture e trattamenti brutalizzanti presso centri di detenzione americani all'estero, compresi quelli in Iraq, Afghanistan e Guantanamo. E furono trovate prove che l'autorizzazione alle torture veniva da molto in alto nelle gerarchie militari e addirittura alcune deposizioni sostennero che alcune erano state autorizzate dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld.

O come a My Lai, nel Vietnam del Sud, il 16 marzo 1968. Per la Compagnia Charlie dell'esercito USA avrebbe dovuto essere una normale operazione militare, ma quattro ore dopo diventò una carneficina di civili inermi. Lungo le strade del piccolo villaggio, centinaia di corpi di uomini, donne e bambini giacevano senza vita. Furono trucidati dagli uomini del capitano Ernest Medina. Incredibilmente, nonostante i rapporti di alcuni testimoni oculari, la strage venne occultata dai vertici dell'esercito. Ci volle più di un anno prima che un reduce riuscisse a far ascoltare la propria voce e, con l'aiuto dell'autore, a denunciare un crimine di guerra che porterà davanti alla Corte Marziale il capitano e alcuni degli uomini che parteciparono alla carneficina.

Ora, le immagini reiterate dei bombardamenti in Ucraina suscitano, giustamente, il nostro orrore, come quelle dei civili e dei bambini morti. Quanti sono? Si intenda bene: anche uno solo è di troppo. Ma vorremmo ugualmente avere contezza dei dati reali del disastro. E le parole che si usano devono avere un senso preciso.

Quando si parla disinvoltamente di genocidio, o di bombardamenti “a tappeto”, bisogna ricordare Guernica, Dresda, dove le città sono state rase al suolo e la popolazione sterminata. Altrimenti, ancora una volta, si perde il senso delle proporzioni. E della realtà.



lunedì 7 marzo 2022

La russofobia, il male assoluto e la guerra "totale


 


Dopo gli interventi che mi hanno preceduto vorrei affrontare il tema, apparentemente minore, degli effetti, collaterali della guerra. O, per meglio dire, della guerra condotta con altri mezzi non meno letali.

Diamo un’occhiata a quello che sta accadendo.

 

La rettora dell’università Bicocca sospende il corso di Paolo Nori su Fëdor Dostoevskij, patrimonio della letteratura universale, in quanto russo, per poi riammetterlo a condizione che si parli anche di autori ucraini; a Londra, alla London Book Fair 2022, non ci sarà un padiglione russo; lo stesso alla Buchmesse, la fiera di Francoforte. Così tutte le grandi fiere annunciano il bando degli autori russi.

 

Lo stesso accade al festival dell’editoria per bambini di Bologna, la manifestazione più importante nel mondo per la letteratura dell’infanzia, da cui è stato escluso il padiglione di Mosca.

 

“Boicottaggio totale dei libri russi nel mondo!” si intitola un appello lanciato dallo Ukrainian Book Institute, dal Lviv International Book Forum, in cui si legge fra l’altro che la propaganda russa “è intessuta in molti libri e anzi li trasforma in armi e pretesti per la guerra”.

 

In un colpo solo, si spazza via la convinzione che “un libro non deve conoscere confini, che non è un’arma di distruzione, ma uno strumento per la conoscenza”.

 

Dice Leonardo Fredduzzi, vicedirettore dell’Istituto di lingua e letteratura russa, che ha sede a Roma: “Ci sono arrivati messaggi d’odio, ci hanno scritto che la lingua russa è morta, che tutta la cultura russa esprime sopraffazione, anche i grandi classici”.

Così, il maestro Valery Gergiev viene licenziato dalla Filarmonica di Monaco e anche La Scala sospende la rappresentazione della 'La dama di picche' di Pëtr Il'ič Čajkovskij.

