lunedì 13 marzo 2017

Ue: una catena che va spezzata, per un’altra Europa



C’è davanti a noi un’emergenza assoluta a cui rispondere dalla sponda sinistra della politica italiana. Per non fare confusione lo dirò nel modo più esplicito: da un punto di vista di classe.
Sto parlando della crisi dei popoli europei, stritolati fra le ganasce della tenaglia dei trattati dell’Unione che i gruppi sociali dominanti fingono di fare coincidere con la stessa idea d’Europa.
Per cui se dici che i vincoli di bilancio e le politiche di austerità che ne conseguono sono un trucco per abbattere salari, welfare e diritti sociali; se dici che la sovranità popolare scritta nella Costituzione è l’esatto opposto del potere di cui si è appropriata un’oligarchia transnazionale di banchieri; se dici che ogni palliativo non è che fumo negli occhi e che quella camicia di forza va spezzata perché protrarre lo status quo significa condannarsi ad una drammatica deriva autoritaria; se dici tutto questo, che è la pura verità, ti bollano con il marchio dell’antieuropeismo, ti additano come troglodita incapace di vedere le magnifiche opportunità che l’Europa del capitale offre al progresso comune. E - soprattutto – ti spiegano che l’uscita unilaterale da questa gogna sarebbe peggio e che a pagare sarebbe proprio la parte più debole della popolazione.
Dunque – ammoniscono – state buoni perché non c’è alternativa.
Singolare che a sostenere questa tesi sia proprio la parte più forte: gli oligarchi di Bruxelles, le associazioni padronali, i grandi trust e le corporation più aggressive, vale a dire i protagonisti del più colossale arricchimento per predazione che si sia realizzato nel mondo sin dai tempi dell’accumulazione originaria. Sono loro, gli spacciatori della teoria secondo la quale “la ricchezza fa alzare tutte le barche”. Peccato che – come ricordava il compianto Luciano Gallino – la ricchezza faccia alzare soltanto gli yacht e che agli altri non resti che remare nelle galee di lor signori.
Spopola nel lessico corrente un’altra accusa con cui si vorrebbe marchiare di infamia chi si rende conto che così non si può andare avanti: è l’accusa di “populismo”.
Ma cos’è il populismo? E’ per forza il contrassegno di una deriva nazionalistica, di una chiusura nell’autarchia? Ma i populismi sono stati tanti e di ogni colore e vanno letti, prima di tutto, attraverso i contenuti della loro azione. Populisti erano anche i socialisti russi che nella seconda metà dell’Ottocento si battevano per l’abolizione della servitù della gleba; populista è stata la rivoluzione con cui Simon Bolivar ha trascinato al ricatto e all’indipendenza il suo popolo; populista è stato il movimento chavista che ha aperto, insieme a Cuba, una stagione di speranza per l’intera America latina; populista è Podemos e lo è stata Syriza nella fase più alta della propria ascesa.
Per dirla con le parole di Gustavo Zagrebelsky, “chi si dà l’aria di anti-populista molto spesso dichiara implicitamente di parlare a nome di qualche establishment, di qualche oligarchia. Il nostro riferimento fisso non può che essere la Costituzione, che non prevede affatto la liquidazione della sovranità popolare. Se questa verrà definitivamente a mancare saremo in balia dell’Europa della finanza e della burocrazia”.

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