lunedì 14 novembre 2016

Lezioni americane







Lezioni americane

A cose fatte assistiamo ad uno sciame di piagnistei fra i democratici e progressisti americani ed europei per la vittoria di Donald Tramp, il quale contro il pronostico di quasi tutti i media statunitensi ha incassato oltre 60 milioni di voti e vinto in 29 Stati, proprio in quelli decisivi del midwest operaio dove deindustrializzazione, disoccupazione e caduta dei salari hanno morso di più e dove l’affluenza al voto è stata superiore a quella del 2012.
Per capire cosa è successo e perché occorre fare un passo indietro. Nelle primarie democratiche era prepotentemente emerso un fatto nuovo che si chiama Bernie Sanders. Il settantaquattrenne senatore indipendente del Vermont aveva deciso di entrare in lizza per la presidenza nel partito democratico, si era definito socialista, senza se e senza ma, e aveva presentato un programma di nettissima impronta sociale quale mai si era visto nella storia delle elezioni presidenziali americane. Sanders aveva tutto contro di sé,
e invece ha preso ben 13 milioni di voti e ha vinto in 15 Stati. I giovani hanno visto in lui un candidato lontano anni luce dal funzionamento corrente dell’economia e della società e l’hanno votato con una percentuale del 71%, con punte dell’86% in Nevada, dell’84 in New Hampshire, dell’80% negli Stati del Midwest. Per quattro mesi egli ha destabilizzato il sistema politico statunitense, ha fatto tremare l’establishment, ha rischiarato il plumbeo orizzonte delle anemiche sinistre mondiali. L’esito era segnato, ma questa scossa ha fornito un’indicazione nitida per un possibile percorso alternativo. La conventio ad excludendum regna sovrana nel sistema politico statunitense rigidamente bipolare: i tentativi di fondare un terzo partito sono sempre stati respinti e neutralizzati. Fin dall’800 negli USA c’è stato un fortissimo pregiudizio antisocialista: con interventi di milizie private della Pinkerton contro scioperanti e manifestanti. A differenza di Hillary Clinton, Sanders non ha mai votato a favore della guerra in Iraq; a differenza di Barack Obama, non è uno che promette di chiudere Guantanamo e dopo 8 anni quella vergogna sta ancora lì; né è uno che scende a patti con le banche.
Sanders ha sempre tenuto un linguaggio che ricorda quello di Franklin Delano Roosevelt. Il voto per Sanders ha espresso l’indignazione di fronte allo strapotere delle banche, di fronte alla doppia legalità, una che vale per i comuni cittadini e una che vale per Wall Street e per la grande finanza che può sperperare miliardi di dollari e che comunque non pagherà mai perché sarà sempre salvata da uno Stato complice.
Sanders ha commesso solo un errore. Quello di non portare lo scontro sino alle estreme conseguenze; quello di andare in soccorso di Hillary Clinton; quello di non cogliere l’occasione di fare ciò che non era mai accaduto prima: rompere la coazione verso i due partiti tradizionali, entrambi espressione delle classi dominanti; quello di non fondare il Partito socialista d’America.
Così ai cittadini non è rimasto che scegliere fra la Clinton, creatura di Wall street, dell’establishment finanziario, delle lobbies armiere militari legate al Pentagono, e il miliardario newyorkese, razzista, misogino, omofobo, contrario alla cultura ambientalista, ma almeno a parole disposto a farsi carico della disoccupazione, degli investimenti necessari alla ripresa interna e altrettanto ostile alla politiche aggressive della Nato. Molti americani hanno così scelto fra le sole due pietanze loro offerte, fra la padella e la brace.

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