Un effetto domino inarrestabile colpisce anche la  soprano russa Anna Netrebko, che non calcherà il palco del Piermarini di Matelica, nelle Marche;

La stessa cosa accade nello sport, un altro luogo dell’universalismo e della fratellanza fra i popoli

C’è la vergognosa esclusione degli atleti russi e bielorussi dalle Paralimpiadi, dopo la pusillanime retromarcia di Andrew Parsons, Presidente del Comitato Paralimpico Internazionale che prima aveva detto: “Gli atleti che sono nati in quella nazione, non sono gli aggressori. Penso che dobbiamo trattarli con lo stesso rispetto degli atleti di qualsiasi altra nazione che si sono guadagnati la qualificazione”.

Sono colpiti tennisti russi, improvvisamente fatti diventare apolidi, perché la bandiera russa non deve comparire accanto al loro nome;

Qualche atleta decide di non scendere in campo, sul ring o in pista, con un atleta russo o russa solo perché russo o russa – magari anche anti-putiniani o anti-putiniana.

Una strategia quasi bellica, perché in guerra, appunto, tutto diventa lecito.

Ascoltate la riflessione di un noto giornalista sportivo, Mario Sconcerti, che dice “Mi piacerebbe essere contro l’invasione dell’Ucraina pensando sempre e soltanto con i miei consueti canoni di giudizio, senza portare la mente all’ammasso. Se ho un amico russo, che faccio? Non devo vederlo più? E perché, perché è russo? Questa è discriminazione, non lotta democratica. Cerchiamo di distinguere tra le persone e le cose, anche adesso che il mondo ci sta sfuggendo di mano”.

La Russofobia viene metodicamente coltivata

Si ribella persino un giornalista de Il Mattino e de Il Messaggero come Marco Ciriello che afferma: “Ho sempre detestato Putin, fin dall’inizio, l’invasione russa mi ripugna, eppure sono stanco di doverlo specificare per avere il diritto di sviluppare un ragionamento. Ragionamento che riguarda persino la specificità dello sport, “in questo clima maccartista”, in cui “appena provi ad articolare un pensiero sulla Russia diventi filo-putiniano”: bisogna aderire, stare con l’Ucraina, scrivere le poesie sull’Ucraina, mettere cuori e bandiere. Io sono sciasciano, come sono tolstojano e salgariano e molte altre cose, e mi viene difficile aderire pure ai club, come all’imperialismo – sia della Nato che della Russia».

Ciriello prosegue sui provvedimenti presi dalle Federazioni sportive, tesi a cancellare l’altro, a farlo scomparire in una sorta di ostracismo misto a damnatio memoriae. E pone anche il tema del ruolo dello sport che - dice - “dovrebbe rimanere uno spazio “altro” dove si continua a provare il dialogo, dove il verbo è giocare, anche in luogo del più acceso lottare. Dove gli atleti sono come gli ambasciatori e le squadre e le federazioni sportive sono ambasciate. E che il paese che è andato a giocare e vincere una Davis in Cile non trovi voci a levarsi in difesa del mondo dello sport russo, è vigliacco prima che stupido”.

Invece, mentre le bombe cadono, i patiboli si moltiplicano. E non sappiamo se nella carneficina qualcuno si salverà. Perché quando tu costruisci un paradigma infame per cui tu sei il bene e l’altro il male assoluto vuol dire che ti stai già preparando psicologicamente ad assumere un abito mentale propenso a giustificare la guerra totale, la guerra di annientamento. E vale la pena di ricordarlo qui, davanti ad una base militare che ospita ordigni nucleari pronti all’uso sui quali noi, il popolo italiano, non abbiamo alcuna giurisdizione, perché altri hanno il dito sul grilletto.

Bisogna sapere o meglio, riscoprire, che quando si scoperchia il vaso di pandora diventa impossibile ricacciarvi dentro i mostri che ne sono usciti. E allora, finché c’è tempo, bisogna fare l’esatto contrario: riaprire le menti e riguadagnare la fondamentale verità che questa guerra, sporca come ogni altra, non può essere vinta da nessuno, ma la si può solo perdere.

“L’Italia ripudia la guerra” sta scritto nella Costituzione antibellicista sorta sulle macerie della fino ad ora più grande guerra di sterminio che l’umanità abbia conosciuto. Ma nel momento in cui si decide di inviare armi a un paese belligerante è ovvio che si entra a far parte dei paesi in guerra. Allora è tempo di insorgere contro tutto il ciarpame ipocrita e sostanzialmente guerrafondaio nel quale siamo immersi.

