mercoledì 5 dicembre 2018

Cari compagni e care compagne


  
“Un opportunista, per la sua stessa natura, eviterà sempre di prendere una posizione chiara e decisa, cercherà sempre una via di mezzo, si divincolerà sempre come un serpente tra due punti di vista che si escludono a vicenda, cercando di concordare con entrambi e di ridurre le proprie divergenze d'opinione a insignificanti obiezioni, dubbi, innocenti e pii consigli e così via”.
(Lenin)


Si può anche dissentire dalla lettera di Maurizio Acerbo, come è legittimo e del tutto utile che il dissenso possa liberamente esprimersi nel partito su ogni questione.

Per quel che mi riguarda, ho passato non piccola parte della mia vita “dissentendo” e so quanto preziosa sia la dialettica fra le posizioni in campo, dunque non mi preoccupa la discussione franca, nemmeno quando espressa con ruvidezza.

Per farlo, i compagni e le compagne (tutti dirigenti a vario titolo del Prc) hanno scelto in questo caso la strada della lettera al compagno Acerbo e alla Direzione. Dunque una lettera interna al partito. Che tale avrebbe dovuto rimanere.

Peccato che, in tempo reale, anzi, prima ancora di ricevere la lettera in quanto componente della Direzione, la sera del 4 dicembre, mi sia stato inviato il testo da parte di PaP Franciacorta, un’assemblea territoriale che si staccò anzitempo da PaP provinciale Brescia e che si è distinta per la violenza degli insulti e degli attacchi rivolti ai compagni e alle compagne di Rifondazione, una campagna che ancora perdura senza sosta.

Ciò significa che qualche solerte compagno/a di Rifondazione che si dice preoccupato per l’iniziativa di Acerbo (giudicata “lesiva dello stesso ruolo del Prc”), non si è fatto scrupolo di giocare su due tavoli e utilizzare la dinamica interno/esterno per sparare sul segretario a palle incatenate.

In un attimo la lettera si è trasformata in un fenomeno virale ed è subito parso evidente che quel “ci dissociamo apertamente”, dichiarato sin dal titolo della lettera dai firmatari, si è rivelato per quello che è: non un’espressione utile a rendere esplicito un dissenso e ad aprire un legittimo confronto, ma ad intentare un processo nello spazio pubblico.

Sono troppo vecchio per non sapere che queste cose non avvengono mai per caso e, una volta di più, mi interrogo su quale concezione di partito (comunista) alberghi nella testa (e nei comportamenti) di non pochi compagni/e.

Questo al di là del merito, che pure c’è, e di cui vorrei discutere con gli estensori della lettera. Che ha un andamento singolare.

Si comincia con due affermazioni lapidarie: “l’infondatezza” dell’incompatibilità fra Prc e Potere al Popolo e l’errore (di Acerbo) di contestare, con metodi “burocratici e amministrativi” l’uso del simbolo da parte del nuovo gruppo dirigente di PaP.

Poi segue l’ammissione che, in effetti, “la svolta avvenuta negli ultimi mesi contraddice i contenuti e gli obiettivi del Manifesto originale di Potere al Popolo” e che PaP rischia di ridursi “ad una nuova formazione che si aggiunge a quelle già esistenti”.

E’ detto in modo molto, molto pudico, ma il senso è chiaro: ex-Opg, Eurostop, Rete dei comunisti e dintorni stanno trasformando PaP in un partito. Un partito - per la verità - che considera zavorra tutto ciò che si muove fuori dal proprio perimetro.

Infine, l’invito ad Acerbo a dismettere un tono da leguleio, a cambiare registro e a “confrontarsi per trovare insieme le soluzioni giuste”.

Per fare cosa? La risposta è: per “prendere atto dell’interruzione di un percorso comune, lasciando aperta la strada ad un lavoro unitario su ciò che ci unisce”.

Ora, cari compagni, dovete essere più chiari. E’ doveroso esserlo, in modo che tutti capiscano, scansando ogni ipocrisia.

Intanto sulla questione principale, alla quale bisogna rispondere.

Ogni partito è – per sua natura – in competizione con ogni altro e anche coloro che oggi sfruttano in proprio il brand di PaP lo sono, tanto che non lesinano quotidiani colpi di clava contro Rifondazione Comunista, considerata un’escrescenza terminale della vecchia sinistra (lo hanno persino scritto nel loro statuto).
Fino al punto che sembra prevalere fra loro l’orientamento a non partecipare a prossime liste elettorali nelle quali sia presente il Prc!

La domanda allora è: come si può far parte di entrambe le formazioni politiche (come dite voi stessi, in contrasto fra loro per “contenuti e obiettivi”) senza entrare in una contraddizione senza scampo?

Credo in nessun modo, a meno che non si stia da una parte ma si penda dall’altra.

E’ poi chiaro che chi invece la contraddizione non la vede (sorbole!), chi pensa che si può “interrompere il percorso comune” e, contemporaneamente, tenere un piede di qua ed uno di là non può neppure porsi il problema della evidente schizofrenia che si produce.

Capisco che allora diventi del tutto irrilevante anche la questione del nome e del simbolo, scippati con un colpo di mano, in violazione del solo statuto legittimo, perché approvato da tutti, comprese le rigorose clausole che ne consentono la modifica.

Se è certo che “non abbiamo bisogno di dispute legali”, vorrei però conoscere quali sono – secondo voi - i modi “trasparenti e propositivi” per affrontare quelle che con bizzarra equidistanza definite le “divergenze” aperte.

Più precisamente, meriterebbe sapere, così, per chiarezza, se pensate che simbolo e nome vadano semplicemente abbandonati, per bon ton, nelle mani di chi se li è portati via, lasciando i compagni di Rifondazione a litigare fra loro fra “fuoriusciti” (secondo la nomea affibbiataci dalla coppia Cremaschi-Carofalo) e “unitari” che ancora convivono nella rifondata compagine di PaP.

Allo stesso modo, sempre per chiarirmi le idee, chiedo ai compagni autori del J’accuse contro Acerbo cosa pensino dell’iniziativa lanciata con la lettera “Compagne e compagni”, promossa proprio per non disperdere quanto di positivo aveva prodotto e poi rinnegato Potere al Popolo, per rilanciare il progetto di un fronte largo del campo antiliberista e anticapitalista fondato sul metodo (il solo che può funzionare) della decisione condivisa.

