Merita una segnalazione ed un
apprezzamento particolari il nuovo libro di Paolo Ciofi (Costituzione e rivoluzione. La crisi, il lavoro, la sinistra, Editori
Riuniti, pp.216), intrigante e persino provocatorio, sin dal titolo, per la
mediocrità e l’opacità di tanta parte del pensiero politico contemporaneo.
Il testo propone – preceduta
da un importante saggio introduttivo - una selezione degli scritti pubblicati dall’autore
lungo l’ultimo decennio, suggerendo come chiave di lettura, come centro di
annodamento, la crisi della sinistra “di classe”, smarritasi in mille rigagnoli
in sterile, reciproca concorrenza dopo l’eutanasia del Pci e il definitivo
approdo liberista del Partito democratico. E sino ad oggi incapace, malgrado la manifesta “crisi sistemica” del
capitale, di ritrovare il bandolo della matassa, di rintracciare i fondamenti
teorici e la strumentazione critica necessari a comprendere la proteiforme
natura del capitalismo nel tempo presente e ad elaborare un progetto politico che
torni in connessione sentimentale con i proletari di questo paese, con coloro
che, per usare una felice espressione di Ciofi, “per vivere hanno bisogno di
lavorare”.
Costoro sono oggi oggetto di
un esproprio materiale e di una colonizzazione sociale da parte di un pugno di
“proprietari universali” che ha concentrato nelle proprie mani una ricchezza ed
un potere immensi, da fare impallidire, per qualità e quantità, i ritmi e le
dimensioni dell’accumulazione originaria.
Siamo cioè di fronte ad una vera
e propria “dittatura del capitale” artefice dello “sfruttamento totalitario del
lavoro, ricondotto allo stato primordiale di merce, come fosse foraggio per il
bue” e, non di meno, protagonista di una vorace, sistematica rapina della
natura.
Ma benché “la dura realtà dei
fatti abbia cominciato ad aprire falle consistenti nella favolosa costruzione
ideologica delle classi dominanti” che spaccia la moneta falsa di un mondo dove
non vi sarebbero più classi ma solo individui liberi di costruire il proprio
destino, la sinistra cosiddetta alternativa continua a risultare, nel
complesso, “culturalmente e politicamente trascurabile”: un deficit teorico e
pratico che ha comportato la cancellazione del lavoro dall’orizzonte
teorico-politico dei partiti e all’esclusione delle classi lavoratrici dal
sistema politico, “aprendo un vuoto di rappresentanza che ha messo capo a una
profonda crisi democratica”.
Con la sferza di una
corrosiva ironia Ciofi mette alla berlina l’improvvido espianto di un pensiero
critico in grado di contrastare il pensiero unico “liberal-liberista” con la
conseguenza – scrive l’autore citando Manuel Vasquez Montalban – che “si abbandona
il marxismo e si finisce per credere agli oroscopi”, non riuscendo più a capire
né come è fatto il mondo in cui viviamo, né a distinguere il bene dal male e il
vero dal falso.
Di grande efficacia è la
descrizione della progressiva metamorfosi che ha fatto del Pd “un partito della
borghesia dominante”, dedito non già a mutare, bensì a conservare i rapporti
sociali esistenti e dove il preteso riformismo si risolve nell’obiettivo di
“stimolare le virtù dei ricchi per alleviare le sofferenze dei poveri”, e dove
all’affermazione dei diritti si sostituisce l’erogazione di bonus, vale a dire “graziose (e
lunatiche) concessioni che il moderno sovrano” concede ai propri sudditi
questuanti.
Così, la fase della
democrazia italiana “incardinata sulla dualità lavoro-capitale” viene annullata
da una fraudolenta narrazione in cui le classi sociali e il conflitto fra di
esse rappresentano una patologia della vita comunitaria, retaggio di una
ideologia consunta da sostituire con “un bipolarismo partitico conchiuso nel
perimetro di una sola classe sociale”, quella dominante.
L’obiettivo - consapevolmente
perseguito – è la revoca del patto costituzionale che “si fonda sulla libera
associazione politica dei lavoratori”: il posto che la Carta riserva al lavoro viene
consegnato al capitale e all’impresa che ne rappresenta l’incarnazione
secolare. E ciò in quanto per lor signori - come ci ricorda Ciofi citando la
volgare, ma istruttiva prosa di un Piero Ostellino – “una merce, quale è il
lavoro, non può essere posta a fondamento della Repubblica”.
Di fronte a tutto ciò, in una
situazione in cui la forbice della disuguaglianza ha assunto dimensioni
inaudite, in cui “il 10 per cento della popolazione possiede circa il 50 per
cento della ricchezza” e dove “il reddito delle 80 persone più ricche del mondo
è oggi pari a quella del 50 per cento della popolazione più povera”, si impone
–continua Ciofi – la domanda “ineludibile” di quale sia “la causa di fondo che
dà origine a questo insostenibile stato di cose”.
Ebbene, affinché la risposta
vada alla radice del problema occorre per l’autore risalire alla sorgente della
diseguaglianza, cioè “alla natura del capitale”, al suo essere, prima di tutto,
un rapporto sociale e, precisamente, un rapporto che divide l’umanità in due
parti distinte e contrapposte: quella che detiene i mezzi di produzione e
quella che non possiede nulla se non la forza lavoro che è costretta a vendere ai
detentori esclusivi della proprietà. “Un rapporto – afferma Ciofi – in continua
evoluzione, articolato oggi nelle mille forme diverse del lavoro precario e
discontinuo, che maschera e rende invisibile la parte proprietaria. Ma non la
elimina, anzi la rafforza”.