Voglio concludere con le parole con le quali Tonio Dall’Olio, direttore della rivista Mosaico di pace risponde a quanti oggi trepidano perché ci si metta l’elmetto in testa per andare alla guerra:

“Sì, diserto. Dalla scelta governativa di dire che la guerra è sbagliata e, per questo si combatte la guerra con la guerra. Diserto dall’accoglienza selettiva di persone che scappano dalla fame della guerra e dalla guerra della fame quasi a indicare che il luogo di provenienza faccia la differenza. Sì, da questo razzismo non dichiarato ma praticato – eccome! – diserto. Diserto dall’annegamento nelle informazioni di un solo conflitto mentre si condannano al silenzio le guerre dei poveri. Diserto la dislessia che pare affliggere alcuni cristiani di fronte alle pagine del Vangelo che parlano di amore dei nemici, di spade da rimettere nel fodero e di “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. Diserto la retorica di certe manifestazioni che scelgono di non disturbare il manovratore, di dire e non dire, di applaudire il Papa scegliendo di fare esattamente il contrario e di essere buoni per tutte le stagioni. Diserto dall’arruolamento obbligatorio nel partito del realismo presunto che condanna ogni azzardo fuori dal perimetro del perbenismo. Diserto la logica dell’applauso prima di tutto, del consenso a tutti i costi, del comandamento di non compromettere la carriera. Diserto, e per questo so di essere condannato con i senzapotere all’infamia delle pecore nere o delle mosche bianche mentre sono gli altri a rinnegare i colori dell’arcobaleno”.


venerdì 4 marzo 2022

Di bandiere e dintorni

 



Ormai da tempo accade che movimenti di scopo, nati soprattutto, ma non solo, intorno a problematiche ambientali, vivano la presenza nelle manifestazioni dei simboli di organizzazioni, partiti, associazioni come una sorta di espropriazione, di indebita appropriazione di contenuti, finalità che – dicono - “non hanno e non debbono avere colore”. Finché la generosa presenza di militanti dei partiti resta anonima essa è la benvenuta, quando però questa si qualifica e appare visibile attraverso l’esposizione delle bandiere diventa, istantaneamente, un’occupazione di campo o meglio, per usare l’espressione più ricorrente, lo strumentale tentativo di “mettere il cappello” sulle lotte per lucrare indebiti consensi.

 

Allora è forse giunto il momento di andare a fondo della questione, perché è bene si comprenda che quando viene perentoriamente chiesto ad un compagno/a o ad un amico/a di abbassare le proprie bandiere o di non portarle affatto si compie un atto di prevaricazione, di limitazione della libertà personale, di arbitraria sospensione della democrazia.

La cosa avrebbe una precisa giustificazione se i soggetti collettivi in questione pretendessero di stravolgere/edulcorare/trasformare a propria misura gli obiettivi dei movimenti. Ma se questo non è, se –anzi – l’impegno è rivolto a dare forza e carattere unitario alla mobilitazione, non si vede perché la visibilità del suo carattere plurale dovrebbe disturbare o, peggio, nuocere alla causa comune.

A meno che non vi sia qualcosa d’altro, di inespresso e di più profondo e, precisamente, un riflesso della vulgata che vede nei partiti, in quanto tali, qualcosa di estraneo o, addirittura, di avverso all’autentica espressione della democrazia che può venire solo dal sociale. C’è molto di vero nella critica alla degenerazione partitocratica, ma è pericolosissimo fare di ogni erba un fascio, perché di questa narrazione si nutrono le più mefitiche pulsioni populiste e l’invocazione sempre più forte di radicali cambiamenti istituzionali di stampo presidenzialistico.

