All’obbedienza –
atteggiamento moralmente peggiore del fideismo perché non richiede intima
convinzione – si viene educati da chi detiene il potere.
Qui opera un patto talvolta
implicito, talaltra esplicito, in ogni caso consapevole in entrambi i
contraenti: “tu rinunci alla tua indipendenza, alla tua creatività e ti affidi
a me; io ti ricompenserò assicurandoti protezione, garanzia di carriera…sotto
il mio ombrello non avrai nulla da temere, purché il tuo appoggio mi sia sempre
assicurato”.
Fatalmente, saranno i
mediocri più ossequienti a superare di slancio questa selezione: mediocri, ma
affidabili, perché proni al comando, quale che esso sia.
L’obbedienza non è pura
cupidigia di servilismo. Essa si regge sulla paura: la paura della punizione,
il timore di tornare ad occupare quel solo posto che le proprie modeste qualità
consentirebbero.
Il potere è centripeto,
guarda all’interno, non possiede velleità persuasive, la fascinazione che
genera è perversa: esso costringe, blandisce, ricatta, premia o punisce, tiene
in scacco.
La sua forza non viene (quasi
mai) dal consenso che riscuote, ma dal timore che incute.[1]
E’ così che proliferano
stuoli di cortigiani, solerti nel sostenere le tesi del capo, anche quando
queste si rivelano manifestamente infondate.[2]
La clonazione, a cascata, di
un funzionariato acefalo conferisce all’organizzazione una finta immagine di
forza e di coesione interna, ne mimetizza la crisi latente ma –
contemporaneamente – ne accentua la separatezza dal proprio corpo vivo. Allora,
la distanza fra rappresentanti e rappresentati (fra governanti e governati) si
allarga sino a diventare incolmabile.
E’ soprattutto nei momenti di
stagnazione sociale che le organizzazioni si sclerotizzano, che i luoghi della
rappresentanza si autonomizzano e degenerano nell’autoreferenzialità.
Organo e funzione si
separano, i mezzi divorziano dai fini, la democrazia come partecipazione
avvizzisce e lascia il posto ai riti plebiscitari.
Il leaderismo non è la
variante di una democrazia venata di autoritarismo, ne è l’esatto contrario. E’
la rinunzia al proprio ruolo, al pensare in proprio.
C’è un Cesare che pensa ed
opera per me. Egli non può sbagliare: se cade, tutto precipita.
Il dissenso diventa allora il
peggiore dei delitti, la fenditura che incrina la diga. In esso, nella
rivendicazione di criticità, si intravede il rischio della dissoluzione o di un
indebolimento delle inossidabili certezze e, soprattutto, del potere
costituito.
Il suo intrinseco monolitismo
non sa (non può) riconoscere la ricchezza della dialettica. Che invece dovrebbe
essere stimolata e accolta come una benedizione da parte di chi lavora per la
democrazia.
Per mettere alla prova la
realtà occorre vederla camminare sulla corda tesa, perché “solo quando le
verità si fanno acrobati possiamo giudicarne il valore”.[3]
Quando invece si rinuncia
alla ricerca del vero, che sempre confligge con l’inerzia della realtà data, si
impone la “verità rivelata”, appannaggio di una casta sacerdotale che
custodisce l’ortodossia e la brandisce come una clava contro chiunque vi si
opponga.
Chi dissente è un eretico, un
seminatore di discordia, da eliminare o da neutralizzare. Saranno soltanto i
tempi, le circostanze, i metodi in auge a stabilirne il modo.
Anche il potere
rivoluzionario tende fatalmente ad autocelebrarsi, ad ossificarsi, a vedere
nella dialettica che si produce al suo interno un imminente pericolo
dissolutivo ed eversivo del nuovo ordine.
Ma negando il dissenso la
rivoluzione nega se stessa: nata per abbattere il dispotismo diventa essa
stessa dispotica, si converte nel suo opposto.
Ecco perché quando si insedia
un potere, di qualsiasi natura, è indispensabile fare nascere degli anticorpi,
perché è nella fisiologia del potere mantenersi ad ogni costo.[4]
Quando il carattere
democratico di un’organizzazione viene meno, quando la regola si dissolve
nell’arbitrio, allora è necessario ribellarsi: “la disobbedienza, per chiunque
conosca la Storia, è la virtù originale dell’uomo. Con la disobbedienza il
progresso è stato realizzato; con la disobbedienza e la rivolta”.[5]
La disobbedienza, infatti,
non è mai soltanto oppositiva. In essa c’è sempre, più o meno consapevolmente,
un nucleo “costituente”. Occorre rendere esplicito e organico quel nucleo, far
vivere fino in fondo, marxianamente, lo “spirito di scissione”.[6]
Ciò significa gettare nella
lotta tutte le proprie risorse intellettuali, politiche e morali.