Ecco, allora, che se non si
afferra per le corna questo nodo della proprietà, questo “convitato di pietra”,
questo “tabù innominabile”, se non si comprende che “la distribuzione della
ricchezza dipende in ultima analisi dalla distribuzione della proprietà” non si
verrà mai a capo di nulla, come dimostra la crisi irreversibile di tutte le
socialdemocrazie che hanno coltivato e si sono infrante nell’illusione di attenuare
le contraddizioni sociali attraverso misure redistributive che lasciavano inalterati
i rapporti di produzione capitalistici. Con l’esito drammatico che il ciclo socialdemocratico
si è concluso “non con un compromesso, ma con una completa resa delle armi, nel
pensiero e nella prassi”.
Il fatto è che “a una potenza
sociale che genera un prodotto comune dovrebbero corrispondere forme di
proprietà pubbliche, sociali e comunitarie”, mentre accade l’esatto contrario
perché la proprietà è stata in questi anni “espropriata e privatizzata”.
Eppure abbiamo da gran tempo a
disposizione “un progetto di nuova società che guarda al futuro”, che salda
libertà ed uguaglianza e che “offre una tavola di valori alternativi” attraverso
i quali fondare una comunità solidale del lavoro.
Questo progetto esiste e vive
nella Costituzione del 1948, riaffermata, con il voto referendario del 4
dicembre scorso, come la legge fondamentale dello Stato. Essa – ci ricorda
Ciofi – rappresenta la stella polare che può consentirci, attraverso uno
sviluppo progressivo della democrazia fondata sul lavoro, di varcare “le colonne
d’Ercole del sistema del capitale” e di orientarne lo sviluppo “in direzione di
una civiltà superiore, che potremo definire nuovo socialismo”.
I 12 articoli che tessono l’ordito
dei principi fondamentali della Carta non si limitano infatti ad affermare i
diritti fondamentali di ciascuno, ma impongono alla Repubblica il compito di
renderli effettivi, “rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese”.
Di più, l’intero titolo III
che fissa in norme cogenti l’ossatura dei rapporti economico sociali delinea un
progetto politico-sociale che pone limiti precisi alla
iniziativa privata, libera
sì, ma solo a condizione che sia finalizzata all’interesse sociale, subordinata
alla programmazione e agli indirizzi che competono alla mano pubblica e in ogni
caso tale da “non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana”. Al punto di prevederne l’esproprio e l’assegnazione a comunità di
cittadini o di lavoratori ove questo fondamentale precetto venga disatteso e
violato.
Ha dunque del tutto ragione,
Paolo Ciofi, quando sottolinea che “il
pluralismo nelle forme della proprietà e la stessa visione dell’iniziativa
economica (…) delineano un progetto di cambiamento in progress che incide profondamente nelle strutture della società,
stabilendo una relazione inedita, sconosciuta in altri progetti del Novecento e
ricca di implicazioni straordinariamente attuali tra impresa e utilità sociale,
tra solidarismo e personalismo, tra individuo e classe, che conferisce
all’intero impianto della Costituzione
un respiro di portata strategica per l’Italia e per l’Europa”.
Insomma, la Costituzione
fornisce “elementi essenziali per un programma fondamentale (…), per ripensare
un’idea di socialismo che non sia l’ennesima variante della subalternità al
capitale”.
La Costituzione italiana è anche
utile a costruire una piattaforma da utilizzare nel campo di battaglia europeo,
monopolizzato da un’oligarchia capitalistico-finanziaria che ha fatto
dell’aggressione al lavoro e della liquidazione del welfare o di ciò che ne
resta la propria missione fondamentale.
Perciò si tratta di lavorare
per azioni di lotta transnazionali contro la deflazione salariale, per la piena
occupazione, per la fissazione di standard comuni di tutele sociali e
ambientali, e comuni politiche fiscali, nello spirito di un “nuovo
internazionalismo del lavoro”. Tuttavia – ammonisce Ciofi – “questa ineludibile
visione internazionalista rimarrà appesa nel regno dei cieli se, nello stesso
tempo, non cresceranno nei territori nazionali lotte e movimenti concreti (…)
con l’obiettivo, per noi italiani, di dare attuazione alla Costituzione”.
Ebbene, può la Costituzione
rappresentare il collante di una nuova coalizione di forze sociali e politiche,
di soggettività di movimento ed energie intellettuali oggi scollegate quando
non divise? La risposta di Ciofi è affermativa, purché si dismetta l’inveterata
abitudine di avvitarsi in procedimenti politicisti che danno luogo a
fallimentari accrocchi: “prima i contenuti” e solo dopo gli schieramenti,
secondo la “rivoluzione copernicana” invocata da Enrico Berlinguer, e non solo
in prossimità delle consultazioni elettorali. Anzi, scansando le ossessioni
elettoralistiche su cui si sono spesso infrante tante velleitarie scalate al
cielo.
Ciofi conclude quasi con
un’invocazione: “Serve una nuova soggettività politica, un partito nettamente
schierato dalla parte del lavoro (…) a disposizione degli sfruttati e degli
oppressi, per la liberazione di se stessi e la trasformazione della società
(…); non un partito del leader, ma al contrario un leader al servizio del
partito, associazione di donne e uomini liberi, che pensa e agisce come
intellettuale collettivo”.
Dino Greco
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