L’articolo 49 della Costituzione afferma che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Essi sono dunque concepiti come un architrave della democrazia. Poi, come la storia si è incaricata di dimostrare, essi si possono corrompere, possono diventare camarille di affaristi e occupare il potere per promuovere interessi particolari contro quelli sociali e comprimere i fondamentali diritti di cittadinanza. Ma questa è un’altra storia. Dunque, essenziale è distinguere e non diventare portatori, magari inconsapevoli, di ideologie regressive o apertamente reazionarie.

Infine, ma non da ultimo, c’è un altro aspetto, non meno inquietante. Non si può non osservare che delle manifestazioni di allergia per le bandiere ve n’è una che prevale su tutte e viene in luce quando compare una bandiera rossa, peggio se al suo centro c’è una falce e martello.

Allora vale la pena di riflettere su quanto pervasiva sia stata la campagna anticomunista che da Berlusconi in avanti ha non soltanto scatenato una furibonda campagna di destra, ma cambiato, subliminalmente, sottosoglia, anche il senso comune di tante persone, diciamo così, per bene, che pensano che nel comunismo, in quell’idea, covi l’uovo del serpente.

Altri/e, più sottilmente, pensano che i comunisti non siano che il retaggio passatista di una mistica ideologica: nella migliore delle ipotesi buoni e generosi, ma sempre da prendere con le pinze e da tenere a debita distanza.

La “damnatio memoriae” ha fatto incomparabili danni, disseminando scorie tossiche che emanano dai pulpiti più impensabili. In queste terribili giornate segnate dalla guerra contro l’Ucraina scatenata da Putin, oligarga e autocrate di una Russia capitalistica a trazione autoritaria e dai tratti feudali, i titoli giornalistici peggiori sono stati quelli de il manifesto che porta ancora scritto vicino alla testata “giornale comunista”. Il primo recitava, testualmente “Kiev non è sola”, con evidente, mistificatoria allusione a quel ben diverso “Praga è sola” che i fondatori del giornale avevano utilizzato per condannare l’intervento sovietico che nel 1968 stroncò la primavera politica di quel paese, dove i comunisti Dubček, Smrkovský e Svoboda stavano costruendo un altro modello di socialismo, sottraendosi alla tutela del modello unico imposto da Mosca. Il giorno appresso, il manifesto titolava “Palazzo d’Inferno”, come se l’assedio di Kiev avesse qualche vaga parentela con la presa del palazzo del potere da parte dei bolscevichi, nel 1917, a Pietrogrado. In un solo rogo vengono così bruciati Putin (che col comunismo non ha nulla a che vedere), l’Urss e l’Ottobre rosso. Uno dei sottoprodotti propagandistici somministrati dai media in questa stagione sovraccarica di falsificazioni storiche, prima ancora che politiche, è quello che fra la Russia capitalistica e quella sovietica, vede una perfetta continuità.

Il fatto è che dopo la famigerata risoluzione con cui il parlamento europeo ha assimilato nazismo e comunismo, tutto sembra possibile.

Dovrebbe essere interesse di tutte le forze politiche e sociali autenticamente democratiche sottrarsi alla sistematica contraffazione della storia che, come sempre, prepara pessimi scenari per il presente.

giovedì 17 febbraio 2022

Ribellarsi è giusto e necessario (la lotta dei lavoratori della Gkn)

Tutto ha inizio quando Il Tribunale del Lavoro di Firenze revoca i licenziamenti collettivi intimati dalla Gkn di Campi Bisenzio a tutti i propri 422 dipendenti, semplicemente attraverso una e-mail: una riedizione dell’ottocentesco licenziamento ad nutum (letteralmente: “al cenno”).
Roba ordinaria, in questi tempi di revanscismo padronale.
Ma questa volta la novità c’è, ed ha una forte valenza simbolica, perché viene riesumato e applicato dai giudici quell’articolo 28 della legge 300/70, lo “Statuto dei diritti dei lavoratori”, divenuto un fondamentale caposaldo del giuslavorismo moderno, esito di una straordinaria stagione di lotte operaie, ma da tempo manipolato e accantonato come espressione di un’era conflittuale tramontata e da archiviare.
Sta di fatto che il comportamento della multinazionale controllata dal fondo britannico Melrose (che produce componentistica per auto) viene condannato come antisindacale. Il giudice ritiene che esso “si configura come un’evidente violazione dei diritti del sindacato, messo davanti al fatto compiuto e privato della facoltà di intervenire sull’iter di formazione della decisione” dei vertici della multinazionale di lasciare a casa i dipendenti. In altri termini, comunicando i licenziamenti collettivi attraverso una e-mail, la Gkn è venuta meno al “democratico e costruttivo confronto che dovrebbe caratterizzare le posizioni delle parti”.
I lavoratori della Gkn non sono disposti a soccombere. E lo dicono subito. La battaglia, sebbene impari, perché diseguali sono le forze in campo, ha inizio. E porterà lontano.