Investiamo su questa impresa o credete si tratti di un ballon d’essai destinato a sgonfiarsi?

E’ vero, ci sono in giro confusione e sconcerto, soprattutto nelle nostre file, frutto non solo dell’altrui doppiogiochismo, ma anche di nostri evidenti errori su cui dovremo ancora riflettere.

 Ma se per noi è un imperativo “concentrare ogni energia nell’opposizione al governo ed ai vincoli europei”, la cosa peggiore che può accadere è stare a metà del guado, portando acqua al mulino di chi pensa (e ormai dice apertamente) che Rifondazione ha fatto il suo tempo e che il “nuovo” e il “puro” passa attraverso il suo scioglimento.

Poi non ho dubbi che nelle piazze e nelle lotte ci ritroveremo, perché questo impone la drammatica fase che stiamo vivendo.

sabato 1 dicembre 2018

Scherzi dell’inconscio



Viola Carofalo e Giorgio Cremaschi bollano i compagni e le compagne di Rifondazione con il termine, che vuole essere dispregiativo, di “fuoriusciti”.
In realtà, come chiunque può constatare, le cose stanno esattamente all’opposto.
Ex Opg, Eurostop e Rete dei comunisti hanno stipulato fra loro un vero e proprio patto di sindacato – per usare una formula che le imprese usano per regolare la propria governance interna – al fine di cambiare la ragione sociale di Potere al Popolo, mutare in senso autoritario le regole di democrazia interna, liquidare il principio della decisione condivisa per sostituirlo con una pratica maggioritaria, intrinsecamente espulsiva.
In corsa hanno cambiato le regole del gioco, hanno cancellato il manifesto costitutivo originario di PaP, hanno preteso di approvare il nuovo statuto del movimento con poco più di un terzo dei voti degli associati, si sono apprestati a costituire un partitino settario, a struttura piramidale, nelle mani di un ristrettissimo gruppo di maggiorenti, i soli abilitati a tracciare la rotta, nella più solitaria autoreferenzialità. E hanno infine proclamato che chi non ci sta se ne deve andare, perché fuori da quel guscio c’è solo zavorra.
Tutti costoro, e Rifondazione in cima alla lista, indisponibili a subire il golpe, nei fatti cacciati dal consesso unitario dopo averne vampirizzato passione, risorse, lavoro, risultati, sono diventati i reprobi, i nemici da additare al pubblico ludibrio, i “fuoriusciti”, appunto.
Talvolta, però, l’uso di certi termini, si ritorce contro chi ne fa un uso troppo spregiudicato.
Definisce così, l’enciclopedia Treccani, il termine di fuoriusciti: “Oppositori di un regime che continuano in forma aperta o clandestina l’attività di opposizione e di lotta”.
Scherzi dell’inconscio.

lunedì 26 novembre 2018

Quando la pezza è più grossa del buco


"Mi hanno sempre detto... tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta... la figura è bella e qualche volta piango... ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l'ideale nella testa dell'uomo".
(Alcide Cervi)

La Loggia “non aveva gli strumenti” per impedire la manifestazione fascista di Forza Nuova di sabato scorso. E’ questa, in sintesi, la risposta che il presidente del Consiglio comunale di Brescia ha ritenuto di dare alla lettera nella quale denunciavo la latitanza dell’amministrazione cittadina, della Giunta e del Consiglio tutto di fronte all’impressionante recrudescenza fascista a cui assistiamo da tempo, in un crescendo di toni ed episodi che sarebbe prova di cecità non vedere o, peggio, sottovalutare. Mi riferisco alle aggressioni, alle intimidazioni di ronde paramilitari che sempre più frequentemente frequentano le strade di città e provincia, alle manifestazioni pubbliche sempre più ricorrenti con il corredo di tutta la tradizionale iconografia fascista e nazista, all’apologia del ventennio nero che dilaga su internet e su pubblicazioni per nulla dissimulate, agli eventi pseudo-culturali che spacciano per neutrali ricostruzioni della storia patria surrettizie esaltazioni dell’era fascista, fino alla presentazione di liste elettorali in cui la denominazione “Fascismo e libertà, partito nazional-socialista” contorna riquadri al cui centro campeggia un fascio littorio.
Spero converrà, la maggioranza politica che amministra il comune di Brescia, che tutto ciò non è derubricabile a folclore, o a libero confronto fra le idee (come sabato scorso mi ha candidamente rivelato un funzionario di polizia).
E allora, tornando al dunque, può darsi che il Comune di Brescia non potesse impedire lo svolgimento del presidio di Forza Nuova. Vediamo invece cosa poteva (e doveva fortissimamente) fare, ma non ha fatto.
Poteva innanzitutto prendere posizione, dire che quell’atto insultante viola la Costituzione antifascista e antirazzista, insieme ad un altro paio di leggi dello Stato; poteva compiere un passo verso il Prefetto, che giura fedeltà alla Costituzione, e al Questore, affinché proibissero – come è nelle loro certe prerogative – la scorribanda nera; poteva aderire e partecipare, come tale, magari con il sindaco in fascia tricolore, alla manifestazione antifascista che la questura aveva paradossalmente deciso di vietare. Se il Comune avesse fatto ciò che poteva e doveva fare, forse le cose sarebbero andate in altro modo e il messaggio inviato a tutta la città sarebbe stato inequivoco, per il presente e per il futuro.
Il presidente del Consiglio comunale ha poi rivendicato la sua personale presenza alla manifestazione di sabato a dimostrazione della solidità della propria fede antifascista. Bene che vi sia stata, ovviamente, ma credo di non dovere spiegare quale enorme differenza vi sia fra una testimonianza privata e un atto politico pubblico.
So che i miasmi e le tossine di cui è impregnata la politica nazionale alimentano le peggiori pulsioni e che si diffonde una percezione di impunità e di protezione fra gli autori delle gesta di cui stiamo parlando. Col risultato che ogni volta viene loro la tentazione di alzare il tiro, di aumentare la posta. Fino a dove lo sappiamo, per averlo già visto.
Ma proprio per questo non si può transigere oltre. Questo episodio, ultimo fra i tanti, deve servire a correggere la rotta. Altrimenti l’ignavia pusillanime diventa parente della complicità.

