Il referendum-day svoltosi
nelle due regioni a trazione leghista, voluto dal Carroccio per farsi
propaganda in vista delle prossime elezioni regionali e politiche, ha prodotto
due risultati opposti: nel Veneto ha vinto Zaia (58% l’affluenza al voto con un
2% di “no”), mentre in Lombardia è caduto rovinosamente Maroni (37% l’affluenza
e il 5% di “no”).
Come ognuno ha potuto vedere,
in entrambe le regioni tutte le forze politiche, di maggioranza e di
opposizione (Lega, Pd, Forza Italia, M5S, persino Fratelli d’Italia che si è
dissociata dalla posizione di Giorgia Meloni) hanno invitato i cittadini a
recarsi alle urne. Una maggioranza che faceva presagire un plebiscito, che in
realtà non si è verificato, da nessuna parte.
Ma il fatto ha una sua
rilevanza e il dividendo politico (nel Veneto) lo riscuoterà solo la Lega: agli
altri utili idioti, che erano stati nella partita per puro opportunismo, non
resterà che il ruolo delle comparse che hanno portato acqua al mulino altrui.
Ora Zaia, gonfio come un
pavone, alza il tiro e ai toni pacati della vigilia sostituisce un piglio ben
più aggressivo, avanzando pretese che vanno ben oltre la richiesta di una
maggiore autonomia in base all’articolo 116 della Costituzione, per tradursi
nella rivendicazione esplicita di trattenere in loco nove decimi delle tasse
riscosse nella “sua” regione: una tesi dirompente, questa, che fa a pugni con
il patto fiscale su cui si fonda l’unità nazionale.
Ecco dunque che il tema della
secessione, negato a parole, rientra prepotentemente in gioco, come pure la
sempre verde parola d’ordine leghista, “padroni a casa nostra”, con tutti i
risvolti antisolidaristici e xenofobi che porta con sé.
Se tutte le regioni si
incamminassero su questa strada e pretendessero di godere dei privilegi assegnati
alle regioni a statuto speciale saremmo ad un passo dalla disgregazione
nazionale, cosa negata a parole, ma abilmente praticata nei fatti.
E il fantasma di Gianfranco
Miglio tornerebbe ad aleggiare sulla penisola italica.
Quanto alla Lombardia, il
flop di Maroni è clamoroso su tutta la linea. Aveva chiesto un mandato a fare
come il suo ben più abile compare veneto e ha ricevuto un sonoro ceffone che non
gli ha impedito di millantare un mandato a procedere che il voto gli ha negato.
La sorte non ha risparmiato a
Maroni neppure un esilarante effetto comico quando, mentre il voto elettronico
andava in tilt e si rivelava clamorosamente più lento dello scrutinio cartaceo
egli ne esaltava la modernità ed annunciava una lettera a Gentiloni per
chiedere al presidente del consiglio di utilizzare la strumentazione farlocca sperimentata
in Lombardia anche per le prossime consultazioni politiche.
Cosa accadrà ora? In concreto
nulla, da un lato perché la procedura prevista per aprire il confronto con il
governo centrale prescinde del tutto dall’esito della messa in scena
referendaria, dall’altro perché la materia fiscale è prerogativa esclusiva dello
Stato.
E allora?
Solo tempo e soldi buttati e
un bel po’ di propaganda elettorale gratis per la truppa di Salvini.
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