Il segnale inequivocabile che
va mandato a tutto il partito e a chi, all’esterno di esso, è sommamente
interessato a capire come il Prc intende muoversi dopo le elezioni è che la
scommessa sulla scelta di campo compiuta con Potere al Popolo non è il frutto
di un’escogitazione elettoralistica (come altre ve ne sono state nel corso di
questi anni), ma rappresenta una scelta di campo definitiva e l’investimento su
un sistema di alleanze sociali e politiche che non cambia ad ogni stormir di
foglia e che è nato per durare.
L’edificio in formazione è
tuttavia ancora fragile e incompiuto, nel suo progetto politico, nella sua
strutturazione organizzativa e nelle regole che ne devono plasmare il funzionamento
democratico, salvaguardando i caratteri che lo rendono un fatto del tutto nuovo
e contrapposto, per metodo e contenuti, a tutte le forze che si muovono
nell’universo politico italiano.
Allora, con tutto lo
schematismo imposto dai tempi brevi assegnati agli interventi, vorrei insistere
su alcuni aspetti di preminente rilevanza in una fase in cui la confusione
potrebbe portare ad esiti letali.
1.
Potere al popolo non è, non
può e non deve trasformarsi in un partito, che è costruzione complessa, che non
si improvvisa nell’urgenza di una competizione elettorale, che ha alla sua base
una cultura condivisa, un’intelaiatura teorica, una pratica politica e sociale
lungamente sperimentate. Tutto ciò non esiste, né potrebbe esistere a soli quattro
mesi dalla nascita dell’eterogenea coalizione, la quale ha accettato la sfida
del voto in un quadro generale che rendeva l’impresa a dire poco ardua.
Ma c’è un motivo più di fondo
che dovrebbe scoraggiare ogni scorciatoia: un partito è per definizione, direi
ontologicamente, in competizione con tutti gli altri partiti.
Un partito è un’associazione
che guarda al tutto dal punto di vista di una parte. Se Potere al Popolo
divenisse un partito dovrebbe a fortiori esigere
lo scioglimento di tutte le altre organizzazioni politiche che in esso hanno
deciso di confluire in ragione di un progetto condiviso, ma non esaurendo in
esso tutta quanta la propria ragion d’essere. Non si può, dunque, aderire
contemporaneamente a due partiti senza scatenare un cortocircuito, mentre si possono
(e si devono) creare forme originali di organizzazione capaci di connettere fra
loro progetti, pratiche sociali, ibridazioni culturali dalle quali tutti hanno
qualcosa da imparare. Insomma un movimento in divenire.
Se dovesse invece prevalere
la reductio ad unum, Potere al Popolo
si trasformerebbe in una piccola setta, condannata ad escludere, piuttosto che
ad includere.
Quel prezioso 1% conquistato
nel marzo scorso non rappresenterebbe il primo mattone di una nuova storia, ma
l’ennesimo colpo sparato a salve da un radicalismo politico rassegnato a
coltivare solitarie certezze, ma incapace di parlare al di fuori della
ristretta cerchia dei suoi adepti.
2.
Cos’è oggi Potere al Popolo?
Potere al Popolo non è nella fase attuale neppure un movimento. Esso è una
federazione di soggetti organizzati e di persone che hanno dato vita ad una
coalizione elettorale fondata su un programma politico ispirato ad una radicale
interpretazione ed attuazione delle parti socialmente e politicamente più
avanzate della Costituzione repubblicana, cosa tutt’altro che trascurabile, se
si pensa che sino a poco tempo fa erano in molti, nell’arcipelago della
sinistra, a ritenere che la Carta non fosse altro che un mediocre compromesso
borghese.
Ma da qui alla costruzione di
un movimento passa molta acqua.
Allora cosa si può
realisticamente fare? Cosa può diventare Potere al Popolo senza produrre
accelerazioni divisive?
Credo che ciò che deve essere
fatto consista nel mettere a fattor comune tutto ciò che è possibile.
Tutto ciò che ci unisce e che
può crescere attraverso la promozione del conflitto, la discussione e
l’approfondimento collettivo deve poi presentarsi nello spazio pubblico come
Potere al Popolo.
Sul patrimonio politico
comune, tutti (singoli e forze organizzate) eserciteranno una volontaria cessione
di sovranità.
3.
Bisogna urgentemente dotarsi
di una struttura organizzativa democratica e funzionante - senza provocare a nessuno
secrezioni gastriche –, un’intelaiatura retta su tre gambe: forze politiche,
movimenti sociali e singole persone, ciascuno di pari peso e dignità.
Le decisioni politiche – a
meno di una specifica cessione di sovranità su questa o quella questione – non
devono essere assunte a maggioranza, ma devono essere affrontate e risolte con
il metodo della condivisione.
Si tratta di qualcosa di
molto diverso dal banale diritto di veto; si tratta dell’impegno
all’approfondimento e alla ricerca reale di sintesi superiori. Di fronte ad
argomenti rilevanti si possono prevedere anche a consultazioni generali degli associati
su punti dirimenti: non per tagliare la testa al toro, ma per fornire ulteriori
elementi di valutazione che possano aiutare lo sforzo di sintesi. Se le
divergenze persistono si continuerà a discutere, mentre ogni soggetto
organizzato manterrà ed eserciterà su tali questioni la propria sovranità.