Dino Greco

domenica 18 novembre 2018

All'armi son fascisti

“La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.”
Karl Popper


Ieri, nel cuore di Brescia, all’inizio di via San Faustino, un manipolo di fascisti di Forza Nuova, blindato (o piuttosto protetto) da Polizia di Stato e Carabinieri, ha potuto inscenare un’indegna gazzarra razzista.

La suprema legge dello Stato, la Costituzione repubblicana, vieta, “sotto qualsiasi forma”, la riorganizzazione del partito fascista; la legge Scelba del 1952, sanziona “chiunque pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti e metodi del fascismo”; la legge Mancino del 1993 punisce con il carcere chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Tanto dovrebbe ampiamente bastare per impedire a questa gentaglia di scorrazzare impunita in ogni dove.
La Costituzione esclude totalmente la tollerabilità, da parte dell’ordinamento italiano, di comportamenti simili.

La XVIII delle sue disposizioni transitorie e finali dice con cristallina chiarezza che “la Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come Legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato”.

Ma ieri, a contrastare l’odio fascista e razzista c’erano in campo soltanto i cittadini, le famiglie del Carmine con i loro bambini, i partiti della sinistra radicale, le associazioni antirazziste, i centri sociali, malgrado il paradossale divieto imposto dalla Questura.
A centinaia sono accorsi, pacificamente, offrendo una lezione di pulizia morale, di civiltà, di cultura dell’inclusione, di consapevolezza democratica, di antifascismo militante. Al contrario degli organi dello Stato che avevano il dovere di impedire, invece che autorizzare, il raduno Forza Nuova, spacciando quella infame esibizione come l’esercizio del libero confronto delle idee.

E il Comune della nostra città? Non pervenuto! Avrebbe dovuto e potuto pronunciare una parola forte, interpretando i sentimenti profondi di Brescia medaglia d’argento della Resistenza, sfregiata dalla ferita non rimarginata della strage nera. Avrebbe potuto alzare la voce per dire che nelle nostre strade non c’è posto alcuno per i fascisti.
Avrebbe potuto fare vivere la propria delibera con la quale dichiara solennemente di subordinare la concessione di suolo pubblico alla dichiarazione di “riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo”. Invece Giunta e Consiglio si sono ipocritamente e pilatescamente defilati.
Se anche questo è un inquietante segnale dei tempi occorrerà rapidamente prendere le misure, perché altri e più gravi fatti potrebbero avere libero corso.

Dino Greco

giovedì 25 ottobre 2018

Game over



 Al coordinamento nazionale di PaP è andato in scena l’atto (annunciato) che certifica la frattura verticale del movimento.

Coloro che hanno proposto e sostenuto lo Statuto 1 hanno salutato con entusiastica enfasi lo “straordinario risultato” del voto, hanno dichiarato che ora non rimane che andare dal notaio per sostituire lo statuto ancora in vigore con quello nuovo che ritengono approvato e del quale  hanno rivendicato l’immediata esigibilità.

Che lo lo Statuto 1 abbia raccolto poco più di un terzo dei consensi rispetto alle oltre 9 mila persone che hanno aderito a Pap e che tale percentuale tocchi a stento il 45% delle 7200 persone che hanno attivato la procedura prevista dalla piattaforma per accedere al voto, è cosa del tutto irrilevante: 3332 persone hanno approvato lo statuto1, 3868 hanno praticato l’astensione attiva o, in piccola parte, hanno votato lo statuto2, mentre 1890 aderenti a PaP non hanno attivato la procedura di voto.

Ci sarebbe di che riflettere. Invece no: tutto va bene, madama la marchesa.

Non basta avere cancellato il principio della decisione condivisa, non solo si è rifiutato il criterio della maggioranza qualificata dei due terzi, ma è passata in cavalleria persino la condizione della maggioranza semplice, quella del famigerato 50%+1.

I sostenitori dello Statuto1 hanno deciso che la minoranza assoluta basta e avanza per approvare lo Statuto, il documento fondativo del movimento, l’atto che equivale ad una costituzione, la casa comune di tutti e che, invece, di tutti non sarà più per scelta deliberata.

La verità, elementare per chiunque mastichi nozioni elementari di democrazia, è che quello statuto non è stato approvato.

E allora, perché questa proterva volontà di rottura, compiuta freddamente e con metodo?

Ho sentito dire: “perché bisogna garantire la governabilità”, e ancora, “perché serve rapidità di decisione”, affermazioni che hanno un suono sinistro, in quanto replicano, pari pari, gli argomenti che usò Renzi quando tentò di strappare la Costituzione.
Con la differenza che lui non poté pretendere di avere vinto con il 40 per cento dei voti.

E allora, perché si è esercitata una forzatura così violenta sul neonato corpo di PaP?

La ragione è di una inquietante semplicità: attraverso lo statuto si è voluto tracciare una netta linea di demarcazione fra i soggetti che hanno titolo di fare parte di Pap, e quanti possono restare, ma solo in una posizione gregaria e subalterna.

L’idea di un grande progetto sociale e politico di inclusione, per formare una soggettività antiliberista e anticapitalista, aperta e plurale deve escludere Rifondazione perché indiziata di collusione con il nemico.

Che Rifondazione abbia compiuto una radicale, definitiva e non negoziabile scelta di campo non ha importanza. Che essa abbia dato un impulso determinante alla formazione e alla proiezione nazionale di PaP neppure.
Come non conta che ben prima del naufragio del Brancaccio, e a maggior ragione dopo, fosse emerso limpidamente che non vi è per il Prc alcuna disponibilità a cadere nella trappola di accrocchi politicistici con i rottami in libera uscita del centrosinistra.

E allora? Il fatto è che una parte di PaP persegue l’obiettivo di un’autosufficienza autistica, per cui chiunque esiste, si muove, lotta fuori da esso un po’ di rogna se la porta comunque addosso.

Così si comportavano i gruppetti marx-leninisti degli anni Settanta nella loro fase crepuscolare. E si sa come è finita.

In queste settimane Rifondazione è stata sottoposta ad una sorta di ordalia, condita con una raffica di insulti  a palle incatenate sui quali preferisco sorvolare.
Atti che però lasciano il segno in un corpo vivo che fa della militanza disinteressata la cifra del proprio impegno politico.

