Come è noto, con un voto fortemente
contrastato, la Corte Costituzionale ha stabilito che il referendum
sull’articolo 18 proposto dalla Cgil non è ammissibile.
La motivazione del rigetto
sta nel fatto che la maggioranza della Consulta ha ravvisato nel quesito
proposto un difetto che avrebbe trasformato il referendum da abrogativo a
propositivo, ciò che la legge non consentirebbe.
Esso avrebbe cioè non
soltanto reintegrato nella norma il divieto di licenziamento senza giusta causa
e il diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel posto di lavoro
definitivamente soppresso dal Jobs act, ma avrebbe esteso tale diritto anche ai
dipendenti di aziende e unità produttive al di sopra dei 5 e non più soltanto
al di sopra dei 15 dipendenti.
Vale la pena di notare che la
Corte si espresse in termini totalmente diversi quando Rifondazione comunista,
nel 2003, promosse un analogo e per certi versi ancor più netto referendum
sull’articolo 18 della legge 300/’70, con l’obiettivo di abbattere quella
soglia dei 15 dipendenti che spaccava in due il mondo del lavoro, lasciandone
una parte cospicua senza tutela dal sopruso padronale.
In quell’occasione la Corte
non sollevò alcuna obiezione, il referendum si svolse regolarmente ma non
raggiunse il risultato sperato perché il quorum non fu raggiunto.
Si recò alle urne “solo” il
25,5% del corpo elettorale, più di 12 milioni di cittadini, 10.572.000 dei
quali (l’86%) si espresse favorevolmente all’estensione del diritto, malgrado
l’opposta indicazione di voto di tutto il Centrosinistra e dei suoi capintesta.
La circostanza la dice lunga
sui tempi che viviamo e su quanto spazio la crociata contro il lavoro abbia
scavato trincee anche nella testa dei giudici costituzionali.
Ora i referendum rimasti in
campo sono soltanto due: quello per l’abolizione dei voucher e quello che
chiede di cambiare la normativa sugli appalti, affermando la responsabilità in
solido fra appaltante e appaltatore.
Ora vedrete che il governo
proverà a mettere una pecetta sulla normativa dei voucher per sottrarre anche
questo tema alla consultazione popolare.
A quel punto la frittata sarà
fatta, perché in campo resterà soltanto la pur importante partita sugli
appalti, probabilmente non sufficiente a scaldare i cuori sino a portare alle
urne la metà degli elettori.
Questo stato delle cose apre
una riflessione che non può essere rinviata e che chiama in causa proprio la
Cgil, colpevolmente inerte e persino complice quando la manomissione delle
leggi sul lavoro fu prodotta.
Il ricorso al referendum, in
“articulo mortis”, è stato il tentativo di rimontare con un colpo d’ala il
terreno perduto. Ma un compito così arduo non lo si può svolgere cercando
scorciatoie elettorali.
Il sindacato deve
innanzitutto tornare a fare il sindacato, organizzando e guidando i lavoratori nella
battaglia sociale per la riconquista della dignità perduta.
Nessun commento:
Posta un commento