giovedì 25 febbraio 2021

Intervento al Cpn (20-21 febbraio 2021)

 




La domanda a cui occorre rispondere può essere formulata così: perché Draghi mette d’accordo tutti? Nella sua disarmante semplicità, la risposta è: perché tutte le forze politiche oggi rappresentate nel parlamento della Repubblica non hanno più nulla a che vedere col patto fondativo della Repubblica. La Costituzione è out.

Draghi unifica tutte le forze politiche, dal centrodestra al centro sinistra, sotto l’egida dell’egemonia del finanzcapitalismo nella sua espressione pura, l’ordoliberismo della scuola di Friburgo che persegue la riorganizzazione dello Stato e dell’intero assetto giuridico in funzione della difesa e promozione della proprietà privata e della libera competizione nel mercato in uno stato sociale minimo. Ciò che comporta anche una radicale trasformazione dell’assetto costituzionale e della concezione della democrazia cui la Costituzione antifascista si ispira.

Bisogna sapere che questo sarà il programma di Draghi.

E’ per lo meno curioso che ci sia oggi chi invita alla prudenza nei giudizi prima che Draghi scopra le sue carte, come se l’uomo di Goldman Sachs e della Bce, della Trilaterale, del gruppo Bildelberg e dell’Alpen Insitute non avesse identità e fosse sceso da Marte.

Ma più di ogni altra cosa contano gli atti. Non il pregiudizio (costruito su un preconcetto ideologico), ma il post-giudizio, fondato sul fatto che Draghi è stato protagonista del più violento attacco alla sovranità di un paese che si sia mai visto quando il 5 agosto del 2011 inviò al presidente del consiglio italiano (allora era Berlusconi) il famoso memorandum (a firma congiunta con Trichet) nel quale La Bce dettava con una prosa di impressionante perentorietà ciò che il governo doveva immediatamente fare. Si trattava di un esplicito ricatto perché all’attuazione di tali misure veniva condizionato il sostegno della BCE, attraverso l'acquisto massiccio di titoli di Stato italiani sul mercato secondario.

E quali erano queste misure? Lo ricordo perché di quel testo (che doveva rimanere riservato) sono circolati molti riassuntini, ma questa volta, più che mai, è utile ricorrere direttamente alla fonte.

Le misure economiche e sociali erano qui organicamente correlate, e avevano come baricentro “la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali (…) attraverso privatizzazioni su larga scala”. Poi l’invasione di campo sul terreno della negoziazione fra le parti sociali, da realizzarsi superando la contrattazione collettiva nazionale in favore di “accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende”. Quindi – continuava il testo - si tratta di procedere “ad una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”. Ovvero, mano libera ai padroni, in entrata e in uscita.

Sul piano finanziario si intimava di anticipare di almeno un anno il pareggio di bilancio adottando una clausola di riduzione automatica del deficit per cui qualunque scostamento dagli obiettivi doveva essere compensato automaticamente con tagli orizzontali di spesa. Poi si chiedeva un nuovo intervento sulle pensioni di anzianità parificando “l’età del ritiro delle donne nel settore privato con quella stabilita per il settore pubblico”. il Governo doveva quindi attuare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, se necessario, “riducendo gli stipendi”.

Per non essere vaghi e dare un carattere ultimativo al diktat si fissavano addirittura i modi e i tempi entro i quali queste misure iugulatorie dovevano essere adottate, prima per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Infine, per rendere il tutto cogente e irreversibile, si scriveva che sarebbe auspicabile anche una riforma costituzionale.

Un uno-due perfetto. Un intervento di profonde privatizzazioni, di liquidazione del welfare, coordinato con l’attacco frontale al sindacato e ai diritti individuali e collettivi dei lavoratori, in modo tale da impedire loro qualsiasi replica.

Come si vede, la Bce del dottor Draghi si comportò nei confronti dell’Italia come un esercito occupante nei confronti di un paese ormai deprivato della propria sovranità. Sarà poi Mario Monti, estratto dal cilindro di Napolitano, a fare da esecutore testamentario di tutte queste misure, nessuna esclusa, compresa l’introduzione del vincolo al pareggio di bilancio in Costituzione nel 2012.

Poi Draghi, nel 2015, diede il suo determinante contributo alla distruzione della Grecia, prima sospendendo l’esenzione, vale a dire la deroga che consentiva alle banche greche di ottenere denaro liquido in cambio di garanzie, poi impedendo ai greci la possibilità di accedere ai propri conti. Una decisione politica, adottata contro un governo sovrano per tenerne in ostaggio il popolo e liquidare la vittoria di Syriza alle elezioni politiche.

 

Questo è l’uomo che oggi guiderà un governo di “larghe intese”.

Abbiamo visto come tutti gli elementi sovrastrutturali, ideologici o pseudo tali siano scomparsi di fronte alla materialità grigia, potente, che si incarna nella figura di Draghi. Quando la scena è stata occupata dai veri poteri forti, la comune appartenenza al campo liberista ha fatto premio su tutto e cancellato le differenze. Persino Meloni si è spinta a dire che il Conducator della Bce avrà in Fratelli d’Italia più lealtà di altri che Draghi ha imbarcato nel governo. Quanto a Salvini, versione grottesca di questa tragicomica stagione politica, ha abbandonato in un nano-secondo il suo sovranismo “polenta e osei” per dichiararsi all’istante europeista e atlantico: una conversione istantanea che dice tutto del Kapataz leghista.