Difficile anche solo capire la pulsione autolesionista di chi ha portato sino in fondo una lacerazione che non può portare a nessuno, si badi: a nessuno, alcunché di buono.
Per questo sbaglia alla grande chi in queste ore festeggia la rottura, ritenendo che sbarazzatosi di Rifondazione con una rasoiata, ciò che resta di Pap potrà librarsi nel cielo depurato da scorie e tossine, forte di un piccolo nucleo che in plancia di comando tiene saldamente il timone nelle proprie mani, riservandosi di tracciare la rotta durante la navigazione.

E ora?
Certo, la delusione è forte. Ed è tanto più grande quanto lo è stato l’investimento su questo progetto di unità. Capisco lo sconforto di tanti e di tante che hanno creduto che si stesse aprendo una nuova pagina.

Ma una cosa è certa. Chi ha sostenuto che non si dovesse andare ad una conta fratricida, chi ancora si riconosce nel Manifesto costitutivo di PaP, chi in tutti questi mesi ha lavorato per costruire la trama di un rapporto unitario capace di mettere in comunicazione tante persone, alimentando la speranza di un cambiamento vero, non abbandonerà il campo.
Quell’esperienza, nelle forme possibili, continuerà. Non “resteremo sui colpi”.
La deriva reazionaria che sta ingoiando il Paese impone ad ognuno/a di noi di aprire cento fronti di lotta e di resistenza attiva. Lo faremo con la generosità e con lo spirito unitario di sempre.

lunedì 9 aprile 2018

Intervento alla Direzione del Prc, 8 aprile 2018



Il segnale inequivocabile che va mandato a tutto il partito e a chi, all’esterno di esso, è sommamente interessato a capire come il Prc intende muoversi dopo le elezioni è che la scommessa sulla scelta di campo compiuta con Potere al Popolo non è il frutto di un’escogitazione elettoralistica (come altre ve ne sono state nel corso di questi anni), ma rappresenta una scelta di campo definitiva e l’investimento su un sistema di alleanze sociali e politiche che non cambia ad ogni stormir di foglia e che è nato per durare.

L’edificio in formazione è tuttavia ancora fragile e incompiuto, nel suo progetto politico, nella sua strutturazione organizzativa e nelle regole che ne devono plasmare il funzionamento democratico, salvaguardando i caratteri che lo rendono un fatto del tutto nuovo e contrapposto, per metodo e contenuti, a tutte le forze che si muovono nell’universo politico italiano.

Allora, con tutto lo schematismo imposto dai tempi brevi assegnati agli interventi, vorrei insistere su alcuni aspetti di preminente rilevanza in una fase in cui la confusione potrebbe portare ad esiti letali.

1.
Potere al popolo non è, non può e non deve trasformarsi in un partito, che è costruzione complessa, che non si improvvisa nell’urgenza di una competizione elettorale, che ha alla sua base una cultura condivisa, un’intelaiatura teorica, una pratica politica e sociale lungamente sperimentate. Tutto ciò non esiste, né potrebbe esistere a soli quattro mesi dalla nascita dell’eterogenea coalizione, la quale ha accettato la sfida del voto in un quadro generale che rendeva l’impresa a dire poco ardua.

Ma c’è un motivo più di fondo che dovrebbe scoraggiare ogni scorciatoia: un partito è per definizione, direi ontologicamente, in competizione con tutti gli altri partiti.
Un partito è un’associazione che guarda al tutto dal punto di vista di una parte. Se Potere al Popolo divenisse un partito dovrebbe a fortiori esigere lo scioglimento di tutte le altre organizzazioni politiche che in esso hanno deciso di confluire in ragione di un progetto condiviso, ma non esaurendo in esso tutta quanta la propria ragion d’essere. Non si può, dunque, aderire contemporaneamente a due partiti senza scatenare un cortocircuito, mentre si possono (e si devono) creare forme originali di organizzazione capaci di connettere fra loro progetti, pratiche sociali, ibridazioni culturali dalle quali tutti hanno qualcosa da imparare. Insomma un movimento in divenire.
Se dovesse invece prevalere la reductio ad unum, Potere al Popolo si trasformerebbe in una piccola setta, condannata ad escludere, piuttosto che ad includere.
Quel prezioso 1% conquistato nel marzo scorso non rappresenterebbe il primo mattone di una nuova storia, ma l’ennesimo colpo sparato a salve da un radicalismo politico rassegnato a coltivare solitarie certezze, ma incapace di parlare al di fuori della ristretta cerchia dei suoi adepti.

2.
Cos’è oggi Potere al Popolo? Potere al Popolo non è nella fase attuale neppure un movimento. Esso è una federazione di soggetti organizzati e di persone che hanno dato vita ad una coalizione elettorale fondata su un programma politico ispirato ad una radicale interpretazione ed attuazione delle parti socialmente e politicamente più avanzate della Costituzione repubblicana, cosa tutt’altro che trascurabile, se si pensa che sino a poco tempo fa erano in molti, nell’arcipelago della sinistra, a ritenere che la Carta non fosse altro che un mediocre compromesso borghese.
Ma da qui alla costruzione di un movimento passa molta acqua.
Allora cosa si può realisticamente fare? Cosa può diventare Potere al Popolo senza produrre accelerazioni divisive?
Credo che ciò che deve essere fatto consista nel mettere a fattor comune tutto ciò che è possibile.
Tutto ciò che ci unisce e che può crescere attraverso la promozione del conflitto, la discussione e l’approfondimento collettivo deve poi presentarsi nello spazio pubblico come Potere al Popolo.
Sul patrimonio politico comune, tutti (singoli e forze organizzate) eserciteranno una volontaria cessione di sovranità.