Un tuffo nel passato

All’inizio degli anni ottanta, nel corso di un convegno sindacale al quale era stato invitato, il giudice Giovanni Palombarini, fra i fondatori di Magistratura Democratica, volle insistere sul fatto che forse noi non avevamo sino in fondo la percezione di cosa avesse significato, dalla fine degli anni sessanta in avanti, l’irruzione sulla scena sociale e politica di un giovane e combattivo movimento operaio; un movimento che aveva scosso, sin nelle fondamenta, non soltanto rapporti sociali solidamente dominati dall’autoritarismo padronale, ma anche le convinzioni, la forma mentis, di una nuova generazione di magistrati che aveva cominciato a rileggere la Costituzione con le lenti dello Statuto dei lavoratori. Fu così che i lavoratori e il sindacato cominciarono a vincere anche in quelle aule dei tribunali che prima li vedevano sistematicamente soccombenti. La partecipazione di massa e la fantasia operaia superarono, in quello che fu poi denominato il secondo biennio rosso, la stessa forma di rappresentanza formalizzata nello Statuto dei lavoratori per inventare, con i Consigli di fabbrica, un inedito modello di democrazia diretta che avrebbe trasformato per lungo tempo, attraverso l’elezione dei delegati di reparto e di gruppo omogeneo, la stessa natura, il modo di funzionamento e le prerogative contrattuali del sindacato.
Si aprì una fase di soggettivazione operaia che redistribuì le carte a tutta la politica, influenzando in modo potente e per quasi un decennio la cultura, il lavoro intellettuale e la stessa produzione legislativa del parlamento.
Da quel tempo paiono trascorsi vari anni-luce.

Passato e presente: L’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci 

Tutte le volte che la classe operaia entra in campo direttamente, il pensiero va alla grande stagione del ‘19 e ‘20, all’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci, all’epopea consiliare quando, per la prima volta nella storia d’Italia e quale che fosse stata l’origine occasionale dello scontro, si pose niente meno che la questione del potere, non in una fabbrica sola, ma nel paese: la classe operaia poneva se stessa, consapevolmente, come soggetto immediato di politica, come “classe generale”, capace di riscattare se stessa e, contemporaneamente, di liberare tutta la società dal dominio del capitale, capace di pensare e costruire un nuovo di tipo di Stato, un nuovo mondo.
“L’Ordine nuovo – scrisse Gramsci traendo un bilancio di quella straordinaria stagione – divenne per noi e per quanti ci seguivano ‘il giornale dei consigli di fabbrica’. Gli operai amarono L’Ordine nuovo. E perché gli operai amarono l’Ordine nuovo? Perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli de L’Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore; “Come possiamo diventare liberi? Come possiamo diventare noi stessi?” Perché gli articoli de L’Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettualistiche, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali della classe operaia torinese, che erano state da noi saggiate e provocate; perché gli articoli de l’Ordine nuovo erano quasi un “prendere atto” di avvenimenti reali, visti come un processo di intima liberazione ed espressione di se stessa da parte della classe operaia. Ecco perché gli operai amarono L’Ordine nuovo ed ecco come si formò l’idea de L’Ordine nuovo”.
La distanza fra questa concezione del rapporto fra classe operaia e intellettuali non poteva essere più lontana dalla natura del partito socialista, incapace di porsi come elemento unificatore, come momento di sintesi politica e come forza capace di generalizzare quell’esperienza. Per questo né il partito socialista, né i sindacati, seppero, tantomeno vollero guidare quella lotta straordinaria verso un esito rivoluzionario.
Con questo affresco sintetico Gramsci descriveva la drammatica situazione che la classe operaia aveva di fronte:
“In verità, il partito socialista italiano, per le sue tradizioni, per l’origine storica delle varie correnti che lo costituirono, per il patto di alleanza con la Confederazione del lavoro, non differisce per nulla dal labour party inglese ed è rivoluzionario solo per le affermazioni generali del suo programma. Esso è un conglomerato di partiti. Si muove, e non può non muoversi, pigramente e tardamente; è esposto continuamente a divenire il facile paese di conquista di avventurieri, di carrieristi, di ambiziosi. Per la sua eterogeneità, per gli attriti innumerevoli dei suoi ingranaggi, non è mai in grado di assumersi il peso e la responsabilità delle iniziative e delle azioni rivoluzionarie che gli avvenimenti incalzanti incessantemente gli impongono. Ciò spiega il paradosso storico per cui in Italia sono le masse che spingono ed educano il partito della classe operaia e non è il partito che guida ed educa le masse. (…) In verità questo partito socialista, che si proclama guida e maestro delle masse, altro non è che un povero notaio che registra le operazioni compiute spontaneamente dalle masse. Questo povero partito socialista altro non è che gli “impedimenta” dell’esercito proletario”.

