Al coordinamento nazionale di
PaP è andato in scena l’atto (annunciato) che certifica la frattura verticale
del movimento.
Coloro che hanno proposto e sostenuto
lo Statuto 1 hanno salutato con entusiastica enfasi lo “straordinario
risultato” del voto, hanno dichiarato che ora non rimane che andare dal notaio
per sostituire lo statuto ancora in vigore con quello nuovo che ritengono
approvato e del quale hanno rivendicato l’immediata
esigibilità.
Che lo lo Statuto 1 abbia
raccolto poco più di un terzo dei consensi rispetto alle oltre 9 mila persone
che hanno aderito a Pap e che tale percentuale tocchi a stento il 45% delle
7200 persone che hanno attivato la procedura prevista dalla piattaforma per
accedere al voto, è cosa del tutto irrilevante: 3332 persone hanno approvato lo
statuto1, 3868 hanno praticato l’astensione attiva o, in piccola parte, hanno
votato lo statuto2, mentre 1890 aderenti a PaP non hanno attivato la procedura
di voto.
Ci sarebbe di che riflettere.
Invece no: tutto va bene, madama la marchesa.
Non basta avere cancellato il
principio della decisione condivisa, non solo si è rifiutato il criterio della
maggioranza qualificata dei due terzi, ma è passata in cavalleria persino la
condizione della maggioranza semplice, quella del famigerato 50%+1.
I sostenitori dello Statuto1
hanno deciso che la minoranza assoluta basta e avanza per approvare lo Statuto,
il documento fondativo del movimento, l’atto che equivale ad una costituzione,
la casa comune di tutti e che, invece, di tutti non sarà più per scelta
deliberata.
La verità, elementare per
chiunque mastichi nozioni elementari di democrazia, è che quello statuto non è
stato approvato.
E allora, perché questa
proterva volontà di rottura, compiuta freddamente e con metodo?
Ho sentito dire: “perché
bisogna garantire la governabilità”, e ancora, “perché serve rapidità di
decisione”, affermazioni che hanno un suono sinistro, in quanto replicano, pari
pari, gli argomenti che usò Renzi quando tentò di strappare la Costituzione.
Con la differenza che lui non
poté pretendere di avere vinto con il 40 per cento dei voti.
E allora, perché si è esercitata
una forzatura così violenta sul neonato corpo di PaP?
La ragione è di una
inquietante semplicità: attraverso lo statuto si è voluto tracciare una netta
linea di demarcazione fra i soggetti che hanno titolo di fare parte di Pap, e
quanti possono restare, ma solo in una posizione gregaria e subalterna.
L’idea di un grande progetto
sociale e politico di inclusione, per formare una soggettività antiliberista e
anticapitalista, aperta e plurale deve escludere Rifondazione perché indiziata di
collusione con il nemico.
Che Rifondazione abbia
compiuto una radicale, definitiva e non negoziabile scelta di campo non ha
importanza. Che essa abbia dato un impulso determinante alla formazione e alla
proiezione nazionale di PaP neppure.
Come non conta che ben prima
del naufragio del Brancaccio, e a maggior ragione dopo, fosse emerso
limpidamente che non vi è per il Prc alcuna disponibilità a cadere nella
trappola di accrocchi politicistici con i rottami in libera uscita del
centrosinistra.
E allora? Il fatto è che una
parte di PaP persegue l’obiettivo di un’autosufficienza autistica, per cui chiunque
esiste, si muove, lotta fuori da esso un po’ di rogna se la porta comunque addosso.
Così si comportavano i
gruppetti marx-leninisti degli anni Settanta nella loro fase crepuscolare. E si
sa come è finita.
In queste settimane
Rifondazione è stata sottoposta ad una sorta di ordalia, condita con una
raffica di insulti a palle incatenate
sui quali preferisco sorvolare.
Atti che però lasciano il
segno in un corpo vivo che fa della militanza disinteressata la cifra del
proprio impegno politico.
Difficile anche solo capire la
pulsione autolesionista di chi ha portato sino in fondo una lacerazione che non
può portare a nessuno, si badi: a nessuno, alcunché di buono.
Per questo sbaglia alla
grande chi in queste ore festeggia la rottura, ritenendo che sbarazzatosi di
Rifondazione con una rasoiata, ciò che resta di Pap potrà librarsi nel cielo
depurato da scorie e tossine, forte di un piccolo nucleo che in plancia di
comando tiene saldamente il timone nelle proprie mani, riservandosi di
tracciare la rotta durante la navigazione.
E ora?
Certo, la delusione è forte.
Ed è tanto più grande quanto lo è stato l’investimento su questo progetto di
unità. Capisco lo sconforto di tanti e di tante che hanno creduto che si stesse
aprendo una nuova pagina.
Ma una cosa è certa. Chi ha
sostenuto che non si dovesse andare ad una conta fratricida, chi ancora si
riconosce nel Manifesto costitutivo di PaP, chi in tutti questi mesi ha
lavorato per costruire la trama di un rapporto unitario capace di mettere in
comunicazione tante persone, alimentando la speranza di un cambiamento vero,
non abbandonerà il campo.
Quell’esperienza, nelle forme
possibili, continuerà. Non “resteremo sui colpi”.
La deriva reazionaria che sta
ingoiando il Paese impone ad ognuno/a di noi di aprire cento fronti di lotta e
di resistenza attiva. Lo faremo con la generosità e con lo spirito unitario di
sempre.
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