C’è davanti a noi un’emergenza assoluta a cui
rispondere dalla sponda sinistra della politica italiana. Per non fare
confusione lo dirò nel modo più esplicito: da un punto di vista di classe.
Sto parlando della crisi dei popoli europei,
stritolati fra le ganasce della tenaglia dei trattati dell’Unione che i gruppi
sociali dominanti fingono di fare coincidere con la stessa idea d’Europa.
Per cui se dici che i vincoli di bilancio e le
politiche di austerità che ne conseguono sono un trucco per abbattere salari,
welfare e diritti sociali; se dici che la sovranità popolare scritta nella
Costituzione è l’esatto opposto del potere di cui si è appropriata un’oligarchia
transnazionale di banchieri; se dici che ogni palliativo non è che fumo negli
occhi e che quella camicia di forza va spezzata perché protrarre lo status quo
significa condannarsi ad una drammatica deriva autoritaria; se dici tutto
questo, che è la pura verità, ti bollano con il marchio dell’antieuropeismo, ti
additano come troglodita incapace di vedere le magnifiche opportunità che
l’Europa del capitale offre al progresso comune. E - soprattutto – ti spiegano
che l’uscita unilaterale da questa gogna sarebbe peggio e che a pagare sarebbe
proprio la parte più debole della popolazione.
Dunque – ammoniscono – state buoni perché non c’è
alternativa.
Singolare che a sostenere questa tesi sia proprio la
parte più forte: gli oligarchi di Bruxelles, le associazioni padronali, i
grandi trust e le corporation più aggressive, vale a dire i protagonisti del
più colossale arricchimento per predazione che si sia realizzato nel mondo sin
dai tempi dell’accumulazione originaria. Sono loro, gli spacciatori della
teoria secondo la quale “la ricchezza fa alzare tutte le barche”. Peccato che –
come ricordava il compianto Luciano Gallino – la ricchezza faccia alzare
soltanto gli yacht e che agli altri non resti che remare nelle galee di lor
signori.
Spopola nel lessico corrente un’altra accusa con cui
si vorrebbe marchiare di infamia chi si rende conto che così non si può andare
avanti: è l’accusa di “populismo”.
Ma cos’è il populismo? E’ per forza il contrassegno di
una deriva nazionalistica, di una chiusura nell’autarchia? Ma i populismi sono
stati tanti e di ogni colore e vanno letti, prima di tutto, attraverso i
contenuti della loro azione. Populisti erano anche i socialisti russi che nella
seconda metà dell’Ottocento si battevano per l’abolizione della servitù della
gleba; populista è stata la rivoluzione con cui Simon Bolivar ha trascinato al
ricatto e all’indipendenza il suo popolo; populista è stato il movimento
chavista che ha aperto, insieme a Cuba, una stagione di speranza per l’intera
America latina; populista è Podemos e lo è stata Syriza nella fase più alta
della propria ascesa.
Per dirla con le parole di Gustavo Zagrebelsky, “chi
si dà l’aria di anti-populista molto spesso dichiara implicitamente di parlare
a nome di qualche establishment, di qualche oligarchia. Il nostro riferimento
fisso non può che essere la Costituzione, che non prevede affatto la
liquidazione della sovranità popolare. Se questa verrà definitivamente a
mancare saremo in balia dell’Europa della finanza e della burocrazia”.
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