3.
Bisogna urgentemente dotarsi di una struttura organizzativa democratica e funzionante - senza provocare a nessuno secrezioni gastriche –, un’intelaiatura retta su tre gambe: forze politiche, movimenti sociali e singole persone, ciascuno di pari peso e dignità.
Le decisioni politiche – a meno di una specifica cessione di sovranità su questa o quella questione – non devono essere assunte a maggioranza, ma devono essere affrontate e risolte con il metodo della condivisione.
Si tratta di qualcosa di molto diverso dal banale diritto di veto; si tratta dell’impegno all’approfondimento e alla ricerca reale di sintesi superiori. Di fronte ad argomenti rilevanti si possono prevedere anche a consultazioni generali degli associati su punti dirimenti: non per tagliare la testa al toro, ma per fornire ulteriori elementi di valutazione che possano aiutare lo sforzo di sintesi. Se le divergenze persistono si continuerà a discutere, mentre ogni soggetto organizzato manterrà ed eserciterà su tali questioni la propria sovranità.
Importante è però l’atteggiamento che ciascuno assumerà nella discussione. Dovranno essere scansate come la peste propensioni che ancora qui e là affiorano a tagliare con l’accetta i nodi critici, a scagliare anatemi contro persone o punti di vista diversi dai propri.  
C’è chi continua a pensare che nella coalizione c’è chi è più Potere al Popolo di altri, ai quali viene ritagliato il ruolo di ospiti sgraditi. Ma attenzione, perché quando all’inclusività si sostituisce l’espulsività, quando prevalgono queste logiche divisive, gli epuratori di oggi diventano gli epurati di domani, secondo la più inveterata tradizione del settarismo gruppettaro.
Dunque deve chiudersi definitivamente la stagione in cui proliferano guru, sacerdoti, sacerdotesse, garanti, custodi del Verbo che amministrano in proprio il culto dell’ortodossia.
Queste “attenzioni” sono spesso rivolte nei confronti di Rifondazione, ma varrà la pena di ricordare a costoro che il Prc ha dato un contributo decisivo a “nazionalizzare” Pap, senza la qual cosa esso non sarebbe uscito da una dimensione meramente regionale o poco più.

4.
L’autonomia e il consolidamento di Potere al Popolo è importante anche per evitare che alle elezioni Europee del prossimo anno si torni a dividersi fra seguaci della cordata De Magistris-Varoufakis-Benoit Hamon, piuttosto che Melanchon o, addirittura, si rispolveri Tsipras e Syriza.

5.
Compiere un passo avanti comporta che si abbia la capacità di riaprire la discussione su questioni di portata strategica sin qui eluse o chiuse in formulette che possono andare bene in una campagna elettorale ma mantengono tutto il carico di ambiguità (come il tema Europa-euro, rimasto in una sorta di limbo); o che rappresentano due diverse strategie (piena occupazione vs reddito di cittadinanza, o come altro lo si voglia definire) fatte convivere nel programma per giustapposizione.

6.
Cosa sta succedendo nel corpo di Rifondazione? Molta confusione ma, soprattutto, emergono due posizioni:
a)  un eccesso, diciamo così, di “trasporto” per Potere al Popolo che sconfina nella convinzione che le energie vanno spese lì e il partito non c’entra più;
b)  la difesa ad oltranza del partito, di cui si teme lo scioglimento, quindi la sua difesa ad oltranza e la diffidenza nel progetto di Potere al Popolo.
Queste due posizioni, entrambe vittime di schematismo, debolezza teorica e primitivismo politico, hanno in comune la stessa radice: il partito fa così poco che: o lo si vuole trascendere in qualcosa d’altro che si crede la risposta più efficace ad una crisi ritenuta irreversibile, o lo si difende con un atteggiamento debolmente ideologico, quasi feticistico.
Ciò che entrambe le posizioni non comprendono è cosa il partito ci stia a fare. Non lo capiscono perché, per così dire, il muscolo è atrofizzato e l’iniziativa politica effettivamente ristagna, insieme alla povertà culturale e teorica dei suoi gruppi dirigenti che invecchiano inesorabilmente senza ricambio generazionale.
E non ce la si cava dicendo semplicemente che compito del partito è quello di organizzare la lotta di classe.
Bisogna andare più in profondità e dire cosa serve per assolvere a questo compito: stare nei conflitti sociali per unificarne il senso politico generale e trasformare l’embrionale coscienza di classe in matura coscienza politica di classe, formare quadri culturalmente attrezzati a questo compito di direzione, affinare la capacità di lettura dei processi sociali e politici ed elaborare una strategia di medio e lungo periodo, ricostruire il senso dell’identità comunista attraverso lo studio della Storia e attraverso una rinnovata conoscenza e utilizzazione del pensiero di Marx.
Questo lo può fare solo un partito comunista, come diciamo di voler essere, un partito capace di iniziativa e, contemporaneamente, rinnovato e rafforzato nel suo bagaglio teorico, capace di parlare a tutte le generazioni e a tutto il mondo dei subalterni; un partito che supera il carattere evanescente di una struttura lasca per riguadagnare una solida cultura dell’organizzazione.
Più sapremo innovare il partito in questa direzione e meglio garantiremo le stesse potenzialità di potere al Popolo.

7.
Infine, l’imminente consultazione amministrativa.
Dobbiamo evitare messaggi contraddittori, che ingenerino il sospetto che attraverso le elezioni comunali si faccia surrettiziamente rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta e insinuare l’idea che consideriamo l’esperienza di Potere al Popolo senza futuro.
Dunque l’indicazione dev’essere che ovunque possibile, ovunque ve ne siano le condizioni, si presenteranno liste di potere al Popolo.
Può darsi che non ovunque questo sia possibile o che, per storia e rapporti politici con forze, associazioni e movimenti che si muovono nel campo dell’antiliberismo ma che non hanno aderito a PaP, sia più utile costruire coalizioni più forti ed inclusive ma con altre sigle.
In questi casi bisogna però essere attenti e rigorosi. Una cosa non si può fare: resuscitare su scala territoriale sodalizi farlocchi con forze colluse col fronte liberal-liberista del quale ci siamo definitivamente sbarazzati.

lunedì 19 marzo 2018

Ecco perché Potere al Popolo proseguirà il suo cammino



Ora che dalle urne è uscito il verdetto elettorale, le frottole della propaganda inoculata nel corpo elettorale per intercettare illusioni e facili consensi si sciolgono come neve al sole e si squaderna la miseria truffaldina di tutte le forze politiche che hanno guadagnato l’ingresso nel Parlamento della Repubblica.

Sotto i nostri occhi c’è lo spettacolo vergognoso della più spregiudicata ricerca di alleanze per la formazione del governo del paese, una ricerca che non ha più niente a che vedere con i programmi politici esibiti dai partiti durante la campagna elettorale.