Torniamo alla Gkn

La mobilitazione dei lavoratori della Gkn incassa dunque un primo, peraltro provvisorio successo. Ma non si ferma. Neppure dopo l'acquisizione integrale delle quote societarie da parte dell'imprenditore Francesco Borgomeo, che pare prefigurare la possibilità di difendere i posti di lavoro.
Occorre passare all’offensiva. Serve una legge vera contro le delocalizzazioni, qualcosa di profondamente diverso dal pastrocchio indecente in gestazione nelle stanze di un governo sempre corrivo nei confronti di Confindustria.
Nasce così la decisione di costruire una proposta, un documento di indirizzo per una legge davvero efficace, redatto dal gruppo dei giuslavoristi intervenuto il 26 agosto di fronte ai cancelli, poi discusso e approvato dall’assemblea dei lavoratori: un progetto incardinato su un’architettura legislativa che tagli le unghie alla protervia del capitale che tratta i lavoratori come carne da macello, un disegno ispirato al recupero della parte più feconda ma totalmente elusa del dettato costituzionale: la centralità del lavoro, che non può essere considerato solo il corrispettivo della retribuzione, ma un elemento costitutivo della personalità umana (articolo 4); i limiti da imporre all’iniziativa privata, quando questa “rechi danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (articolo 41); la possibilità di espropriare un’azienda ove questa non persegua l’utilità sociale, per consegnarla allo Stato o affidarla a comunità di lavoratori o di cittadini (articolo 43).
Perché questo avvenga davvero non può esservi nessuna delega, devono essere gli operai a redigere direttamente quel testo: “Nessuna legge sulle nostre teste, ma una legge che sia scritta con le nostre teste”, perché le imprese non devono potere fare quello che vogliono.

“Ci sono trent’anni di attacchi al mondo del lavoro da cancellare”

