Ha in questi giorni libero
corso la furibonda contesa fra governo centrale e Regione lombarda per
stabilire chi l’abbia fatta più grossa durante la fase di più acuta emergenza
della pandemia, ovvero chi porti la responsabilità – politica, giuridica e
morale – per l’ecatombe di morti che ha disseminato di lutti il territorio che
per storia, efficienza amministrativa, attrezzatura sanitaria si supponeva avrebbe
dovuto più efficacemente fronteggiare l’aggressione del virus.
Così, prima ancora di
accertare, nella fattispecie, le responsabilità di carattere penale per le
macroscopiche inadempienze che si sono registrate, è emersa – lampante - una
verità difficilmente contestabile: la sanità pubblica, proprio nei punti dove
ancora essa fa registrare prestazioni di eccellenza, ha subito da almeno tre
decenni una vera e propria spoliazione, condotta con metodo proditorio da
amministrazioni politiche che hanno perseguito sistematicamente l’obiettivo di
trasferire risorse finanziarie dal pubblico al privato, non soltanto riducendo
drasticamente i posti letto ospedalieri, ma falcidiando l’intera struttura
sanitaria territoriale, la “prima linea” che avrebbe dovuto fronteggiare
l’ondata del contagio e che invece non ha potuto fungere da filtro quando le
persone colpite dal virus si ammassavano nei pronto soccorso e nei nosocomi,
presto diventati da luoghi di protezione e di cura a fonti di rapida
trasmissione del virus. E’ dunque emersa in tutta la sua scellerataggine la
politica che dietro l’idea della sussidiarietà fra pubblico e privato, dietro
l’attribuzione al privato dei settori sanitari più lucrativi e la remissione al
pubblico di tutto ciò che rimaneva, si nascondevano ben concreti ma
inconfessabili interessi che nulla avevano a che spartire con l’interesse
sociale e il bene comune, sbugiardando un’intera classe dirigente che ha avuto in
Roberto Formigoni l’artefice più spregiudicato e nella Compagnia delle Opere il suo potente braccio esecutivo. Una linea
di condotta ereditata, in perfetta continuità, dalle amministrazioni successive
a conduzione leghista che hanno in questi duri frangenti dimostrato, con la
performance della tragicomica coppia Fontana-Gallera, sino a quale punto di pusillanime
sconsideratezza possa spingersi la cattiva politica.
La drammatica crisi di questi
mesi ha avuto dunque, se non altro, il merito di scoperchiare il vaso di Pandora
e di mostrare, anche all’opinione pubblica più distratta, lo stato delle cose.
E’ così accaduto che
l’epicentro lombardo sia divenuto famoso nel mondo per la concentrazione di
casi e di decessi, in relazione alla popolazione residente.
Neppure l’acrobazia
dialettica più spinta può riuscire a nascondere che proprio in Lombardia, in
pieno lockdown, un buon 60% delle
aziende ha continuato a funzionare; che Confindustria si sia opposta ad ogni
seria misura precauzionale perché “prima viene il profitto”; che il refrain
sull’economia “messa in ginocchio” abbia esposto centinaia di migliaia di
lavoratori e, a fortiori, le loro
famiglie, al contagio; che il personale sanitario sia stato abbandonato a se
stesso, pagando un prezzo drammatico; che le rilevazioni del contagio siano
state effettuate con il contagocce, che i più elementari strumenti di
protezione siano stati a lungo indisponibili, che l’attivazione delle “zone
rosse”, dopo il caso di Codogno, non sia stata considerata neppure nelle
situazioni più gravi, malgrado questa opportuna misura sia stata adottata da
altre amministrazioni regionali e locali in ben 116 aree. E ancora: che i
ricoveri per anziani e persone in difficoltà, le Rsa, siano divenuti dei
lazzaretti dove si scontava una condanna a morte.
Su questi fatti è in corso
un’inchiesta della magistratura e si può essere certi che altre ne verranno
perché molti, fra i congiunti delle vittime, non accetteranno come
imperscrutabile fatalità la perdita dei propri cari.
La sciagurata conduzione
politica della Lombardia non attenua le gravi responsabilità del governo
centrale che ancora oggi non riesce a tutelare i redditi più bassi, con una
cassa integrazione che ancora non arriva o arriva a spizzichi e bocconi, con il
rifiuto di creare un fondo alimentato da una tassa sui grandi patrimoni, con
l’incapacità di rompere con il persistente pregiudizio contro la riduzione
degli orari di lavoro a parità di salario per fronteggiare la prospettiva della
disoccupazione di massa che incombe sul futuro prossimo del paese. O con
l’incredibile incertezza che ancora rende problematica la riapertura delle
scuole a settembre, possibile soltanto se accanto a rigorose misure di
protezione sanitaria si prevedono doppi turni con l’assunzione e l’abilitazione
di decine di migliaia di nuovi insegnanti.
Tutto questo ed altro ancora
pesa su una compagine governativa che non possiede, nel proprio codice
genetico, la capacità di immaginare e progettare una svolta nelle politiche
economiche e sociali che la crisi dovrebbe suggerire come una straordinaria
opportunità di cambiamento. La stessa convention, definita con una prosopopea carica
di inconsapevole umorismo “Stati generali” è lì a dimostrare come al Paese
manchi il timone. E in questa perdurante debolezza e afasia del potere politico
sono le classi dominanti a tracciare la strada. Torna in mente ciò che nel 1947
disse Palmiro Togliatti nel dibattito che si svolse nella prima
sottocommissione della Costituente, e cioè che “in un sistema capitalistico ove regna la pura libertà economica, i
rapporti sociali, cioè i rapporti di proprietà che nel suo seno si generano,
tendono a concentrare la ricchezza nelle mani di ristretti gruppi privilegiati,
mentre dall’altra parte aumentano povertà e diseguaglianza”.
E allora viene sempre più in
chiaro che se non si prende di petto l’intera cultura economica, l’intera
impalcatura del dottrinarismo liberale, se non si va alla radice della
contraddizione fra il carattere sociale della produzione e quello privato
dell’appropriazione, si riproduce fatalmente l’ordine di cose esistente.
C’è poi un ulteriore grumo di
problemi che chiama in causa l’assetto istituzionale del nostro paese come è
stato via via modificato a partire dalla riforma del Titolo Quinto della
Costituzione. I concetti di legislazione concorrente e di sussidiarietà, voluti
per attribuire alle Regioni aree di giurisdizione consistenti su materie
cruciali come la sanità, hanno in realtà moltiplicato i centri di potere senza
favorire in alcun modo una “democrazia di prossimità” e un controllo dal basso.
Al contrario, ne è uscita rafforzata la tendenza a rompere la solidarietà fra
aree ricche e are povere, a minare l’unità nazionale, sino a sfociare nella
richiesta di forme di autonomia differenziata fatalmente destinate ad aumentare
ingiustizie e diseguaglianze.
Sullo sfondo, ad ingessare ulteriormente
la situazione e a spingere in un vicolo cieco, sta la recidivante cecità di
un’Unione europea che, prigioniera dello sciovinismo nazionalistico che cova
nel suo seno, non riesce a far altro che erogare poche e insufficienti risorse,
in gran parte da imputare a debito degli Stati e dunque soggette ai vincoli
vessatori dei propri trattati. Un cul de
sac che disegna uno scenario futuro se possibile ancor più nero di questo
grigio presente.