Su tutto fanno premio l’aritmetica, le acrobazie politiciste, sicché in questo mondo degenerato e incartapecorito tutto diventa possibile: un centrodestra con Salvini premier che con i soldi di Berlusconi acquista sul campo frotte di parlamentari in vendita; oppure uno spettacolare incontro M5S-Lega; ma anche un sostegno esterno del Pd a governi di centrodestra o a guida pentastellata; oppure, perché no, una “grande coalizione” che intruppa tutta la compagnia a sostegno di un governo “tecnico” sotto l’egida istituzionale del Presidente della Repubblica.

Questa possibile scomposizione e ricomposizione dell’universo partitico italiano come in un gioco caleidoscopico in cui i presunti opposti si dividono e si riconciliano senza fare una piega, racconta una cosa molto semplice e non meno drammatica della situazione del nostro Paese: tutte le forze in campo hanno in comune l’approdo alla cultura liberista e l'ossessione per il potere, perché questo è il vero collante che le tiene insieme.

Nessuna di esse ritiene, neppure lontanamente, che i rapporti sociali esistenti debbano essere messi radicalmente in discussione; nessuna di esse immagina che il rapporto di capitale abbia delle alternative; nessuna di esse pensa che non vi sia libertà senza vera uguaglianza e che l’iniziativa dell’impresa privata debba essere subordinata all’interesse sociale e non possa avere titolo di esistere se viola la sicurezza, la libertà, la dignità umana.

Poi, in quel caravanserraglio si trovano differenze, fra forze apertamente reazionarie ed altre più moderate, ma i loro confini si confondono, i loro programmi si stemperano e si intrecciano ma, soprattutto, l’ordine costituito non è mai messo in discussione.

Ciò che spiega la ragione per cui il gotha finanz-capitalistico europeo e nostrano digerisce disinvoltamente queste fibrillazioni della sovrastruttura politica: lor signori, i padroni, sanno perfettamente che da lì non può venire nulla che comprometta o soltanto incrini gli assetti di potere reali, la governance dei processi economici, i rapporti fra le classi, la modalità di produzione e distribuzione della ricchezza.

Lavorando controcorrente e fra grandi difficoltà, noi stiamo provando a mettere i primi mattoni di un’altra possibile storia.
Per questo Potere al Popolo non si farà intimidire e continuerà il suo cammino.

lunedì 12 marzo 2018

Cpn 10-11 marzo 2018-03-06 (intervento di Dino Greco)



 Nei commenti post-elettorali continuano a godere di credibilità – spacciate dal mainstream - alcune narrazioni “farlocche”, veri e propri luoghi comuni che rovesciano la realtà delle cose.

Prima narrazione:il M5S è un movimento antisistema”. La critica alla casta e un sovrabbondante uso retorico della polemica contro l’establishment rivelerebbero il tratto “eversivo” del M5S.

In realtà: non vi è nel M5S nulla di più compatibile col sistema; Il M5S non è che una variabile “del” e “nel” sistema.

Di fronte alla crisi del Pd stiamo assistendo alla rapida riconversione delle classi dominanti, proteiformi per definizione (mondo della finanza, Confindustria, Marchionne, componenti della borghesia) si sono subito affrettati a chiarire che non temono per nulla il movimento.
Direi che siamo in presenza dell’ennesimo episodio di rivoluzione passiva, in un quadro di crisi generale dell’egemonia delle classi dominanti che non incontra una risposta credibile a sinistra.

Seconda narrazione:non esiste un pericolo fascista”; lo proverebbe lo scarso seguito di CPI e FN (che comunque hanno ottenuto voti non trascurabili, ai quali vanno sommati quelli di Fratelli d’Italia).

Questa tesi contiene una frettolosa o, piuttosto, interessata omissione. Il fascismo, nella sua essenza, è stato metabolizzato da tempo dal sistema politico, dalla rete istituzionale e da parte consistente dell’arco parlamentare, ma non più costituzionale.

Oggi la Lega (non più Nord) di Salvini è un partito reazionario di massa che ha incorporato uno dei tratti identitari del fascismo: il razzismo,  rivendicato, teorizzato, praticato senza più scrupoli di dissimulazione;

Terza narrazione: “la Sinistra (identificata con il Pd, ndr) ha conosciuto la più grande disfatta della sua storia repubblicana”.
Qui c’è ben altro che uno slittamento semantico(!!!).  C’è l’equivoco drammatico che ignora la mutazione genetica intervenuta da molti anni nel Pd, ormai approdato sulle sponde del liberismo e fautore di una politica di destra, del tutto estranea ai princìpi e al progetto di società delineato nella Costituzione repubblicana.
La sinistra era già morta da tempo, ben prima che l’esito elettorale ne certificasse il decesso.

Lo stesso fallimento di LeU manda a dire che la sua adiacenza al Pd è stata chiaramente individuata come parte del problema e non della soluzione.
Provo personalmente un senso di pena per quei compagni di base che non passa giorno senza che esternino nostalgia per il vecchio Pci e che hanno finito per affidarsi proprio a coloro che il Pci lo hanno sciolto; nel fallimento c’è la nitida percezione che quella di Leu è un’operazione tutta interna al centrosinistra e alle sue logiche. La sconfitta di quel disegno è un elemento di chiarezza che può aiutare a porre su basi non equivoche la rinascita di un’alternativa di sistema e non la ricerca di palliativi omeopatici.

In questo scenario, il tema che si è posto era ed è: come costruire anche in Italia una coalizione di impronta antiliberista e anticapitalista, una sinistra di classe cancellata nella realtà dei rapporti sociali e nell’immaginario popolare.

In questo quadro si colloca la neonata coalizione di Potere al popolo e la riflessione sul pur modestissimo risultato elettorale conseguito.

Sento molta delusione in giro, ma domando: si poteva ragionevolmente (non scambiando i propri desideri per la realtà) pensare ad un esito diverso, per una coalizione nata alla vigilia del voto che 75 giorni prima non esisteva?; di fronte ad un oscuramento mediatico così scientificamente attuato che due terzi del corpo elettorale non è neppure riuscito a captarne l’esistenza, mentre altri hanno immaginato di trovarsi di fronte all’ennesima acrobazia elettoralistica di cui era difficile fidarsi?
Tutto si è retto sulla pura passione militante, senza il becco di un quattrino.
Bisogna guardarsi dagli “entusiasti” di ieri e depressi di oggi, portatori insani di frustrazioni, perché costoro si abbattono con la stessa velocità con cui si esaltano: pensano che il pensiero “magico” possa sostituirsi alla fatica del lavoro sociale e politico quotidiano, che basta una proposta innovativa per rimontare decenni di egemonia delle classi dominanti e riscuotere una pioggia di consensi.