Cosa farà Draghi nell’immediato? Intanto abbiamo visto il repellente minestrone dei ministri attribuiti secondo il più antico rito cencelliano. Il plotone dei sottosegretari completa e persino peggiora l’omaggio all’antica tradizione democristiana.

Resta da vedere come l’uomo della provvidenza muoverà i primi passi. C’è qui e là l’illusione che Draghi non userà subito il bastone. Io ne dubito alquanto. E lo vedremo molto presto quando verrà in chiaro (al momento di chiaro non c’è niente) la destinazione delle risorse del Recovery sui temi cruciali (sanità pubblica, lavoro, istruzione, ricerca, protezione sociale, reddito, natura degli investimenti). Ma una cosa è certa: quando finirà la moratoria del patto di stabilità e del fiscal compact e tornerà in vigore tutto l’armamentario dei trattati, non sarà certo Draghi, che di quella costruzione è stato fra i principali architetti, a limitarne la piena entrata in vigore.

 

Ora, in tutta questa vicenda c’è per lo meno un elemento di chiarezza.

La finta rappresentazione di una pseudo-contesa fra centrodestra e centrosinistra in realtà interni ad una condivisa cultura liberista ed ora uniti nello stesso governo, segnala che è data la possibilità di un’aggregazione delle sinistre che a vario titolo possiamo inscrivere nell’area anticapitalista. Non si tratta di fare precipitare immediatamente soluzioni organizzative, ma di lavorare subito ad un processo costituente, di riannodare i fili di relazioni politiche e sociali interrotte o mai avviate, di frequentare attivamente tutta l’area del conflitto sociale e di operare per una riunificazione del fronte di classe e sindacale.

Bisogna vieppiù contrastare tutte le tendenze alla divisione, alla separazione identitaria, all’impotente esaltazione di tutti i distinguo. E se cominciassimo a farlo al nostro interno non sarebbe male.

 

Sul tormentone della firma all’appello dell’Anpi.

Nonostante mi aspetti ormai quasi tutto del nostro modo di discutere e di inventare occasioni di conflitto interno, quella dell’appello Anpi ha superato ogni soglia pensabile.

La firma di Rifondazione ad un testo che afferma i valori dell’antifascismo, della Costituzione, della pace, del lavoro e della necessità di un cambio di paradigma nel segno della giustizia sociale e dell’ambientalismo è parsa ad una parte di noi un fatto blasfemo perché a quel testo hanno aderito, insieme a nobilissime associazioni e personalità, anche il Pd e il M5S. Non vedo, francamente, come e perché avremmo dovuto tenercene fuori. Ma si è voluto vedere in quell’atto un vero e proprio colpo di mano con cui si sarebbe cambiata la linea del partito benché per l’ennesima volta ribadita da un voto della Direzione. Al punto da richiedere un’apposita riunione del Cpn e da disertare, come area di minoranza, la riunione della Direzione convocata per discutere dell’argomento e affrontare la questione ben più rilevante della formazione del nuovo governo Draghi e dei nostri compiti in questo delicato frangente. La pistola fumante sarebbe rappresentata dagli interventi del presidente dell’Anpi, Pagliarulo, e di Pier Luigi Bersani che hanno provato a strumentalizzare l’ampiezza delle adesioni come una sorta di endorsement collettivo al governo Conte. Che il Pd cercasse di portare acqua al proprio mulino è cosa persino ovvia, ma il testo dell’Anpi è quanto di più estraneo vi sia alla politica del Pd del quale viene semmai evidenziata la contraddizione totale con i propri atti. Ma all’abitudine a farsi raccontare dagli altri, ora se ne aggiunge un’altra, peggiore, quella di credere alla narrazione che gli altri fanno di noi, rivelando una caduta preoccupante di autonomia. La linea politica decisa da tempo non è né revocabile, né negoziabile e solo una immarcescibile vocazione alla faida interna può spiegare la sollevazione intrapresa da una parte dei compagni e delle compagne, sino a chiedere una purificatrice resa dei conti.

Ad ogni buon conto, una cosa è discutere sull’opportunità della firma in un momento particolare, un’altra è accreditare l’idea che si stia complottando per rovesciare la linea del partito sancita dal congresso e ribadita da tutti gli atti successivi. Beninteso, un problema al nostro interno esiste, e lo si vede ogni qual volta si avvicina una scadenza elettorale. Ma questo, sia ben chiaro, con l’adesione al documento dell’Anpi non ha nulla a che vedere.

 

Quanto al congresso, mi fa piacere che anche nei compulsivi sostenitori dei documenti globalmente alternativi si sia fatta finalmente strada la convinzione che rinchiudersi in recinti fra loro incomunicanti serva soltanto a posizionarsi nell’eterna disfida interna, ma non produca assolutamente niente sul decisivo terreno dell’elaborazione politica e della strategia. Meglio tardi che mai. Bisogna però sapere che ha ragione Russo Spena: un congresso a tesi, quale personalmente sostengo da sempre, è molto più impegnativo perché comporta un approfondimento vero delle questioni poste a tema, costringe a scegliere, oltre e fuori dalle divisioni artefatte.

Fissiamo la data e ci attrezziamo per arrivare pronti all’appuntamento? Benissimo. Sapendo però sin d’ora che il congresso va fatto in presenza, sempre se il livello del contagio e le misure di sicurezza lo permetteranno.