Se ciò non avviene, si cade
inesorabilmente nella subalternità, si apre una fase di “rivoluzione passiva”.
Sindacato e Partito
democratico- ciascuno nel proprio ambito – condividono lo stesso processo
regressivo: il primo rinunciando, in quanto ritenuta velleitaria e rétro, ad
un’autonoma soggettività del lavoro e rinculando dentro la cultura d’impresa;
il secondo riducendosi ad una variabile più potabile del pensiero liberale,
lungo una traiettoria ormai del tutto estranea all’ispirazione costituzionale.
Il nostrano riformismo ne è
un eloquente esempio: introdurre piccole dosi di nuovo per salvare il vecchio,
per consolidare l’egemonia delle classi dominanti.
Senza una critica radicale e
senza una conseguente lotta sociale la crisi del capitalismo, per quanto
profonda, si risolverà in una ristrutturazione: il capitalismo si rinnoverà
trovando in se stesso le risposte che ne consentano la perpetuazione.
In altri termini, se il
governo senza (separato dalla) società genera privilegi castali, corruzione,
degenerazione della democrazia, derive oligarchiche, la sinistra senza
(separata dalla) società, o introietta questi vizi omologandosi e, dunque,
disintegrandosi, oppure diventa proteiforme, paralizzata da un sincretismo
culturale che la rende incapace di elaborare una visione unitaria della realtà.[7]
Al contrario, essa deve
rifondare se stessa riscoprendo le proprie radici sociali nella classe
lavoratrice nella quale e per il riscatto della quale è nata,[8] nella
inestirpabile contraddizione fra capitale e lavoro, nella realtà non
esorcizzabile dello sfruttamento, nella rivendicazione della libertà e
dell’uguaglianza, nell’antagonismo fra il modo capitalistico di produzione e le
condizioni di riproduzione della specie umana come ente naturale.
[1] Si rammenti il capitolo XVII del Principe di Machiavelli (De
crudelitate et pietate, et an sit melius amari quam timeri, vel e contra) dove
il segretario fiorentino spiega che per il principe che vuole mantenere il
potere l’ideale sarebbe potere essere amato e temuto insieme, ma poiché le due
cose si trovano raramente congiunte, dovendo scegliere, è meglio essere temuto,
perché l’amore può passare, ma la paura non viene mai meno (Niccolò
Machiavelli, Il Principe, Einaudi,
Torino, 1961, pp.79-84).
[2] Si veda con quale lucidità Antonio Gramsci denunci i
pericoli di quella degenerazione autoritaria che esalta i “corifei” e mortifica
il pensiero critico, libero e indipendente: “(…) Tizio lancia un grido e tutti applaudono e si entusiasmano; il giorno
dopo la stessa gente che ha applaudito e si è entusiasmata a sentire lanciare
quel grido finge di non sentire, scantona, ecc.; al terzo giorno, la stessa
gente rimprovera Tizio, lo rintuzza e anche lo bastona. Tizio non ne capisce
nulla; ma Caio che ha comandato Tizio, rimprovera Tizio di non aver gridato
bene, o di essere un vigliacco o un inetto, ecc. Caio è persuaso che quel
grido, elaborato dalla sua eccellentissima capacità teorica deve sempre
entusiasmare e trascinare, perché nella sua conventicola infatti i presenti
fingono ancora di entusiasmarsi” (dai Quaderni
del carcere, nella versione curata da Platone, intitolata Passato e presente, Einaudi, Torino,
1952, p.70).
[3] Oscar Wilde, Aforismi,
Edizioni economiche Newton, Roma, 1993
[4] Cfr il saggio di Cesare Musatti, Il contrario, in Chi ha paura
del lupo cattivo, Editori Riuniti, Roma 1987, pp.150-9
[5] Oscar Wilde, Aforismi,
Edizioni economiche Newton, Roma 1993
[6] Vedi il saggio di Giuseppe Prestipino Dialettica, in Le parole di Gramsci, per un lessico dei Quaderni del carcere, a
cura di Fabio Frosini e Guido Liguori, Carocci, Roma, 2004, pp.55-73
[7] Il mito racconta che Proteo, ministro di Poseidone,
dio del mare, fosse capace di trasformarsi in ogni creatura per sottrarsi al
compito profetico di rivelare agli uomini la verità e il loro futuro
[8] Il mito racconta che Anteo moltiplicasse le proprie
forze sino a rendersi invincibile ogniqualvolta toccava la terra, sua madre.
Anteo viene abbattuto da Ercole solo quando questi riesce a tenerlo sollevato
per aria, prosciugando la fonte delle sue energie
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