Quella che ci aspetta è una traversata nel deserto, ma la direzione di marcia – con tutte le fragilità, le contraddizioni, i primitivismi presenti – è quella giusta.
Ci vorrà del tempo, ma su quel chiodo bisogna continuare a battere.

Dobbiamo tuttavia porci qualche seria domanda che riguarda Rifondazione.
Cosa ha conferito (elettoralmente) a Pap? Quanto c’è di nostro in quell’1 virgola per cento?
Il fatto è che la forza elettorale di R. non va molto oltre il suo corpo militante (da 1 a 10? A 20? a 30?);
Un corpo militante generoso, anche coeso, ma solo per un riflesso ideologico, più che per una sua matura identità politica, in realtà fragile nella formazione teorica media dei suoi quadri, di cui gran parte del gruppo dirigente continua a fare disinvoltamente a meno.
E sostanzialmente lontano da quello che continua a rivendicare come il proprio naturale insediamento sociale: i lavoratori.
Alla domanda: “Dove sono i nostri?” dobbiamo onestamente rispondere: “Sono altrove”.
Gli operai, i pensionati, i diseredati senza lavoro né reddito si sono divisi fra M5S e Lega.

Non deve neppure sorprendere che una parte dei nostri compagni abbia votato direttamente per il M5S: alcuni illusi che lì il coefficiente di sinistra sia elevato; altri persuasi che quello sia il solo modo, o per lo meno il più rapido ed efficace, per fare saltare il banco e muovere le acque stagnanti della politica italiana.

A urne chiuse, il conto di una inadeguata elaborazione e di una fragile proposta politica ci presenta il conto.

Dobbiamo prendere per le corna temi politici di cruciale importanza strategica che il nostro congresso –imbastarditosi nell’ennesima disfida sul posizionamento interno – non ha saputo affrontare.

Primo: l’analisi della Formazione economico-sociale capitalistica europea e della natura della sua architettura monetarista, la concreta strategia utile a metterne in mora i trattati e la necessità di venire a capo della confusione che ha libero corso nelle nostre file, che fa coincidere sovranità popolare con sovranismo, patriottismo costituzionale con nazionalismo, o che usa sommariamente l’aggettivo “populista” per designare il popolo “quando questo comincia a sfuggirle”.

Per usare le parole di Je so pazzo, “ la scelta della parola ‘popolo’ non risponde solo ad esigenze comunicative, ma alla necessità di rappresentare qualcos’altro rispetto al solo proletariato, dentro un’accelerazione dei processi di ristrutturazione che comporta un rapido scivolamento verso il basso di ampi pezzi di piccola borghesia. Questa alleanza non compone un quadro statico, e quindi interclassista, bensì un quadro estremamente dinamico, all’interno del quale è forte un sentimento di opposizione alle classi e al sistema dominante, comunque ‘nominato’. (…). Marx non contrappone mai il proletariato al popolo, bensì lo pone in un rapporto dialettico, nel quale il ‘popolo’ è comunque un’alleanza tra classi  all’interno di una situazione di conflitto (…). E nella Storia i comunisti sono sempre stati estremamente flessibili nella scelta del lessico e dei simboli: popolo, operai, lavoratori, oppressi, esclusi, falce e martello, stella, stelle, ruota dentata e machete” (…), dal momento che il compito dei comunisti è quello di mettersi al servizio della classe e non a guardia delle parole”.

In altri termini: il feticismo simbolico non può surrogare i limiti della proposta politica, ma solo scavare piccole nicchie identitarie.

Secondo: la questione meridionale, stretta nella morsa sottosviluppo-disoccupazione-assenza di reddito.
Ad essa il M5S offre una risposta assistenziale. E a quell’esca avvelenata temo che anche noi rischiamo di abboccare.

Perdonate la semplificazione, ma torna qui la divaricazione fra due diverse e opposte strategie: quella che ammortizza la tensione sociale affidando alla fiscalità generale il compito di racimolare qualche risorsa per buttare un osso nel recinto dei diseredati e quella che mette a tema la piena occupazione e tutte le misure necessarie per realizzarla: un grande piano per il lavoro sostenuto da un poderoso intervento dello Stato per finanziare in deficit (dunque rompendo la catena dei trattati europei e del vincolo di bilancio) gigantesco processo di reinfrastrutturazione primaria del paese e una riduzione secca dell’orario di lavoro a parità di salario.

Non è vero che le due risposte sono complementari: esse sono due opzioni strategicamente diverse e persino opposte: l’una interna ai rapporti sociali dati e persino utile al loro mantenimento (come dimostra il relativo gradimento che essa riscuote anche a destra), l’altra volta mutare in radice i rapporti fra capitale e lavoro.

Il fatto è che non il reddito, ma il lavoro conferisce la cittadinanza, senza la qual cosa avvieremmo a rottamazione gli articoli 1, 2, 3, 4 della Costituzione, oltre che l’intero titolo III della Carta che disciplina i rapporti economico-sociali e che subordina l’iniziativa privata all’interesse sociale.

Puoi sbizzarrirti a chiamarlo in mille modi diversi (reddito di cittadinanza, di inclusione, di dignità, di esistenza, di autodeterminazione, o reddito minimo garantito e in altro modo ancora), ma la sostanza rimane la stessa: rinunci – senza ammetterlo apertamente – alla possibilità che ognuno possa essere protagonista del proprio destino.