Ma c’è dell’altro. Alla proprietà che se ne vuole andare si contrappone l’intelligenza dei produttori, la loro matura capacità di trovare soluzioni razionali là dove il capitale intravvede solo la speculazione e l’opportunistica via della fuga: “Stiamo imparando tante cose in questa lotta. Iniziamo anche a masticare qualcosa di finanza. E quindi, fossimo un azionista Plc Melrose, inizieremmo a pensare che forse i nostri soldi non sono proprio in buone mani e inizieremmo a diversificare il portafoglio. È una semplice opinione, sia chiaro. Noi non siamo azionisti del resto. Siamo gli operai Gkn. E questo è quanto. Noi non giochiamo in Borsa. Facciamo semiassi”.
Riappare il tema, così desueto in un mondo regolato dal dogma liberista del mercato, del “controllo operaio”.
Nel conflitto si fa strada una consapevolezza più grande, che accende una miccia capace di  andare lontano.
Prende corpo un’iniziativa “costituente”: “Siamo pronti a presentare il testo di legge, e ad arricchirlo sui cancelli di ogni azienda, a sostenerlo nelle piazze”. Da qui l’idea di un viaggio verso le fabbriche i cui lavoratori e lavoratrici rischiano di essere spazzati via da provvedimenti di delocalizzazione.  Ed ecco chiarito l’obiettivo: “Creare rete con le altre lotte operaie e vertenze in atto, come quella di Cemitaly e, in particolare, della Tessitura Mottola che riguarda 115 lavoratori, dal 2004 alle dipendenze di un'impresa che ha deciso, secondo le logiche opportunistiche della delocalizzazione, di chiudere lo stabilimento pugliese, mettendo in liquidazione l'azienda subito dopo il primo decreto pandemico e dopo aver messo in cassa Covid tutti i dipendenti, in questo momento in presidio permanente di fronte alla fabbrica”.
Il tour tocca Bologna, Jesi, Lecce, Bari, Taranto. I contatti si moltiplicano e cresce la dimensione complessiva di un conflitto non più circoscritto alle sole realtà immediatamente coinvolte dalla chiusura degli stabilimenti. Passo dopo passo, la lotta si carica di un significato generale, il cui contenuto di classe si impone con una forza da tempo smarrita: “Ci sono trent’anni di attacchi al mondo del lavoro da cancellare. Per questo insieme a tutti voi, noi #insorgiamo”.
Va formandosi una convinzione: se generale è lo scontro, alla stessa altezza deve porsi la risposta. L’appuntamento è fissato: tutti e tutte a Firenze, il 26 marzo.

Contare sulle proprie forze 

In una fase storica in cui la precarizzazione di massa e l’annichilimento dei lavoratori ha toccato vertici che ricordano fasi dell’accumulazione originaria, correrò il rischio di evocare un’immagine che, ne sono certo, a qualcuno apparirà niente più che un’iperbole retorica: l’immagine è quella della prima grande lotta di classe in Italia, la rivolta degli schiavi scoppiata a Capua intorno al 70 a.C. in una delle prime scuole gladiatorie costituite in Italia, dove un pugno di uomini in catene si rifiutò di combattere nell’arena per il diletto dei propri padroni e si ribellò, raccogliendo lungo l’Italia decine di migliaia di uomini e donne decisi a combattere e a farla finita con una condizione di totale deprivazione. Quell’insurrezione, guidata da Spartaco - un ufficiale tracio reo di diserzione e posto in schiavitù - sebbene sconfitta, mise effettivamente in pericolo il controllo romano sull'Italia. E anche dopo la fine della guerra il ricordo di quello scontro campale continuò a condizionare almeno in parte la politica romana negli anni seguenti. E fu proprio al significato di quella straordinaria rivolta che si ispirarono, duemila anni dopo, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, quando fondarono la “Lega di Spartaco”, propedeutica alla nascita del partito comunista di Germania.
Si sa che anche in quel caso l’epilogo fu tragico.
E tuttavia, c’è una lezione ricorrente che bisognerebbe mandare a memoria: tu puoi subire sconfitte, anche talmente pesanti da indurti a pensare che non vi è più niente da fare. Ma poi, da qualche parte, tutto ricomincia, perché nessuno, per robuste e potenti siano le catene che ti opprimono, è ancora riuscito a mettere le brache al mondo.
Vale la pena di ricordare le parole che proprio Gramsci scriveva in una lettera dal carcere del 1927: “Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna mettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare solo su se stessi e sulle proprie forze; che non bisogna attendersi nulla da nessuno e quindi non procurarsi delusioni; che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per la propria via”.
E’ questo, in definitiva, il messaggio fatto proprio dai lavoratori della GKM e rilanciato a tutti i proletari di questo paese.