Importante è però
l’atteggiamento che ciascuno assumerà nella discussione. Dovranno essere
scansate come la peste propensioni che ancora qui e là affiorano a tagliare con
l’accetta i nodi critici, a scagliare anatemi contro persone o punti di vista
diversi dai propri.
C’è chi continua a pensare
che nella coalizione c’è chi è più Potere al Popolo di altri, ai quali viene
ritagliato il ruolo di ospiti sgraditi. Ma attenzione, perché quando all’inclusività
si sostituisce l’espulsività, quando prevalgono queste logiche divisive, gli
epuratori di oggi diventano gli epurati di domani, secondo la più inveterata
tradizione del settarismo gruppettaro.
Dunque deve chiudersi
definitivamente la stagione in cui proliferano guru, sacerdoti, sacerdotesse,
garanti, custodi del Verbo che amministrano in proprio il culto
dell’ortodossia.
Queste “attenzioni” sono
spesso rivolte nei confronti di Rifondazione, ma varrà la pena di ricordare a
costoro che il Prc ha dato un contributo decisivo a “nazionalizzare” Pap, senza
la qual cosa esso non sarebbe uscito da una dimensione meramente regionale o
poco più.
4.
L’autonomia e il
consolidamento di Potere al Popolo è importante anche per evitare che alle
elezioni Europee del prossimo anno si torni a dividersi fra seguaci della cordata
De Magistris-Varoufakis-Benoit Hamon, piuttosto che Melanchon o, addirittura,
si rispolveri Tsipras e Syriza.
5.
Compiere un passo avanti
comporta che si abbia la capacità di riaprire la discussione su questioni di
portata strategica sin qui eluse o chiuse in formulette che possono andare bene
in una campagna elettorale ma mantengono tutto il carico di ambiguità (come il
tema Europa-euro, rimasto in una sorta di limbo); o che rappresentano due
diverse strategie (piena occupazione vs reddito di cittadinanza, o come altro
lo si voglia definire) fatte convivere nel programma per giustapposizione.
6.
Cosa sta succedendo nel corpo
di Rifondazione? Molta confusione ma, soprattutto, emergono due posizioni:
a) un eccesso, diciamo così, di “trasporto” per Potere al
Popolo che sconfina nella convinzione che le energie vanno spese lì e il
partito non c’entra più;
b) la difesa ad oltranza del partito, di cui si teme lo
scioglimento, quindi la sua difesa ad oltranza e la diffidenza nel progetto di
Potere al Popolo.
Queste due posizioni,
entrambe vittime di schematismo, debolezza teorica e primitivismo politico,
hanno in comune la stessa radice: il partito fa così poco che: o lo si vuole
trascendere in qualcosa d’altro che si crede la risposta più efficace ad una
crisi ritenuta irreversibile, o lo si difende con un atteggiamento debolmente
ideologico, quasi feticistico.
Ciò che entrambe le posizioni
non comprendono è cosa il partito ci stia a fare. Non lo capiscono perché, per
così dire, il muscolo è atrofizzato e l’iniziativa politica effettivamente
ristagna, insieme alla povertà culturale e teorica dei suoi gruppi dirigenti
che invecchiano inesorabilmente senza ricambio generazionale.
E non ce la si cava dicendo
semplicemente che compito del partito è quello di organizzare la lotta di
classe.
Bisogna andare più in profondità
e dire cosa serve per assolvere a questo compito: stare nei conflitti sociali
per unificarne il senso politico generale e trasformare l’embrionale coscienza
di classe in matura coscienza politica di classe, formare quadri culturalmente attrezzati
a questo compito di direzione, affinare la capacità di lettura dei processi
sociali e politici ed elaborare una strategia di medio e lungo periodo,
ricostruire il senso dell’identità comunista attraverso lo studio della Storia
e attraverso una rinnovata conoscenza e utilizzazione del pensiero di Marx.
Questo lo può fare solo un
partito comunista, come diciamo di voler essere, un partito capace di
iniziativa e, contemporaneamente, rinnovato e rafforzato nel suo bagaglio teorico,
capace di parlare a tutte le generazioni e a tutto il mondo dei subalterni; un
partito che supera il carattere evanescente di una struttura lasca per
riguadagnare una solida cultura dell’organizzazione.
Più sapremo innovare il
partito in questa direzione e meglio garantiremo le stesse potenzialità di
potere al Popolo.
7.
Infine, l’imminente
consultazione amministrativa.
Dobbiamo evitare messaggi
contraddittori, che ingenerino il sospetto che attraverso le elezioni comunali
si faccia surrettiziamente rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla
porta e insinuare l’idea che consideriamo l’esperienza di Potere al Popolo senza
futuro.
Dunque l’indicazione
dev’essere che ovunque possibile, ovunque ve ne siano le condizioni, si
presenteranno liste di potere al Popolo.
Può darsi che non ovunque
questo sia possibile o che, per storia e rapporti politici con forze,
associazioni e movimenti che si muovono nel campo dell’antiliberismo ma che non
hanno aderito a PaP, sia più utile costruire coalizioni più forti ed inclusive
ma con altre sigle.
In questi casi bisogna però essere
attenti e rigorosi. Una cosa non si può fare: resuscitare su scala territoriale
sodalizi farlocchi con forze colluse col fronte liberal-liberista del quale ci
siamo definitivamente sbarazzati.
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