Dopo la crisi dei missili a
Cuba nel 1962, quando si rischiò seriamente la guerra fra Stati Uniti e Unione
sovietica, la paura che l’umanità potesse essere annientata da una catastrofe
termonucleare sembrò essere tramontata per sempre. E così avvenne, per molti
anni.
Poi, dopo la caduta dell’Urss
e del socialismo realizzato vi fu tutto un fiorire di immaginifici racconti
sulla “fine della storia”, considerato che il paradigma capitalistico aveva trionfato
sul suo antagonista storico e che il mondo, secondo i mentori del capitale,
avrebbe conosciuto solo pace e prosperità.
Peccato che questo profluvio
di sciocchezze ideologiche trascurasse che il capitalismo ha sempre convissuto
con la guerra, di cui si è strategicamente nutrito per rilanciare il meccanismo
di accumulazione messo in crisi dalle proprie interne, insanabili
contraddizioni.
I decenni che abbiamo alle
spalle e il presente che stiamo vivendo ne sono una lampante dimostrazione.
Le guerre locali e regionali hanno
ormai assunto una dimensione globale, dove i conflitti, mossi da interessi
economici e geo-politici, delineano un quadro dirompente, segnato
dall’antagonismo fra imperialismi e sub-imperialismi caratterizzati dalla lotta
per il possesso e il controllo delle materie prime.
Le potenti corporations
armiere e i centri di potere ad esse legati hanno assunto ovunque un potere
esorbitante e impongono una corsa agli armamenti a cui sembra non più in grado
di contrapporsi un movimento di massa e globale per la pace che nel passato e
fino agli anni 2000 era riuscito almeno a contendere il campo alle pulsioni
guerrafondaie.
Un inquietante fatalismo,
quasi un senso di rassegnazione, di impotenza pare avere inibito ogni capacità
di mobilitazione a tutte le latitudini.
E invece nulla più della
passività può trascinare il mondo oltre l’orlo del baratro.
Ritenere che quanto sta
accadendo davanti alle coste coreane non sia che una schermaglia tattica senza
reali conseguenze e che tutto si risolverà in una pura esibizione muscolare è
un errore di incalcolabile gravità.
Gli Stati uniti, sui quali
pesa la più grande responsabilità della situazione che si è prodotta, hanno già
ampiamente dimostrato di sapere varcare la soglia di non ritorno, nella
sciagurata illusione che lo strapotere bellico di cui dispongono consentirebbe
loro di vincere contro il “ruggito del topo” del dittatore nord-coreano.
E’ in realtà del tutto
evidente che il detonatore coreano produrrebbe un’accelerazione di tutti i
conflitti aperti in ogni scacchiere, dall’Europa all’Asia, dall’Africa
all’America latina. Anche questo è già successo, e dovrebbe rammentarlo chi non
ha del tutto smarrito il ricordo di come e perché l’umanità si sia gettata in
due terrificanti conflitti mondiali.
L’Europa, e nell’Europa
l’Italia, non svolgono alcun ruolo positivo. Anzi: si armano e armano i paesi
che vogliono armarsi. Senza andare per il sottile, giacché, come si sa, il
denaro, e i profitti che ne derivano, non hanno odore.
Non è dai governi, proni alle
classi dominanti, che può venire uno scatto di resipiscenza. Può venire dai
popoli, che le costituzioni post-belliche vorrebbero sovrani, se smetteranno di
subire la protervia irresponsabile di quell’uno per cento di padroni universali
che dopo averli depredati ed espropriati ora potrebbero prendersi le loro vite.
Ricordatelo: è già successo!
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