venerdì 4 marzo 2022

Di bandiere e dintorni

 



Ormai da tempo accade che movimenti di scopo, nati soprattutto, ma non solo, intorno a problematiche ambientali, vivano la presenza nelle manifestazioni dei simboli di organizzazioni, partiti, associazioni come una sorta di espropriazione, di indebita appropriazione di contenuti, finalità che – dicono - “non hanno e non debbono avere colore”. Finché la generosa presenza di militanti dei partiti resta anonima essa è la benvenuta, quando però questa si qualifica e appare visibile attraverso l’esposizione delle bandiere diventa, istantaneamente, un’occupazione di campo o meglio, per usare l’espressione più ricorrente, lo strumentale tentativo di “mettere il cappello” sulle lotte per lucrare indebiti consensi.

 

Allora è forse giunto il momento di andare a fondo della questione, perché è bene si comprenda che quando viene perentoriamente chiesto ad un compagno/a o ad un amico/a di abbassare le proprie bandiere o di non portarle affatto si compie un atto di prevaricazione, di limitazione della libertà personale, di arbitraria sospensione della democrazia.

La cosa avrebbe una precisa giustificazione se i soggetti collettivi in questione pretendessero di stravolgere/edulcorare/trasformare a propria misura gli obiettivi dei movimenti. Ma se questo non è, se –anzi – l’impegno è rivolto a dare forza e carattere unitario alla mobilitazione, non si vede perché la visibilità del suo carattere plurale dovrebbe disturbare o, peggio, nuocere alla causa comune.

A meno che non vi sia qualcosa d’altro, di inespresso e di più profondo e, precisamente, un riflesso della vulgata che vede nei partiti, in quanto tali, qualcosa di estraneo o, addirittura, di avverso all’autentica espressione della democrazia che può venire solo dal sociale. C’è molto di vero nella critica alla degenerazione partitocratica, ma è pericolosissimo fare di ogni erba un fascio, perché di questa narrazione si nutrono le più mefitiche pulsioni populiste e l’invocazione sempre più forte di radicali cambiamenti istituzionali di stampo presidenzialistico.

L’articolo 49 della Costituzione afferma che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Essi sono dunque concepiti come un architrave della democrazia. Poi, come la storia si è incaricata di dimostrare, essi si possono corrompere, possono diventare camarille di affaristi e occupare il potere per promuovere interessi particolari contro quelli sociali e comprimere i fondamentali diritti di cittadinanza. Ma questa è un’altra storia. Dunque, essenziale è distinguere e non diventare portatori, magari inconsapevoli, di ideologie regressive o apertamente reazionarie.

Infine, ma non da ultimo, c’è un altro aspetto, non meno inquietante. Non si può non osservare che delle manifestazioni di allergia per le bandiere ve n’è una che prevale su tutte e viene in luce quando compare una bandiera rossa, peggio se al suo centro c’è una falce e martello.

Allora vale la pena di riflettere su quanto pervasiva sia stata la campagna anticomunista che da Berlusconi in avanti ha non soltanto scatenato una furibonda campagna di destra, ma cambiato, subliminalmente, sottosoglia, anche il senso comune di tante persone, diciamo così, per bene, che pensano che nel comunismo, in quell’idea, covi l’uovo del serpente.

Altri/e, più sottilmente, pensano che i comunisti non siano che il retaggio passatista di una mistica ideologica: nella migliore delle ipotesi buoni e generosi, ma sempre da prendere con le pinze e da tenere a debita distanza.

La “damnatio memoriae” ha fatto incomparabili danni, disseminando scorie tossiche che emanano dai pulpiti più impensabili. In queste terribili giornate segnate dalla guerra contro l’Ucraina scatenata da Putin, oligarga e autocrate di una Russia capitalistica a trazione autoritaria e dai tratti feudali, i titoli giornalistici peggiori sono stati quelli de il manifesto che porta ancora scritto vicino alla testata “giornale comunista”. Il primo recitava, testualmente “Kiev non è sola”, con evidente, mistificatoria allusione a quel ben diverso “Praga è sola” che i fondatori del giornale avevano utilizzato per condannare l’intervento sovietico che nel 1968 stroncò la primavera politica di quel paese, dove i comunisti Dubček, Smrkovský e Svoboda stavano costruendo un altro modello di socialismo, sottraendosi alla tutela del modello unico imposto da Mosca. Il giorno appresso, il manifesto titolava “Palazzo d’Inferno”, come se l’assedio di Kiev avesse qualche vaga parentela con la presa del palazzo del potere da parte dei bolscevichi, nel 1917, a Pietrogrado. In un solo rogo vengono così bruciati Putin (che col comunismo non ha nulla a che vedere), l’Urss e l’Ottobre rosso. Uno dei sottoprodotti propagandistici somministrati dai media in questa stagione sovraccarica di falsificazioni storiche, prima ancora che politiche, è quello che fra la Russia capitalistica e quella sovietica, vede una perfetta continuità.

Il fatto è che dopo la famigerata risoluzione con cui il parlamento europeo ha assimilato nazismo e comunismo, tutto sembra possibile.

Dovrebbe essere interesse di tutte le forze politiche e sociali autenticamente democratiche sottrarsi alla sistematica contraffazione della storia che, come sempre, prepara pessimi scenari per il presente.

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