Quella concezione è figlia della convinzione diffusa, ma per noi letale, che la realtà non si può trasformare nei suoi fondamenti e dunque non rimane che introdurre modesti accorgimenti, che non modificano la realtà dello sfruttamento. Il padrone può accettare e persino favorire che lo Stato inventi qualche congegno per fare sopravvivere i poveri, lo sapeva anche la regina Vittoria.  Ma una cosa il capitale non può fare: stravolgere la propria missione, che è quella di produrre profitto, non lavoro.
Per dirla con le parole del collettivo dell’ex Opg napoletano, straordinaria anche perché viene da un centro sociale meridionale: “Noi siamo – per usare l’espressione con cui ci criticano i nostri detrattori –rigorosamente ‘lavoristi’: riteniamo che nello sfruttamento capitalistico risiedano, contemporaneamente e in forma contraddittoria, la chiave della permanenza e quella della rovina dell’attuale sistema economico. Crediamo che la liberazione della classe lavoratrice passi per la rottura delle catene dello sfruttamento, rottura di esse, appunto, e non ‘fuga’ da esse. Finché esisterà, il capitalismo avrà sempre bisogno di operai – non c’è automazione che tenga – e finché sarà così non esiste ‘reddito’ che possa liberare la classe. A uguali condizioni produttive, ogni forma di reddito è, nella migliore delle ipotesi, una forma redistributiva del salario che non tocca i profitti; la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, invece, resta il solo strumento, per portare quote di capitale dal conto del profitto al conto del salario. Ovviamente abbiamo semplificato moltissimo, e ci perdoneranno i ‘redditisti’ per una banalizzazione che fa torto a noi e a loro, ma la sostanza è questa. La forma di compromesso trovata per il programma crediamo sia soddisfacente: il reddito è inserito quale forma di welfare – avremmo qualcosa da dire anche su questo, ma ci asteniamo – mentre l’asse del programma è tutto incentrato sul lavoro”.
Difficile dire meglio!

Terzo: la questione sindacale, di cui dobbiamo per forza tornare ad occuparci, recuperando un grave ritardo.
Con l’accordo interconfederale appena siglato fra Confederazioni e Confindustria si sono toccati livelli di “analfa-ebetizzazione” senza precedenti nella storia del sindacato in epoca repubblicana.

Per rimontare la china si impone una ricognizione della frammentazione/scomposizione di classe per ristrutturare un discorso politico sul lavoro e sulla contrattazione, fuori dalle infatuazioni negriane.

Questo è tanto più necessario in quanto la forma dello sfruttamento (fino al lavoro gratuito) ha assunto la caratteristica dell’estrazione di plusvalore assoluto, vale a dire che tutta la ricchezza prodotta dal lavoro sociale viene incamerata dal padrone.

La borghesia italiana ha perso – se mai ha avuto – qualsiasi connotazione liberale e ha resuscitato le pulsioni più reazionarie che precipitano immediatamente nel gioco politico.
Per questo ogni ipotesi riformista è destinata a naufragare, non prima di avere prodotto danni irreparabili nel corpo sociale.

Mi pare che la coalizione avviata con la costituzione di Pap ha conquistato lucidamente questa consapevolezza.

Poi, molto va precisato, approfondito, organizzato, democratizzato nella crescita del comune percorso, attraverso un processo di reciproca “ibridazione”, non di annullamento, dei soggetti che vi hanno preso parte. Dunque senza cedere alla tentazione di riprodurre vecchi vizi gregari, o ipotesi di scioglimento che ogni tanto riaffiorano, come se l’angoscia di morte ci prendesse fino a desiderare di collocare Rifondazione da qualche parte per scansare il rischio di vedersela morire fra le braccia.

martedì 16 gennaio 2018

La razza degli imbecilli



 Negli ultimi secoli, ma soprattutto nel XX secolo, si è tentato più volte, sebbene con scarso successo, di conferire dignità scientifica all’esistenza delle razze e, al loro interno, di una gerarchia che ne colloca alcune al di sopra di altre, o di tutte le altre.
Oggi, malgrado gli esiti storicamente devastanti di quelle teorie, ci si riprova.
L’idea secondo cui una parte dell’umanità possiede uno status spirituale e morale privilegiato ha i suoi sostenitori in coloro che sono convinti che Adamo ed Eva, progenitori dell’intera umanità, furono creati da Dio con la pelle bianca.
In definitiva, i bianchi sarebbero superiori agli altri per decisione originaria di Dio.
Gli altri popoli, e in particolare quelli dal pigmento nero, sarebbero il frutto di una degenerazione dal ceppo originario.
Ma è stata proprio una scienza, la genetica, a risolvere, decisamente e definitivamente, il problema filosofico, sociale e politico del concetto di altro inteso come “diverso da noi”.
Perché nell’ambito della specie homo sapiens l’altro, semplicemente, non esiste.
Esiste soltanto nelle farneticazioni persecutorie che sono servite ad appiccicare ad altri popoli lo stigma di “non umano”, a giustificarne l’emarginazione, l’oppressione e, infine, lo sterminio.
Così l’invenzione delle razze è stata all’origine dei peggiori misfatti che l’umanità ha compiuto contro se stessa.
Possiamo dunque riassumere la questione come segue:

Esistono razze umane?
No!

Esistono “altri diversi da noi” nell’ambito della comune specie umana?
Ciascuno di noi è diverso da ogni altro, ma nessuno è “diverso da noi”, qualsiasi sia il gruppo di umani che intendiamo con “noi”.

Un bianco è diverso da un nero?
No! La massima diversità dei bianchi tra di loro e la massima diversità dei neri tra di loro è di gran lunga maggiore di quella media tra un bianco e un nero.

E se c’è una qualche differenza, dove ha origine?
Le differenze che ravvisiamo o sono irrilevanti o sono una costruzione della nostra mente, della cultura dominante, una costruzione “ideologica”. L’“altro da noi” semplicemente non esiste.
Le sole differenze che contano davvero sono quelle determinate dallo sfruttamento di classe e dall’oppressione di genere.

Oggi, in un clima di imbarbarimento culturale e sociale, ha libero corso il becero razzismo fascio-leghista che prova a spiegare la vita grama del popolo, spogliato di tutto dalla rapina perpetrata dai padroni universali e dai governi ad essi asserviti, con la presenza di coloro che stanno ancor peggio, perché costretti ad abbandonare le loro terre martoriate da spoliazioni, guerre, genocidi.

Il candidato del Centrodestra alla presidenza della Regione Lombardia, il leghista Attilio Fontana, emulo del padanesimo originario, ha rilanciato invitando ad una rivolta della “razza bianca” per la difesa della “nostra” presunta purezza identitaria a rischio di estinzione.

Non ha detto come, il rappresentante del Carroccio, ma si possono riconoscere i suoi ispiratori, da Julius Evola a Benito Mussolini.

E’ vero, non esistono le razze ma, come si può vedere, le madri degli imbecilli sono sempre gravide!